Innocente - PDF Free Download (2024)

JOHN GRISHAM INNOCENTE (The Innocent Man, 2006) Dedicato a Annette Hudson e Renee Simmons e alla memoria del loro fratello 1 Le dolci colline del Sudest dell'Oklahoma, da Norman fino al confine con l'Arkansas, un tempo erano ricche di petrolio. La campagna è punteggiata di vecchi impianti di trivellazione. I pochi ancora in funzione tirano su a fatica quantità così esigue di greggio che passandoci vicino è inevitabile chiedersi se ne valga la pena; molti sono dismessi, strutture di metallo corroso fra il verde a ricordare tempi più prosperi. Intorno a Ada, una cittadina di sedicimila abitanti con un college e un tribunale di contea, gli impianti sono fermi ormai da tempo, perché i pozzi sono esauriti. Ormai a Ada l'economia ruota intorno alle fabbriche di mangimi e alle coltivazioni di pecan. Il centro della città è vivo. Non ci sono palazzi abbandonati o botteghe chiuse da assi di legno: i commercianti sopravvivono, benché la maggior parte dei negozi si sia trasferita in periferia, e all'ora di pranzo bar e ristoranti sono pieni. Il palazzo di giustizia è piccolo, vecchio e sempre pieno di gente. Vicino, ci sono uffici amministrativi, diversi studi legali e il carcere, un bunker privo di finestre, occupato prevalentemente da spacciatori e tossicomani. In fondo alla via principale della città, Main Street, c'è il campus della East Central University, che ha quattromila iscritti, molti dei quali vanno e vengono dalle città vicine. L'università rende la cittadina più vitale, attira molti giovani e dà un tocco di multiculturalismo al Sudest dell'Oklahoma. Il quotidiano locale si chiama "Ada Evening News", copre tutta la regione e cerca di competere con "The Oklahoman", la principale testata. In genere la prima pagina tratta notizie nazionali e internazionali, e all'interno ci sono fatti di cronaca statale e locale, politica, sport e necrologi. Gli abitanti di Ada e della contea di Pontotoc sono un gradevole mix fra meridionali di provincia e occidentali indipendenti. Il loro accento non è molto diverso da quello del Texas orientale o dell'Arkansas, con le vocali

allungate. È la terra dei Chickasaw. Nell'Oklahoma ci sono più nativi americani che in qualsiasi altro Stato del Nordamerica e quasi tutti i bianchi hanno un po' di sangue pellerossa. Un tempo se ne vergognavano, adesso ne vanno fieri. Ada è compresa nella cosiddetta Bible Belt, e vanta cinquanta chiese e una dozzina di confessioni cristiane diverse. Ci sono anche una chiesa cattolica e una episcopale, ma niente templi né sinagoghe. La maggioranza della popolazione è o si dichiara cristiana, in genere appartiene a una congregazione specifica, è attivamente praticante e non si limita ad andare in chiesa la domenica. Lo status sociale è spesso determinato dall'affiliazione religiosa. Con i suoi sedicimila abitanti, Ada è considerata una città grande nell'Oklahoma rurale e ha parecchi stabilimenti industriali e centri commerciali che attirano gente dalle contee vicine. Si trova circa centotrenta chilometri a sud di Oklahoma City e tre ore a nord di Dallas. Tutti conoscono qualcuno che lavora o che abita in Texas. Il suo vanto principale sono i cavalli da corsa. Alcuni dei più grandi campioni vengono infatti da allevatori locali. E quando gli Ada High Cougars vincono il campionato statale di football, la città festeggia per anni. La gente è cordiale, tutti si parlano, sono cortesi con gli sconosciuti e sempre pronti a dare una mano a chi ne ha bisogno. I bambini giocano nei giardini davanti a casa, di giorno la gente lascia la porta aperta e la notte i ragazzi fanno le loro solite bravate, ma senza mai causare grossi problemi. Se non fosse stata teatro di due omicidi all'inizio degli anni Ottanta, Ada sarebbe rimasta sconosciuta al mondo. E la gente della contea di Pontotoc sarebbe stata più contenta. Come obbedendo a una legge non scritta, la maggior parte dei night e dei locali malfamati di Ada erano in periferia, relegati ai margini in maniera tale da tenere la marmaglia lontana dalla brava gente. Il Coachlight, una baracca di metallo male illuminata, con birra scadente, jukebox, pista da ballo e musica dal vivo il weekend, era fra questi. Nel suo ampio parcheggio di ghiaia si contavano sempre molti più pick-up che berline. Era frequentato perlopiù da operai che si fermavano per un bicchiere dopo il turno in fabbrica e da ragazzi di campagna in cerca di divertimento, specie quando c'era la musica dal vivo o si ballava. Vi si esibirono anche Vince Gill e Randy Travis, agli inizi della loro carriera. Era un locale popolare e sempre pieno, con parecchio personale fra bari-

sti, buttafuori e cameriere. Una di queste si chiamava Debbie Carter, aveva ventun'anni, era nata e cresciuta lì, si era diplomata alla Ada High School e viveva da sola. Faceva altri due lavoretti part-time e ogni tanto faceva anche la baby-sitter. Aveva la macchina e abitava in un appartamento di tre locali sopra un garage in Eighth Street, vicino alla East Central University. Era graziosa, bruna, snella, con un bel fisico scattante, piaceva ai ragazzi ed era molto indipendente. Sua madre, Peggy Stillwell, era preoccupata del fatto che la figlia passasse tanto tempo al Coachlight e in altri locali del genere. L'aveva educata a solidi principi cristiani e avrebbe preferito che facesse una vita diversa. Invece, dopo il liceo Debbie aveva cominciato a uscire sempre la sera e a tornare tardi. Sua madre protestava e spesso bisticciavano. Così Debbie si era cercata casa ed era andata a vivere da sola. Voleva la propria indipendenza, ma era comunque molto affezionata alla madre. La sera del 7 dicembre 1982, Debbie era di turno al Coachlight. Serviva ai tavoli, ma c'era poco lavoro e lei era impaziente; a un certo punto chiese al suo capo se poteva smontare prima, visto che erano arrivati dei suoi amici. Lui acconsentì e Debbie andò a sedersi al tavolo con Gina Vietta, che conosceva dai tempi del liceo, e altra gente. A un certo punto un ex compagno di scuola, Glen Gore, la invitò a ballare. Debbie accettò, ma prima che il pezzo finisse si allontanò arrabbiata. In seguito, nella toilette, disse che si sarebbe sentita più sicura se una delle sue amiche fosse andata a dormire da lei, senza però specificare perché. Il Coachlight cominciò a chiudere presto, intorno a mezzanotte e mezzo, e Gina Vietta invitò alcuni del gruppo a bere qualcosa a casa sua. Molti accettarono, ma Debbie disse di essere stanca e affamata, e preferì andare a casa. Si salutarono fuori del locale, senza particolare fretta. Diverse persone videro Debbie parlare con Glen Gore nel parcheggio del Coachlight. Tommy Glover conosceva bene Debbie perché lavoravano tutti e due nella stessa vetreria. Conosceva anche Glen Gore. Mentre saliva sul pick-up, lo vide vicino alla macchina di Debbie. Parlarono qualche secondo, poi la ragazza lo spinse via. Mike e Terri Carpenter lavoravano tutti e due al Coachlight, lui come buttafuori e lei come cameriera. Mentre andavano verso la loro macchina, passarono davanti a quella di Debbie. La ragazza era seduta al volante e parlava con Glen Gore, che era in piedi vicino alla portiera. I Carpenter li salutarono e proseguirono. Un mese prima, Debbie aveva confidato a Mike di aver paura di Glen Gore e del suo caratteraccio.

Toni Ramsey faceva la lustrascarpe al Coachlight. Nel 1982 i pozzi petroliferi fruttavano ancora molti quattrini e a Ada c'erano parecchi ricconi che si facevano lucidare gli stivali. Toni li accontentava. Conosceva bene Glen Gore. Uscendo dal Coachlight, quella sera, vide Debbie seduta al volante e Gore chino a parlarle dalla parte del passeggero, con la portiera aperta. Sembravano tranquilli e Toni non si preoccupò. Gore non aveva l'automobile e si era fatto dare un passaggio da un amico che si chiamava Ron West. Erano arrivati al Coachlight verso le undici e mezzo; West aveva ordinato da bere e Gore era andato a salutare degli amici. Sembrava conoscere tutti. Quando i baristi annunciarono che il bar stava per chiudere, West andò da Gore per chiedergli se aveva bisogno di un passaggio anche per tornare a casa. Gore disse di sì. West cominciò a uscire. Dopo pochi minuti, Gore lo raggiunse di corsa. Decisero di andare al Waffler, un caffè del centro, dove ordinarono uova e pancetta. A pagare il conto fu West, che aveva già offerto da bere al Coachlight. West aveva iniziato la serata all'Harold's Club, dove sperava di trovare dei colleghi e dove invece aveva incontrato Gore, che ogni tanto lavorava lì come barista e disc jockey. Non erano amici, ma quando Gore gli aveva chiesto un passaggio fino al Coachlight, West non se l'era sentita di dirgli di no. Felicemente sposato e padre di due bambine, in genere non faceva le ore piccole. Sarebbe rientrato prima anche quella sera, ma non riusciva a staccarsi di dosso Gore, che oltretutto si stava rivelando uno scroccone. Usciti dal Waffler, West gli chiese dove voleva che lo portasse. A casa di sua madre, rispose lui, in Oak Street. Oak Street era a pochi isolati dal Waffler e West vi si diresse. A metà strada, però, Gore cambiò improvvisamente idea. Voleva fare due passi, disse. Eppure faceva freddo e tirava un vento gelido, perché si stava avvicinando una perturbazione. West accostò in Oak Avenue all'altezza della chiesa battista, non lontano da dove Gore aveva detto che abitava sua madre. Gore scese, ringraziò e si incamminò in direzione ovest. La chiesa battista era a circa un chilometro e mezzo dall'appartamento di Debbie Carter. La madre di Gore in realtà abitava da tutt'altra parte, molto distante da quella chiesa. Gina Vietta era a casa con i suoi amici, quando verso le due e mezzo ricevette due strane telefonate, entrambe da Debbie Carter. Nella prima, Debbie le chiedeva di andarla a prendere con la macchina, perché a casa

sua c'era una persona che la metteva in ansia. Gina le domandò chi era, ma la conversazione si interruppe. Gina sentì delle voci e dei rumori come di colluttazione, e pensò che qualcuno avesse strappato di mano il telefono a Debbie. Giustamente si preoccupò. Debbie aveva la propria auto, una Oldsmobile del 1975, ed era molto strano che le avesse chiesto di andarla a prendere. Gina stava già uscendo di casa per raggiungerla, quando il telefono squillò un'altra volta. Era di nuovo Debbie, la quale diceva di aver cambiato idea: era tutto a posto, non era il caso che Gina andasse da lei. Gina le chiese nuovamente chi fosse l'uomo a casa sua, ma Debbie non fece nomi e cambiò discorso. Chiese a Gina di chiamarla la mattina dopo per darle la sveglia, in maniera da non fare tardi al lavoro. Era una richiesta strana, che Debbie non aveva mai fatto prima. Gina era indecisa: da una parte era preoccupata per l'amica, dall'altra sapeva che era una ragazza responsabile e indipendente, che era in grado di cavarsela da sola. Era tardi, aveva gente in casa e anche Debbie non era sola: forse era meglio non disturbare. Così andò a letto, e la mattina dopo si dimenticò di chiamare l'amica. Verso le undici dell'8 dicembre, Donna Johnson andò a fare un salto da Debbie. Ai tempi del liceo, prima di trasferirsi a Shawnee, a un'ora di distanza da Ada, lei e Debbie erano inseparabili. Quel giorno era venuta in città per vedere i suoi genitori e alcuni amici. Appena ebbe preso la stretta scala che portava all'appartamento di Debbie, vide che sui gradini c'erano dei cocci e che il vetro della porta era rotto. Il suo primo pensiero fu che Debbie si fosse dimenticata le chiavi in casa e avesse spaccato il vetro per entrare. Bussò, ma nessuno le rispose. Sentiva che in casa c'era una radio accesa, che trasmetteva musica. Provò a girare la maniglia e si accorse che la porta non era chiusa a chiave. Entrò e subito capì che era successo qualcosa. Il soggiorno era completamente a soqquadro: i cuscini del divano erano per terra, c'erano vestiti sparsi ovunque. Sul muro alla sua destra c'era una scritta in rosso: IL PROSIMO E JIM SMITH. Donna chiamò Debbie, senza ottenere risposta. Essendo già stata lì, sapeva dov'era la camera da letto. Ci entrò, continuando a chiamare l'amica. Il Ietto era stato spostato e le lenzuola erano state tirate via. Donna vide un piede spuntare da dietro il letto. Debbie era lì, a faccia in giù, nuda, con una scritta sulla schiena. Paralizzata dall'orrore, Donna restò a guardare l'amica, come aspettando che respirasse, incapace di fare un altro passo. Forse era solo un sogno,

pensò. Andò in cucina e vide che l'assassino aveva lasciato una scritta anche sul tavolino bianco. E se fosse stato ancora lì? Spaventata, corse fuori, prese la macchina e andò a cercare un telefono per chiamare la madre di Debbie. Peggy Stillwell la ascoltò, incredula. Sua figlia era stesa per terra nuda, insanguinata, immobile? Se lo fece ripetere un'altra volta e poi uscì di corsa a prendere la macchina. Ma l'auto non partiva: aveva la batteria scarica. Peggy Stillwell allora tornò in casa in preda al panico e chiamò Charlie Carter, il padre di Debbie. I due avevano divorziato qualche anno prima, non erano in buoni rapporti e non si parlavano quasi. A casa di Charlie Carter non rispondeva nessuno. A Peggy venne in mente che di fronte a Debbie abitava una sua amica, che si chiamava Carol Edwards. La chiamò e le chiese di andare a controllare a casa di sua figlia, perché temeva fosse successo qualcosa di molto brutto. Poi aspettò che la richiamasse. Nel frattempo, provò di nuovo a contattare Charlie, che finalmente le rispose. Carol Edwards andò a casa di Debbie e notò i vetri per terra. Entrò e vide il cadavere. Charlie Carter era un muratore grande e grosso, che occasionalmente lavorava come buttafuori al Coachlight. Salì sul pick-up e corse a casa della figlia, in preda ai pensieri più terribili che possa avere un padre. Ma la scena che gli si parò davanti era peggiore di quanto avesse immaginato. Quando vide la figlia, la chiamò due volte. Poi si chinò e le sollevò dolcemente una spalla per guardarla in faccia. Aveva uno straccio insanguinato in bocca e sembrava morta. Aspettò che desse qualche segno di vita e, non vedendone, si rialzò in piedi e si guardò intorno. Il letto era stato spostato, spinto lontano dal muro, le lenzuola erano state strappate via, la stanza era nel caos più totale: era chiaro che c'era stata una colluttazione. Carter andò in salotto e vide la scritta sul muro. Poi andò a dare un'occhiata in cucina, si rese conto che quella casa ormai era la scena di un crimine, mise le mani in tasca e uscì. Fuori della porta c'erano Donna Johnson e Carol Edwards, in lacrime. Sentirono Carter porgere l'estremo saluto alla figlia e dirle che gli dispiaceva che fosse finita così. Quando uscì, stava piangendo anche lui. «Chiamo l'ambulanza?» chiese Donna. «No» rispose lui. «Ormai l'ambulanza non serve più. Chiama la polizia.» Arrivarono due paramedici, che salirono la scala ed entrarono nell'appar-

tamento. Dopo pochi secondi, uno uscì di corsa e vomitò sul pianerottolo. Quando arrivò l'ispettore Dennis Smith, fuori della casa c'erano agenti, paramedici, curiosi e persino due procuratori. Dato che presumibilmente era stato commesso un omicidio, Smith mise la casa sotto sequestro, fece uscire tutti e impedì l'accesso ai non addetti ai lavori. Lavorava da diciassette anni in polizia e sapeva che cosa bisognava fare. Mandò un gruppo di agenti a controllare nelle case vicine se qualcuno aveva visto o sentito qualcosa. Era furibondo, anche se cercava di controllarsi: conosceva bene Debbie, la cui sorella minore era amica di sua figlia. Conosceva anche Charlie Carter e Peggy Stillwell, e non riusciva a capacitarsi del fatto che la loro figlia fosse stesa per terra in camera da letto, morta. Appena ebbe tutto sotto controllo, cominciò il sopralluogo di quella che era diventata la scena di un crimine. I cocci sul pianerottolo e sulle scale venivano dal vetro della porta di ingresso, che era stato rotto sia dall'interno sia dall'esterno. Nel salotto c'era un divano, i cui cuscini erano stati gettati qua e là per la stanza. Per terra c'era una vestaglia di flanella nuova, con il cartellino di Wal-Mart ancora attaccato. Sul muro di fronte osservò la scritta, che capì subito essere stata fatta con smalto per unghie. IL PROSIMO E JIM SMITH. Conosceva anche Jim Smith. In cucina, sul piccolo tavolo bianco, vide un altro messaggio, che gli parve scritto con il ketchup: NON VENITECI A CERCARE. Per terra, vicino al tavolo, c'erano dei jeans e un paio di stivali. Erano quelli che Debbie indossava la sera prima al Coachlight. Entrò in camera. Il letto bloccava parzialmente la porta, le finestre erano spalancate e le tende aperte: nella stanza faceva molto freddo. Prima di morire, Debbie doveva aver lottato ferocemente contro il suo aggressore, perché per terra c'erano indumenti, lenzuola, coperte, animaletti di peluche. Il disordine era totale. Quando Smith si inginocchiò accanto al cadavere, notò il terzo messaggio lasciato dall'assassino. Sulla schiena di Debbie c'era scritto, forse con il ketchup, DUKE GRAM. Smith conosceva Duke Graham. Sotto il cadavere c'erano un filo elettrico e un cinturone da cowboy con una grossa fibbia argentata su cui era inciso il nome DEBBIE. Mentre Mike Kieswetter, del dipartimento di polizia di Ada, scattava foto, Smith iniziò il repertamento. Trovò peli e capelli sul cadavere, per terra, sul letto, sugli animaletti di peluche. Li raccolse uno per uno e li mise in fogli di carta piegati, prendendo nota di dove erano stati trovati.

Prese, etichettò e infilò in sacchi di plastica anche lenzuola, federe, coperte, il filo elettrico e la cintura, un paio di slip strappati che trovò sul pavimento del bagno, alcuni peluche, un pacchetto di Marlboro, una lattina di 7-Up vuota, una boccetta di plastica di shampoo, alcuni mozziconi di sigaretta, un bicchiere trovato in cucina, il telefono, alcuni peli e capelli trovati sotto il cadavere. Avvolta in un lenzuolo, vicino alla morta, c'era una bottiglietta di ketchup Del Monte. Anch'essa fu accuratamente avvolta nella plastica, per essere mandata ai laboratori di Stato. Mancava il tappo. L'avrebbe ritrovato in seguito il medico legale. Finito di raccogliere indizi, l'ispettore Smith cominciò a rilevare le impronte digitali, cosa che aveva già fatto in occasione di molti altri delitti. Passò l'apposita polvere su entrambi i lati della porta di ingresso, sui telai delle finestre e su tutte le superfici in legno della camera da letto, sul tavolo della cucina, sui frammenti di vetro più grossi, sul telefono, sui rivestimenti intorno a porte e finestre e persino sulla macchina di Debbie, che era parcheggiata lungo la strada. Gary Rogers era un agente dell'Oklahoma State Bureau of Investigation, l'OSBI, e abitava a Ada. Quando arrivò, intorno a mezzogiorno e mezzo, Dennis Smith gli spiegò la situazione. I due si conoscevano bene e avevano già lavorato assieme in molte occasioni. Nella stanza da letto, Rogers notò una macchia di sangue sulla parete sud, appena sopra lo zoccolino, vicino a una presa di corrente. Per conservarla, dopo che il cadavere fu portato via, chiese a Rick Carson di asportare una sezione di dieci centimetri per dieci del rivestimento del muro. Sia Dennis Smith sia Gary Rogers ebbero subito l'impressione che l'assassino non avesse agito da solo. Il caos generale, l'assenza di segni di legacci sulle caviglie e sui polsi della vittima, le lesioni sul viso, lo straccio in bocca, i lividi sui fianchi e sulle braccia, il probabile utilizzo del filo elettrico e della cintura facevano pensare alla presenza di più di una persona. Inoltre Debbie era alta un metro e settantatré, pesava cinquantotto chili ed era una ragazza determinata che di sicuro aveva lottato strenuamente per salvarsi la vita. Il dottor Larry Carimeli, medico legale, arrivò per ispezionare velocemente il cadavere. La sua impressione iniziale fu che la ragazza fosse morta per strangolamento. Autorizzò la rimozione del corpo. A occuparsene fu Tom Criswell, titolare dell'impresa di pompe funebri della città, che trasferì la salma su un carro funebre e la portò all'istituto di medicina legale di Oklahoma City, dove arrivò alle 18.25 di quel giorno e venne posta in una

cella frigorifera. L'ispettore Smith e l'agente Rogers tornarono in centrale e parlarono con i familiari della vittima. Offrirono loro un po' di conforto e approfittarono del colloquio per chiedere nomi di amici, nemici, ragazzi, ex ragazzi, colleghi, datori di lavoro e conoscenti che potessero sapere qualcosa. L'elenco era lungo e Smith e Rogers decisero di cominciare dai maschi. Telefonarono a tutti, chiedendo di passare in centrale per fornire impronte digitali, un campione di saliva, un capello e un pelo pubico. Nessuno rifiutò. Mike Carpenter, il buttafuori del Coachlight che aveva visto Debbie con Glen Gore nel parcheggio del locale intorno a mezzanotte e mezzo, fu uno dei primi a presentarsi. Anche Tommy Glover, altro testimone dell'incontro fra Debbie e Gore, fu sollecito a fornire i campioni biologici. L'8 dicembre intorno alle 19.30 Glen Gore si presentò all'Harold's Club, dove lavorava come barista e deejay. Non c'era praticamente nessuno. Chiese come mai il locale era vuoto e gli dissero dell'omicidio. Erano andati tutti alla stazione di polizia a parlare con gli ispettori e a fornire le proprie impronte digitali. Anche Gore fu invitato a recarvisi. Venne interrogato da Gary Rogers e D.W. Barrett, del dipartimento di polizia di Ada. Disse loro che conosceva Debbie Carter dai tempi del liceo e che l'aveva incontrata al Coachlight la sera prima. Il verbale recita: Glen Gore è dipendente dell'Harold's Club, dove svolge le mansioni di disc jockey. Lì è venuto a sapere della morte di Debbie Carter intorno alle ore 19.30 dell'8/12/82, da Susie Johnson. Conosceva la vittima perché hanno frequentato lo stesso liceo. Dichiara di averla incontrata lunedì 6 dicembre all'Harold's Club e martedì 7 al Coachlight. Hanno parlato della carrozzeria dell'auto della Carter, che andava riverniciata. Lei non ha accennato a problemi personali. Gore è andato al Coachlight intorno alle ore 22.30 insieme a Ron West e di lì è andato via, sempre con West, intorno all'1.15. Dichiara di non essere mai stato in casa della Carter. A redigere il verbale, che venne archiviato insieme a decine di altri, fu D.W. Barrett, in presenza di Gary Rogers.

Gore in seguito cambiò la propria deposizione e disse di aver visto un uomo che si chiamava Ron Williamson infastidire Debbie Carter la sera del 7 dicembre. Questo particolare non sarebbe stato confermato da nessuno. Molte delle persone presenti al Coachlight quella sera conoscevano Williamson, che quando beveva alzava la voce e attaccava bottone con tutti, ma nessuno ricordava di averlo visto al Coachlight quella sera. Anzi, molti affermarono con convinzione che non c'era. Eppure, se Ron Williamson era in un bar, se ne accorgevano tutti. Stranamente, la sera dell'8 dicembre a Gore non vennero rilevate le impronte, né furono prelevati campioni biologici. Forse sgattaiolò via di nascosto, o forse qualcuno chiuse un occhio: fatto sta che andò via senza lasciare né impronte digitali, né saliva, né capelli, né peli. Dovevano passare tre anni e mezzo perché la polizia di Ada li reclamasse. Eppure Glen Gore era l'ultima persona vista assieme alla vittima prima della sua morte. Il giorno dopo, 9 dicembre, verso le tre del pomeriggio, il dottor Fred Jordan effettuò l'esame autoptico in presenza di Gary Rogers e di Jerry Peters, dell'OSBI. Il dottor Jordan, anatomopatologo di provata esperienza, cominciò con l'osservare che il cadavere apparteneva a un individuo di sesso femminile, razza bianca, giovane, senza alcun indumento a parte un paio di calzini bianchi. Il rigor mortis era completo, a indicare che la morte doveva essere avvenuta da almeno ventiquattr'ore. Sul petto era stato scritto MUORI con quello che a prima vista sembrava smalto per unghie rosso. Sul corpo vi erano macchie di un'altra sostanza rossa, probabilmente ketchup, e sulla schiena un'altra scritta, DUKE GRAM, sempre fatta con il ketchup. Su braccia, petto e volto erano presenti numerosi lividi. All'interno delle labbra vi erano alcune lesioni. Nella cavità orale era infilato uno straccio verde intriso di sangue, che Jordan rimosse con delicatezza. Intorno al collo la vittima presentava lividi e abrasioni. C'erano lividi anche in corrispondenza della vagin* e il retto era dilatato. Il dottor Jordan lo esaminò e riscontrò la presenza di un tappo metallico a vite, che rimosse. L'esame interno non rivelò nulla di inatteso: i polmoni erano collassati, il cuore dilatato, in corrispondenza dei lividi sul cuoio capelluto non vi erano lesioni cerebrali. Tutte le ferite erano state procurate prima del decesso. Non vi erano segni su polsi e caviglie a indicare che la donna fosse stata

legata. I piccoli lividi sugli avambracci indicavano che probabilmente aveva tentato di difendersi. Il tasso alcolemico al momento del decesso era basso: 0,04. Furono effettuati tamponi orali, vagin*li e rettali. L'esame al microscopio rivelò la presenza di liquido seminale nella vagin* e nel retto, ma non in bocca. Il dottor Jordan tagliò le unghie della vittima, prelevò un campione di ketchup e uno di smalto per unghie, raccolse peli pubici e capelli, e asportò una piccola sezione di cuoio capelluto. Debbie Carter era morta per asfissia, causata in parte dallo straccio infilato in bocca e in parte dalla pressione della cintura e/o filo elettrico sulla trachea. Quando il dottor Jordan ebbe concluso l'esame, Jerry Peters fotografò il corpo e le prese le impronte delle dita e del palmo. Peggy Stillwell era sconvolta. Non riusciva a connettere, non era in grado di prendere decisioni. Non voleva pensare al funerale, non voleva neppure prendervi parte. Non mangiava, non si lavava, non riusciva ad accettare che sua figlia fosse morta. La sorella, Glenna Lucas, andò da lei e si occupò di tutto. Organizzò il funerale, nella cappella della Criswell Funeral Home, sabato 11 dicembre, e cercò di convincere Peggy ad assistervi. La cerimonia fu celebrata. Glenna aiutò la sorella a lavarsi e a vestirsi, la accompagnò e le tenne la mano per tutta la funzione. In Oklahoma la maggior parte dei funerali vengono celebrati con la bara aperta sotto il pulpito, in maniera che i presenti possano vedere il morto. Le ragioni di questa usanza sono ignote, ormai perdute nel tempo. L'effetto è straziante. Debbie, nella bara, aveva la faccia livida e gonfia. I segni dello strangolamento, per fortuna, erano nascosti dal colletto di pizzo della camicia. Fu seppellita con i suoi jeans e i suoi stivali preferiti, un cinturone da cowboy con una grossa fibbia e l'anello con i brillantini a ferro di cavallo che sua madre aveva in programma di regalarle per Natale. Il reverendo Rick Summers celebrò il funerale davanti a una folla numerosissima. Nevicava quando la salma venne tumulata nel cimitero di Rosebud. A piangerla c'erano i genitori, le sorelle, due nonni e due nipoti. Debbie faceva parte di una piccola chiesa battista, dov'era stata battezzata all'età di sei anni. L'omicidio destò molto scalpore a Ada. La città aveva una ricca storia di morti e violenza, che però riguardavano quasi esclusivamente cowboy,

sbandati e malviventi che, se non fossero morti ammazzati, prima o poi avrebbero ammazzato loro qualcuno. Il brutale omicidio di una giovane donna, invece, era scioccante. Pettegolezzi e congetture si sprecavano. La città aveva paura. Di notte porte e finestre venivano sprangate. I genitori imposero orari più restrittivi ai figli adolescenti e cominciarono a sorvegliare i bambini anche quando giocavano in giardino. Nei bar non si parlava d'altro. Debbie era molto conosciuta, anche per via del suo lavoro. Aveva avuto un certo numero di ragazzi, che la polizia interrogò nei giorni successivi alla sua morte. Questi fecero i nomi di altri amici, altri conoscenti, altri ragazzi che, a loro volta, fecero altri nomi. Gli interrogatori furono moltissimi, ma inconcludenti. Debbie era una ragazza popolare, socievole, simpatica a tutti, ed era difficile credere che qualcuno avesse voluto farle del male. La polizia stilò un elenco di ventitré persone che la sera del 7 dicembre erano al Coachlight e le interrogò tutte. Benché molte di loro conoscessero Ron Williamson, nessuno ricordava di averlo visto nel locale. Arrivarono soffiate, storie bizzarre, improvvisi ricordi di strane persone. Una certa Angelia Nail, molto amica di Debbie Carter, contattò Dennis Smith e gli riferì di un incontro fra la vittima e Glen Gore. Debbie aveva litigato con Gore perché era convinta che le avesse rubato i tergicristalli della macchina. Si conoscevano dai tempi del liceo e Debbie aveva paura di lui. Più o meno una settimana prima dell'omicidio, Angelia l'aveva accompagnata a casa di Gore, perché gli doveva parlare. Debbie era entrata in casa da sola, l'aveva affrontato ed era tornata arrabbiata e assolutamente sicura che a prenderle i tergicristalli fosse stato proprio lui. Angelia l'aveva accompagnata anche alla polizia, ma Debbie aveva parlato con un agente e poi non aveva sporto denuncia. Sia Duke Graham sia Jim Smith erano noti alla polizia di Ada. Graham e sua moglie Johnnie gestivano un nightclub abbastanza ben frequentato, dove non venivano tollerati certi comportamenti e le risse erano rare. Ce n'era stata una piuttosto brutta, tuttavia, che aveva coinvolto Jim Smith, un piccolo delinquente dal carattere violento. Jim era ubriaco e litigioso e, siccome si rifiutava di andarsene, Duke aveva tirato fuori una pistola. Erano volate pesanti minacce e per giorni la tensione nel locale era stata altissima: Jim Smith era il tipo da tornare con una pistola e fare una strage. Glen Gore era stato un habitué in quel night, finché non aveva cominciato a flirtare troppo apertamente con Johnnie. Si era spinto troppo in là, Jo-

hnnie si era ribellata e Duke era intervenuto. Gore non aveva mai più messo piede nel locale. L'assassino di Debbie Carter aveva goffamente cercato di incolpare Duke Graham e al tempo stesso di spaventare Jim Smith. Ma Jim Smith in quel periodo era in carcere e Duke Graham aveva un alibi di ferro. L'appartamento di Debbie doveva essere sgomberato, ma Peggy Stillwell non era in grado di farlo. Perciò ci pensò sua sorella, Glenna Lucas. Le aprì la porta un poliziotto. Dalla sera dell'omicidio non era stato spostato niente e la prima reazione della donna fu di pura e semplice rabbia. Era chiaro che sua nipote aveva lottato disperatamente, prima di soccombere. Quale mostro poteva essersi accanito con tanta violenza su una ragazza così dolce e simpatica? La casa era fredda, impregnata di un odore nauseante che Glenna Lucas non sapeva riconoscere. Sulla parete c'era ancora la scritta IL PROSIMO E JIM SMITH. Glenna Lucas la guardò incredula. L'assassino doveva aver impiegato un mucchio di tempo a imbrattare quel muro. Quanto era stato lì? Debbie doveva aver lottato fino all'ultimo. La camera era a soqquadro, il materasso contro il muro, i vestiti in fondo all'armadio. Perché l'assassino aveva tolto gli abiti dalle grucce? La cucina era in disordine, ma senza segni di lotta come le altre stanze. L'ultima cena di Debbie comprendeva patatine surgelate, ancora su un piatto di carta, spruzzate di ketchup. Vicino al piatto, sul tavolo bianco, c'erano una saliera e un altro messaggio scritto con il ketchup: NON VENITECI A CERCARE. Glenna era scioccata. Cercò di scacciare i brutti pensieri e si mise al lavoro. Impiegò due ore a raccogliere e imballare le cose di Debbie. La polizia non aveva preso il copriletto insanguinato e il pavimento era ancora sporco di sangue. Glenna Lucas non aveva programmato di pulire la casa, solo di sgomberarla. Le dava fastidio, però, lasciare lì le scritte dell'assassino, andarsene senza togliere il sangue di sua nipote dal pavimento. Il suo istinto sarebbe stato lavare via ogni macchia e cancellare tutto, ma era sconvolta e non se la sentì. I giorni successivi all'omicidio la polizia interrogò molte persone e raccolse campioni biologici e impronte digitali a ventuno uomini. Il 16 dicembre l'ispettore Smith e l'agente Rogers andarono a Oklahoma City a portare al laboratorio dell'OSBI gli indizi raccolti sulla scena del crimine e

i campioni prelevati a diciassette indagati. La prova più importante sembrava il pezzo di rivestimento staccato dal muro della camera da letto con l'impronta insanguinata di una mano. Se fosse stata davvero lasciata durante la colluttazione e non fosse risultata della vittima, avrebbe costituito una chiave importante per arrivare all'assassino. L'agente dell'OSBI Jerry Peters la esaminò e la confrontò con le impronte prese a Debbie durante l'autopsia. La sua prima impressione fu che non corrispondessero, ma volle procedere a esami più approfonditi prima di esprimere un'opinione definitiva. Il 4 gennaio 1983 Dennis Smith fornì altre impronte digitali. Quello stesso giorno i campioni di peli e capelli di Debbie Carter e quelli trovati sulla scena del delitto arrivarono a Susan Land, tecnico dell'OSBI specializzato in analisi tricologiche. Due settimane dopo, alla Land vennero recapitati altri reperti, che furono catalogati e aggiunti alla montagna di campioni che già doveva esaminare. Susan Land aveva un carico di lavoro eccessivo, che non riusciva mai a smaltire completamente. I laboratori forensi dell'Oklahoma, come di molti altri Stati, soffrivano di una cronica mancanza di fondi e di personale, a fronte di enormi pressioni perché risolvessero casi su casi. In attesa dei risultati, Smith e Rogers continuarono a indagare. La città era sgomenta e tutti volevano che il colpevole venisse trovato e punito, ma la polizia brancolava nel buio. Finito di interrogare i baristi, i buttafuori e i clienti del Coachlight, e dopo aver parlato con parenti e conoscenti, Smith e Rogers non sapevano più come procedere: non esisteva una pista chiara, nessuno sembrava particolarmente sospetto. Il 7 marzo 1983 Gary Rogers interrogò Robert Gene Deatherage, un ragazzo della zona che aveva appena finito di scontare una breve pena detentiva nel carcere di contea per guida in stato di ebbrezza. Deatherage aveva avuto come compagno di cella Ron Williamson, anche lui in carcere per lo stesso reato. In prigione si era parlato molto dell'omicidio di Debbie Carter e parecchi sostenevano di avere informazioni di prima mano e avanzavano teorie strampalate. Deatherage e Williamson avevano parlato dell'omicidio in diverse occasioni e Deatherage aveva avuto l'impressione che fosse un argomento che lo turbava. I due avevano litigato spesso e qualche volta erano addirittura arrivati alle mani, tanto che Williamson era stato poi trasferito in un'altra cella. Deatherage sosteneva che Ron potesse essere coinvolto nell'omicidio Carter e consigliò a Gary Rogers di indagare sul suo conto.

Era la prima volta che veniva fatto il nome di Ron Williamson in riferimento alle indagini. Due giorni dopo, venne interrogato Noel Clement, che era stato uno dei primi a portare saliva, peli e capelli alla polizia. Clement disse che Ron Williamson era stato di recente a casa sua, ufficialmente per cercare qualcun altro. Era entrato senza bussare, aveva visto una chitarra, l'aveva presa in mano e si era messo a parlare con lui dell'omicidio Carter. Nel corso del colloquio, aveva detto a Clement che, nel vedere le auto della polizia la mattina dopo l'omicidio, aveva pensato che fossero lì per lui. Aveva avuto delle grane a Tulsa, e voleva evitare di averne anche a Ada. A quel punto era inevitabile che la polizia andasse a cercare Ron Williamson. Tuttavia, lasciarono passare tre mesi prima di interrogarlo. Molti agenti, compreso Rick Carson, erano suoi coetanei e avevano fatto il tifo per lui quando giocava a baseball. Nel 1983 Ron era ancora lo sportivo di Ada che aveva ricevuto gli ingaggi più alti. Quando aveva firmato con gli Oaklands nel 1971 molti - lui compreso - avevano sperato in un novello Mickey Mantle, in un nuovo grande campione dell'Oklahoma. Ma i tempi d'oro del baseball erano finiti e adesso Ron Williamson era famoso solo perché passava le giornate a bere e a suonare la chitarra, viveva ancora con sua madre e si comportava in maniera bizzarra. Aveva precedenti penali per guida in stato di ebbrezza e ubriachezza molesta, e una pessima fama dopo i due processi di Tulsa. 2 Ron Williamson era nato a Ada il 3 febbraio 1953, unico figlio maschio e ultimogenito di Juanita e Roy Williamson. Suo padre faceva il rappresentante porta a porta per la Rawleigh, un'azienda di prodotti per la casa. Lo si vedeva sempre camminare per le strade di Ada in giacca e cravatta, con il suo ingombrante campionario di prodotti alimentari, spezie e prodotti per la cucina nella valigetta. Aveva sempre in tasca una scorta di caramelle per i bambini, i quali puntualmente lo salutavano con entusiasmo. Era un lavoro faticoso e difficile, che comportava lunghe ore di lavoro serale sulle pratiche amministrative, e le provvigioni erano modeste. Poco dopo la nascita di Ronnie, Juanita cominciò a lavorare all'ospedale di Ada. Con tutti e due i genitori impegnati fuori casa, era naturale che a occuparsi di Ronnie fosse Annette, la figlia maggiore, che aveva dodici anni ed

era felice del suo nuovo giocattolo. Gli dava da mangiare, lo lavava, ci giocava, gli cambiava i pannolini e lo viziava. Quando non era a scuola, Annette stava con Ronnie, puliva la casa e preparava la cena. Renee, la sorella di mezzo, aveva cinque anni quando nacque Ronnie e, per quanto non avesse alcun desiderio di prendersi cura di lui, divenne presto la sua compagna di giochi. Annette faceva la sorella maggiore anche con lei, tanto che Renee e Ronnie si alleavano spesso contro la sua materna tirannia. Juanita era una cristiana devota, una donna molto determinata che portava la famiglia in chiesa ogni domenica, ogni mercoledì, e in generale ogniqualvolta ci fosse una funzione religiosa. I bambini frequentavano il catechismo la domenica e durante le vacanze, partecipavano al campeggio estivo della chiesa, ai revival spirituali di primavera, erano presenti a tutte le attività sociali e persino ad alcuni matrimoni e funerali. Roy era meno devoto della moglie, ma conduceva comunque una vita disciplinata: in chiesa tutte le domeniche, niente alcol, gioco, turpiloquio, o ballo. Dedicava tutte le energie alla famiglia. Severo, era svelto a levarsi la cintura, a volte solo per agitarla minacciosamente, altre per sferrare un paio di cinghiate, di solito sul sedere dell'unico figlio maschio. I Williamson facevano parte della Prima Chiesa Pentecostale della Santità, una congrega del Pieno Vangelo. In quanto pentecostali, credevano in una vita di fervente preghiera e nella cura costante del proprio rapporto con Cristo, erano molto fedeli alla chiesa e organizzavano attività, studiavano la Bibbia e coltivavano relazioni affettuose con gli altri membri. Le loro funzioni comprendevano musica, canti, sermoni appassionati e l'entusiasta partecipazione dei parrocchiani, che spesso parlavano lingue sconosciute, guarivano sul posto o "imponevano le mani", e in generale esprimevano liberamente le emozioni suscitate in loro dallo Spirito Santo. I bambini imparavano fin da piccoli le pittoresche storie del Vecchio Testamento, erano incoraggiati a memorizzarne i versetti più celebri e ad "accettare Cristo", ossia confessare i propri peccati, lasciarsi guidare dallo Spirito Santo e seguire l'esempio di Gesù facendosi battezzare. Ronnie "accettò Cristo" a sei anni, quando, al termine di un lungo revival spirituale di primavera, fu battezzato nel Blue River, che scorreva a sud della città. I Williamson vivevano modestamente in una piccola casa di Fourth Street, nella zona orientale di Ada, vicino all'università. Nel tempo libero si recavano a trovare i parenti che abitavano in zona, facevano volontariato per la chiesa e saltuariamente andavano in campeggio in un parco naturale

poco distante. Non si interessavano di sport, almeno finché Ronnie non scoprì il baseball. Cominciò a giocare con gli altri ragazzi, per la strada, partite spontanee con una serie di variazioni e modifiche al regolamento. Scoprì subito di avere il braccio forte e le mani rapide. Batteva alla sinistra del piatto. Adorava il baseball e chiese a suo padre di comprargli un guantone e una mazza. I soldi erano pochi, ma alla fine Roy si lasciò convincere e diede inizio a quello che sarebbe diventato un rito annuale: andare da Haynes Hardware a scegliere un guantone nuovo. Di solito, il più costoso del negozio. Ronnie lo teneva in un angolo della sua cameretta, dove aveva eretto una sorta di altarino consacrato a Mickey Mantle, il grande campione degli Yankees e il più grande giocatore dell'Oklahoma mai approdato nella Major League. Se Mantle era un idolo per i ragazzini di tutti gli Stati Uniti, in Oklahoma era un vero e proprio dio. Ogni ragazzino di Little League sognava di seguire le sue orme. Ronnie, che si appendeva nella stanza foto e figurine e a sei anni sapeva già a memoria tutte le statistiche di Mantle e di molti altri giocatori, non faceva eccezione. Quando non poteva giocare per strada, Ronnie roteava la mazza, con tutta la forza che aveva, in soggiorno. La casa era piccola e il mobilio modesto ma insostituibile: ogni volta che sua madre lo coglieva a mancare di un pelo una lampada o una sedia, lo sgridava. Ma subito dopo Ron ricominciava. Per Juanita, Ron era un bambino speciale: un po' viziato, forse, ma buono come il pane. Era difficile capirlo, questo era il problema. Sapeva essere dolce e sensibile, affettuosissimo con la madre e le sorelle, e un attimo dopo fare un capriccio terribile e pretendere che tutta la famiglia fosse al suo servizio. I suoi improvvisi sbalzi d'umore erano evidenti a tutti, ma non causavano particolari preoccupazioni. Ron era solo un po' viziato: era il più piccolo in una casa piena di donne adoranti. In ogni piccola città c'è un allenatore di Little League che ama il baseball al punto da essere costantemente alla ricerca di giovani talenti, persino di otto anni. A Ada era Dewayne Sanders, coach dei Polke Eagles. Lavorava in una stazione di servizio non lontano dalla casa dei Williamson, in Fourth Street. Sentì parlare del giovane Williamson e se lo accaparrò. Già a quell'età, era evidente che Ronnie sapeva giocare. Era strano, perché suo padre non era un appassionato e Ronnie aveva imparato per la strada.

Nei mesi estivi, cominciava la mattina presto e discuteva con i suoi amichetti la partita degli Yankees del giorno prima. per loro, sembrava esistessero solo gli Yankees. Analizzavano i tabellini, parlavano di Mickey Mantle, si passavano la palla in cerchio aspettando che arrivassero i compagni. Giocare per strada significava dover schivare ogni tanto un'auto e rompere qualche vetro. Appena c'erano abbastanza bambini, si spostavano in uno spiazzo sterrato, dove le partite erano più serie e duravano tutta la giornata. Nel tardo pomeriggio tornavano a casa giusto il tempo di lavarsi, mangiare un boccone, mettersi la divisa e dirigersi di buon passo verso il Kiwanis Park a guardare giocare sul serio. I Polke Eagles erano i primi in classifica, a testimonianza della dedizione di Dewayne Sanders. Ronnie Williamson divenne la stella della squadra. Il suo nome comparve per la prima volta sulle pagine "dell'Ada Evening News" quando aveva appena nove anni: "I Police Eagles hanno vinto con dodici valide, fra le quali spiccano due fuoricampo di Ron Williamson, che ha anche centrato due doppi". Roy Williamson andava a tutte le partite e osservava in silenzio dalle gradinate. Non gridava mai contro arbitri e allenatori, né tanto meno contro suo figlio. Saltuariamente, dopo una brutta partita, gli offriva consigli paterni, di solito riguardo la vita in generale. Roy non aveva mai giocato a baseball e stava ancora imparando le regole. Il suo ragazzo era anni avanti a lui. Compiuti undici anni, Ronnie passò alla Kids League come prima scelta degli Yankees locali, sponsorizzati dalla Oklahoma State Bank. Condusse la squadra a una stagione senza sconfitte. L'anno successivo, Ronnie giocava sempre nelle fila degli Yankees, il cui campionato fu seguito anche dal giornale di Ada: "La Oklahoma State Bank ha segnato quindici punti solo nella seconda parte del primo inning... Ronnie Williamson ha centrato due tripli" (9 giugno 1965); "Gli Yankees hanno avuto tre soli turni sul piatto... ma le battute esplosive di Roy Haney, Ron Williamson e James Lamb hanno detto tutto. Triplo per Williamson" (11 giugno 1965); "Gli Oklahoma State Bank Yankees hanno segnato due punti nel primo inning... Ron Williamson e Carl Tilley gli autori di due delle quattro battute... ambedue doppi giochi" (13 luglio 1965); "Sebbene la squadra sia scivolata in seconda posizione... Ronnie Williamson ha messo a segno due doppi e un singolo" (15 luglio 1965). Negli anni Sessanta, la Byng High School si trovava dodici chilometri

fuori Ada, in direzione nord-est. Era considerata una scuola di campagna, molto più piccola della Ada High School, che era invece in costante espansione. Volendo, i ragazzi del quartiere di Ron avrebbero potuto iscriversi alla Ada, ma in genere optavano per la scuola più piccola, soprattutto perché il bus della Byng passava in zona e quello della Ada no. I compagni di Ron scelsero quasi tutti la Byng. Alla Byng High School, Ronnie fu eletto rappresentante degli studenti il primo anno e presidente il secondo anno: era uno dei ragazzi più popolari della scuola. Cominciò la High School nel 1967, insieme ad altri sessanta coetanei. Alla Byng non si giocava a football, che era invece lo sport della Ada, la cui fortissima rappresentativa era ogni anno in lizza per il titolo di Stato. La Byng era specializzata nel basket. Così Ronnie cominciò a giocare a pallacanestro. Come per il baseball, imparò in fretta. Pur non essendo un topo di biblioteca, amava leggere e collezionava ottimi voti. La matematica era la sua materia preferita. Quando i libri di testo lo annoiavano, si immergeva nella lettura di dizionari ed enciclopedie. Divenne ossessionato da certi argomenti. Si lanciava in deliri lessicali, tempestava gli amici con paroloni assurdi e li rimproverava se non ne conoscevano il significato. Sapeva a memoria tutti i presidenti degli Stati Uniti e quel che avevano fatto. Per mesi, non parlò d'altro. Per quanto si stesse progressivamente staccando dalla religione, conosceva ancora a memoria brani delle Scritture, che spesso citava per farsi bello con i compagni. Imponeva le sue ossessioni ad amici e familiari, fino alla nausea. Ma era un atleta di talento e per questo a scuola era popolarissimo. Fu eletto vicepresidente degli studenti del terzo anno. Piaceva anche alle ragazze, che volevano tutte uscire con lui. Ron, di certo, non diceva di no. Era ossessionato dal look, addirittura maniacale sull'abbigliamento. Voleva vestiti più belli di quelli che i suoi genitori si potevano permettere e li chiedeva con insistenza. Roy prese a comprarsi vestiti di seconda mano per permettere al figlio di indossarne di migliori. Annette nel frattempo si era sposata, ma stava ancora a Ada. Nel 1969, aprì insieme alla madre un salone di parrucchiera chiamato il Beauty Casa, al pianterreno del vecchio Hotel Julienne, nel centro di Ada. Dandosi da fare, madre e figlia si ritrovarono ben presto con un'attività fiorente, che serviva anche un certo numero di ragazze squillo che lavoravano nell'hotel. Si trattava di signorine che in città erano un'istituzione da decenni e che avevano messo in crisi più di un matrimonio. Juanita riusciva a malapena a

tollerarle. L'incapacità congenita di Annette di dire no al suo fratellino faceva sì che lui le spillasse continuamente soldi per comprarsi vestiti e portare fuori le ragazze. Una volta Ron scoprì che la sorella aveva un conto aperto in un negozio di abbigliamento e cominciò a usarlo anche lui. Non per articoli di poco prezzo, naturalmente, e spesso senza neppure chiederle il permesso. Annette si arrabbiò e i due litigarono. Ma Ron in qualche modo riusciva sempre a blandirla. Lei lo adorava troppo per potergli dire di no: voleva che il suo fratellino avesse il meglio in tutto. Anche quando bisticciavano, lui riusciva sempre a dirle quanto le volesse bene. E non c'era dubbio che fosse sincero. Sia Renee sia Annette temevano che Ron fosse troppo viziato e mettesse in estrema difficoltà i genitori. Di tanto in tanto lo sgridavano e alcuni dei loro litigi furono memorabili, ma alla fine Ronnie la spuntava sempre. Piangeva, si scusava, e strappava a tutti un sorriso o una risata. Le sorelle spesso gli passavano qualcosa sottobanco perché si comprasse cose che i genitori non potevano dargli. Ronnie era egoista, esigente, egocentrico, assolutamente infantile, ma sapeva anche essere dolcissimo e generosissimo. Gli volevano tutti molto bene e lui ne voleva a loro. E tutti sapevano che alla fine, qualunque cosa volesse, la spuntava sempre. Nell'estate del 1968, alcuni dei ragazzi dell'istituto decisero di iscriversi al campo scuola di baseball organizzato da un college della zona. Anche Ronnie ci voleva andare, ma Roy e Juanita non se lo potevano permettere. Lui però insisteva: era un'opportunità preziosa per affinare le sue doti e magari farsi notare dagli allenatori delle università. Per settimane non parlò d'altro e tenne il muso perché gli dicevano di no. Alla fine Roy chiese un prestito in banca per mandarcelo. Poi Ron stabilì di aver bisogno di una moto. Roy e Juanita si opposero, sostenendo che era pericolosa e che in ogni caso era fuori della loro portata. Al che Ron annunciò che se la sarebbe pagata da solo. Trovò il suo primo lavoro - consegnare giornali a domicilio - e cominciò a mettere da parte ogni spicciolo. Quando ebbe abbastanza per l'acconto, comprò la moto e negoziò un pagamento rateizzato per il resto con il concessionario. Andò tutto a monte quando in città arrivò la tenda di un predicatore. La Crociata di Bud Chambers fu un evento che richiamò grandi folle, con molta musica e sermoni carismatici. Finalmente a Ada c'era qualcosa da

fare la sera. Ron andò a sentire Chambers predicare, rimase profondamente toccato e tornò la sera dopo per donargli gran parte dei suoi risparmi. Ma al Fratello Bud serviva di più, così Ron si ripresentò la sera successiva con il resto. Il giorno dopo ancora, raccolse tutto il contante che riuscì a trovare, o a farsi prestare, e si precipitò alla tenda per assistere a un'altra predica e fare un'altra donazione. Le sue offerte durarono una settimana, poi la Crociata lasciò la città e Ron si ritrovò senza un soldo. Nel frattempo, aveva anche piantato lì il lavoro perché interferiva con il baseball. E così toccò a Roy racimolare i soldi per finire di pagare la moto. Ora che entrambe le sorelle erano fuori di casa, Ronnie esigeva tutta l'attenzione. Se avesse avuto meno fascino sarebbe stato insopportabile, ma Ron era un incantatore di serpenti. Affettuoso, estroverso, generoso, si aspettava dalla sua famiglia generosità incondizionata. Alla fine dell'estate, il coach della squadra di football della Ada High School contattò Roy e gli suggerì di iscrivere suo figlio alla scuola. Ronnie era un atleta nato e tutti, in città, sapevano che era un eccellente giocatore di baseball e di pallacanestro. Ma l'Oklahoma è terra di giocatori di football, e l'allenatore assicurò a Roy che le luci erano assai più luminose sul campo degli Ada Cougars. Con il suo fisico, la sua velocità e il suo braccio, Ronnie sarebbe potuto diventare in fretta un grande giocatore, magari anche un professionista. Se Roy l'avesse iscritto lì, lui sarebbe passato personalmente tutte le mattine per accompagnare a scuola il ragazzo. Ma la decisione spettava a Ron, e lui fece la scelta di restare alla Byng. Asher si stende anonima lungo la Highway 177, a una trentina di chilometri da Ada in direzione nord. Conta meno di cinquecento abitanti, non ha un centro vero e proprio, ma un paio di chiese, una torre dell'acquedotto e qualche strada lastricata con alcune vecchie case sparse qua e là. Il suo orgoglio è il campo da baseball vicino al liceo di Division Street. Come la maggior parte delle piccole città, Asher sembra un luogo inadatto a qualsiasi cosa degna di nota, ma per quarant'anni la squadra di baseball del suo liceo è stata la migliore degli Stati Uniti: nessun liceo, né pubblico né privato, ha vinto più partite degli Asher Indians. Tutto era cominciato nel 1959, quando ad Asher era arrivato un giovane allenatore di nome Murl Bowen. Fino ad allora la situazione era stata tragica, tanto che la squadra del 1958 non aveva vinto neanche una partita, ma le cose erano cambiate rapidamente. Nel giro di tre anni la Asher aveva conquistato il suo primo titolo statale. E poi aveva continuato in bellezza.

Per ragioni incomprensibili, in Oklahoma esiste un torneo di baseball riservato alle scuole troppo piccole per il football, che si gioca nella stagione autunnale. Durante la sua carriera alla guida degli Indians, Bowen riuscì a vincere il titolo in autunno e poi centrare l'altro in primavera per trent'anni di fila. La sua squadra si qualificò per le finali sessanta volte di seguito, in autunno e in primavera. In quarant'anni, le squadre allenate da Bowen vinsero 2115 partite e ne persero solo 349, portarono a casa quarantatré trofei di campioni dell'Oklahoma e mandarono decine di giocatori nei campionati universitari e nelle leghe minori. Nel 1975, Bowen vinse il titolo di miglior allenatore di liceo della nazione, e la città lo ricompensò ristrutturando il Bowen Field. Nel 1995 lo vinse di nuovo. «Non è merito mio» disse con modestia. «È merito dei ragazzi: io non ho mai segnato un punto.» Forse no, ma di certo fece molto altro. Ogni anno, all'inizio di agosto, quando in Oklahoma spesso si sfiorano i quaranta gradi, Bowen radunava un piccolo gruppo di giocatori e cominciava a preparare un nuovo assalto ai play off. La rosa dei candidati era sempre ridotta: alla Asher le classi contavano una ventina di studenti, la metà dei quali erano ragazze, e spesso in squadra c'erano soltanto una dozzina di elementi, compreso qualche studente promettente del secondo anno. Per assicurarsi che nessuno si ritirasse, Bowen per prima cosa consegnava le divise. Ogni ragazzo era indispensabile. Bowen cominciava con tre allenamenti al giorno, molto più che rigorosi: riscaldamento, scatti, corsa sulle basi, esercizi sui fondamentali. Credeva nell'importanza dell'impegno, dei muscoli, della dedizione e, soprattutto, della sportività. I giocatori della Asher non discutevano mai con un arbitro, non lanciavano il casco in segno di stizza e non provocavano gli avversari. Se possibile, cercavano addirittura di non infierire sulle squadre più deboli. Bowen cercava di evitare gli avversari di basso livello, specialmente in primavera, dove la stagione più lunga permetteva una maggiore flessibilità del calendario. Gli Indians divennero famosi per le vittoriose trasferte in casa delle grandi scuole. Trionfavano regolarmente a Ada, a Norman, e perfino a Tulsa e a Oklahoma City. Ormai la leggenda era tale che le squadre preferivano giocare in trasferta ad Asher, sul campo che lo stesso Bowen manteneva in perfette condizioni. La maggior parte delle volte, ripartivano comunque con la coda fra le gambe. Le squadre di Bowen erano disciplinate e gli addetti ai lavori dicevano

che erano anche molto ben costruite. Inevitabilmente, attiravano i giocatori seri, quelli che miravano alto. Inevitabilmente, attirò anche Ron Williamson. Durante i campionati estivi, Ron fece amicizia con Bruce Leba, che giocava nella Asher ed era uno dei migliori giocatori della zona, poco inferiore a Ron. I due divennero inseparabili e parlarono di giocare insieme negli Indians la loro ultima stagione da liceali. Intorno al Bowen Field gravitava un maggior numero di talent scout, sia delle università sia delle squadre professionistiche. E c'era la ghiotta opportunità di vincere il titolo dell'Oklahoma nell'autunno del '70 e nella primavera del '71. Spostandosi di qualche chilometro, Ron avrebbe avuto molte più opportunità per mettersi in luce. Voleva dire andare a stare ad Asher, un immenso sacrificio per i suoi genitori. I soldi erano pochi, e Roy e Juanita avrebbero dovuto fare i pendolari da Ada per continuare a lavorare. Ma Ronnie era determinato. Era convinto, come la maggior parte degli allenatori e degli osservatori della zona, di poter essere fra le prime scelte dell'estate successiva. Il suo sogno di giocare da professionista era a portata di mano. Gli serviva soltanto un'ultima spinta. Girava la voce che sarebbe potuto essere il nuovo Mickey Mantle, lo sapevano tutti. Aiutati con discrezione da alcuni sostenitori della squadra, i Williamson presero in affitto una casetta a due isolati dalla Asher High School e Ronnie in agosto si presentò al corso di Bowen. Sulle prime, fu sconvolto dal livello del riscaldamento, dalla quantità di tempo passato a correre, correre e correre. L'allenatore dovette spiegare più volte alla sua nuova stella che avere gambe d'acciaio è fondamentale per battere, lanciare, correre sulle basi, lanciare lungo dal campo esterno e sopravvivere agli ultimi inning di una partita di ritorno con una rosa ridotta all'osso. Ron non ne vedeva l'utilità, ma si lasciò contagiare dall'impegno del suo amico Brace Leba e degli altri giocatori, si adattò ai nuovi metodi e nel giro di breve tempo si ritrovò in gran forma. Ben presto divenne il capitano di fatto e, insieme a Leba, il leader della squadra. A Murl Bowen piacevano la sua stazza, la sua velocità e le sue cannonate dal centro. Ron aveva un braccio esplosivo e una gran potenza alla sinistra del piatto. In allenamento colpiva tutti con battute che volavano oltre il muro del right field. Non appena iniziò il campionato autunnale, gli osservatori tornarono e cominciarono a prendere appunti dettagliati su Ron Williamson e Brace Leba. Con il calendario pieno di partite contro altre picco-

le scuole senza squadra di football, la Asher perse soltanto un incontro e passeggiò lungo i play off per vincere l'ennesimo titolo. Ron ebbe una media in battuta di 0,468, con sei fuoricampo. Per il suo amico e rivale Bruce, sei fuoricampo con 0,444 in battuta. Si spronavano a vicenda, entrambi sicuri di essere destinati alla Major League. E cominciarono a giocare duro anche fuori dal campo. Nel fine settimana uscivano a bere birra, poi scoprirono la marijuana. Andavano dietro alle ragazze, che erano facili prede, perché ad Asher erano due eroi. Le feste divennero una routine, e così i night e i locali della zona. Se erano troppo ubriachi, i due ripiegavano a casa di Annette, svegliandola nel cuore della notte. Solitamente le chiedevano qualcosa da mangiare, si scusavano profusamente e la pregavano di non dire niente ai genitori. Stavano molto attenti a evitare problemi con la polizia, però. E temevano anche Murl Bowen. La primavera del 1971 prometteva benissimo. Il basket, alla Asher, era più che altro un buon modo per tenere allenata la squadra di baseball. Ron cominciò giocando come ala e fu il miglior realizzatore della squadra. Un paio di piccole università manifestarono un certo interesse, ma lui no. Verso la fine della stagione, cominciò a ricevere lettere da osservatori di squadre professionistiche che gli promettevano di andare a vederlo giocare nel giro di poche settimane, gli chiedevano il calendario delle partite, lo invitavano a partecipare a campi scuola estivi. Anche Bruce Leba le riceveva e i due si divertivano moltissimo a confrontare la loro corrispondenza. I Phillies e i Cubs una settimana, gli Angels e gli Athletics la settimana dopo. Quando alla fine di febbraio terminò la stagione di pallacanestro, ad Asher cominciò lo spettacolo. Gli Indians si scaldarono con qualche vittoria facile e poi diedero il meglio di sé con le grandi scuole. Ron cominciò con la mazza bollente e non si raffreddò più. Gli osservatori erano frenetici, la squadra vinceva e la vita era bella. Trovandosi solitamente di fronte all'asso degli avversari, i giocatori di Bowen fronteggiavano ogni settimana ottimi lanciatori. Davanti a un numero sempre maggiore di osservatori sugli spalti, Ron dimostrò di saper tener testa al lancio di chiunque. Tenne una media di battuta stagionale di 0,5, con cinque fuoricampo, facendo segnare ben quarantasei punti alla squadra. Fece pochi fuoricampo e fu costretto a camminare parecchio, dato che gli avversari tendevano a regalargli le basi per farlo battere il meno possibile. Colpì gli osservatori per la sua potenza e per la sua disciplina sul piatto, per la sua velocità nel raggiungere la prima base e, ovviamente,

per il suo braccio. Alla fine di aprile fu candidato al Jim Thorpe Award, il premio per il miglior atleta liceale dell'Oklahoma. La Asher vinse ventisei partite, ne perse cinque, e il primo maggio 1971 sconfisse la Glenpool 5 a 0, vincendo l'ennesimo campionato. Coach Bowen candidò Ron e Bruce Leba per la selezione dei migliori dell'Oklahoma. Di certo se lo meritavano, ma per poco non si autoesclusero dai giochi. Qualche giorno prima del diploma, infatti, di fronte a un imminente e drastico cambiamento di vita, i due ragazzi si resero conto che il tempo della Asher era finito e che non sarebbero mai più stati così vicini come in quegli ultimi dodici mesi. Bisognava festeggiare con una più che memorabile notte di follie. All'epoca c'erano tre strip club a Oklahoma City. Ne scelsero uno elegante, che si chiamava Red Dog, e prima di partire presero una bottiglia di whisky e sei birre dalla cucina di casa Leba. Prima ancora di arrivare al Red Dog, erano già ubriachi. Continuarono a bere guardando le spogliarelliste, che diventavano più belle ogni minuto che passava. Pagarono delle lap dance, iniziarono a spendere e a spandere. Il padre di Bruce voleva che il figlio rientrasse per l'una, ma fra le lap dance e l'alcol, i due ragazzi continuavano a procrastinare. Uscirono barcollando dal club a mezzanotte e mezzo, a due ore di macchina da casa. Bruce lanciò la sua nuova Camaro truccata, ma si fermò di colpo quando Ron disse qualcosa che lo fece arrabbiare. Cominciarono a urlarsi addosso di tutto e decisero di risolvere la questione immediatamente, sul posto. Uscirono dalla Camaro e cominciarono a prendersi a cazzotti nel bel mezzo di Tenth Street. Se le diedero per un po', poi negoziarono una tregua, risalirono in macchina e ripresero la strada di casa. Nessuno dei due riuscì più a ricordarsi la ragione del litigio; era solo un altro dei dettagli di quella notte perduti per sempre nella nebbia. Bruce mancò l'uscita e, perso l'orientamento, si ritrovò per strade di campagna sconosciute. Era abbastanza sicuro di essere nella direzione giusta,, però, e correva come un pazzo perché ormai era tardissimo. Ron giaceva in stato comatoso sul sedile posteriore. Nel buio più totale, Bruce non poteva non notare le luci rosse che si avvicinavano rapidamente alle sue spalle. Si ricordava di essersi fermato davanti a uno stabilimento della Williams Meat Packing, ma non era sicuro di quale città. Non era sicuro nemmeno

della contea. Scese dalla macchina e, quando l'agente gli chiese se aveva bevuto, rispose: «Sissignore». «E si rende conto che stava andando oltre il limite di velocità?» «Sissignore.» Chiacchierarono un po'. L'agente sembrava restio a fargli una multa e tanto più ad arrestarlo. Bruce lo aveva già quasi convinto di essere in grado di tornare a casa senza pericolo, quando all'improvviso Ron fece capolino fuori dal finestrino e gridò qualcosa di incomprensibile con la voce impastata. «E quello chi è?» domandò l'agente di polizia. «Un mio amico.» Ron urlò qualcos'altro e l'agente gli disse di uscire dalla macchina. Ron aprì la portiera e inciampò nel fosso sul ciglio della strada. Finì che l'agente li arrestò e li portò in una prigione fredda e umida. Siccome non c'erano brande, si stesero su due materassi in una cella e passarono la notte a tremare per il freddo e la paura, ancora ubriachi. Chiamare i rispettivi genitori, però, sarebbe stato peggio. Per Ron, fu la prima di molte notti dietro le sbarre. Il mattino dopo la guardia portò loro caffè e uova strapazzate, e gli consigliò di chiamare casa. Ron e Bruce seguirono il suo consiglio, benché titubanti, e due ore dopo furono rilasciati. Bruce montò sulla sua Camaro e se ne tornò a casa da solo. Ron, per qualche motivo, fu costretto a farsi il viaggio in macchina con suo padre e il signor Leba. Furono due ore interminabili, rese ancor più lunghe dalla prospettiva di dover affrontare Bowen. Leba e Williamson, infatti, volevano portare i figli dritti dritti dal coach. E così fecero. Murl Bowen fu severo e implacabile, ma non ritirò le loro candidature. Arrivarono al giorno del diploma senza ulteriori incidenti. Bruce pronunciò un discorso molto toccante. Fra gli invitati alla cerimonia, c'era anche il giudice Frank H. Seay, della Corte distrettuale della vicina contea di Seminoie, che si congratulò con i neodiplomati. Nel '71 erano diciassette, e per ognuno di loro era una giornata importantissima che riempiva d'orgoglio la famiglia. Pochi dei loro genitori avevano avuto l'opportunità di frequentare l'università, alcuni non avevano neppure finito il liceo. Ma per Ron e Bruce quella cerimonia aveva poco valore: per loro erano più importanti i titoli sportivi. Loro ambivano alla

Major League, non a marcire tutta la vita nelle campagne dell'Oklahoma. Un mese dopo, entrambi furono selezionati fra i migliori dello Stato e Ron fu ritenuto il secondo miglior giocatore dell'Oklahoma di quell'anno. Nel tradizionale all-star game dello Stato, giocarono in uno stadio gremito, in cui c'erano osservatori di tutte le migliori squadre della Major League e di molte università. Dopo la partita, due osservatori, uno mandato dai Phillies, l'altro dagli Oakland A's, presero da parte i due ragazzi e fecero loro un'offerta informale. Per 18.000 dollari a testa, i Phillies avrebbero preso Bruce e gli Oaklands Ron. Ron, tuttavia, giudicò l'offerta troppo bassa e rifiutò. Bruce cominciava a temere per le sue ginocchia e pensava anche lui che i soldi fossero pochi. Cercò di negoziare, dicendo di avere intenzione di giocare un paio d'anni per il Seminoie College, ma che per qualcosina in più magari avrebbe detto di sì. L'offerta non cambiò. Il mese dopo, Ron fu scelto dagli Oakland Athletics al secondo giro del draft dei free agents, quarantunesima scelta assoluta su oltre ottocento giocatori e prima dell'Oklahoma. I Phillies non scelsero Bruce, ma gli offrirono comunque un contratto. Di nuovo, il ragazzo rifiutò e si iscrisse al college. Il sogno di giocare insieme da professionisti cominciava a sbiadire. La prima offerta ufficiale degli Oaklands era un insulto. I Williamson non avevano agenti o avvocati, ma capivano che gli A's stavano tentando di ingaggiare Ron sottocosto. Lui allora partì per Oakland per incontrare i dirigenti della squadra. Le trattative non portarono a nulla e Ron tornò a Ada senza contratto. Ben presto però fu richiamato e in occasione della sua seconda visita incontrò l'allenatore, Dick Williams, e alcuni dei giocatori. Il seconda base degli A's, Dick Green, era molto socievole e accompagnò Ron a fare un giro degli spogliatoi e del campo. Per caso incontrarono Reggie Jackson, la stella delle stelle, Mister Oakland in carne e ossa. Quando Reggie venne a sapere che Ron era la seconda scelta della squadra, gli chiese in che posizione giocasse. Dick Green rispose per lui: «Esterno destro». Ovviamente Reggie era il dio degli esterni destri. «Ragazzo mio, diventerai vecchio nelle serie minori» decretò allontanandosi. E la conversazione si chiuse lì. Gli A's erano riluttanti a pagare un ingaggio alto perché volevano trasformare Ron in un ricevitore, ma dovevano ancora vederlo ricevere. Le trattative si trascinarono, con offerte sempre troppo basse. In famiglia ci furono molte discussioni riguardo all'opportunità di andare

o meno al college. Ron aveva un accordo verbale per una borsa di studio alla University of Oklahoma e i suoi genitori lo spronavano a considerare quell'opzione. Era la sua unica possibilità di ricevere un'istruzione universitaria, qualcosa che nessuno gli avrebbe mai potuto portare via. Ron lo capiva, ma sosteneva che avrebbe sempre potuto iscriversi al college in un secondo momento. Quando improvvisamente gli Oaklands gli offrirono un ingaggio da 50.000 dollari, Ron lo afferrò al volo e altrettanto improvvisamente si dimenticò dell'università. Era una grande notizia, sia ad Asher sia a Ada: Ron era la migliore scelta di tutti i tempi proveniente da quella regione. Per un po' tanta attenzione lo rese più umile. Il suo sogno si stava avverando: era diventato un giocatore di baseball professionista. I sacrifici della sua famiglia finalmente stavano per essere ricompensati. Si sentiva spinto dallo Spirito Santo a far pace con Dio. Tornò in chiesa e una domenica si avvicinò all'altare e pregò con il pastore. Poi si rivolse ai fedeli e ringraziò i suoi fratelli e le sue sorelle in Cristo per il loro amore e il loro sostegno. Dio lo aveva benedetto e lui si sentiva molto fortunato. Trattenendo a fatica le lacrime, promise di usare i suoi soldi e il suo talento esclusivamente per la gloria del Signore. Si comprò una nuova Cutlass Supreme e rinnovò il guardaroba, regalò ai suoi genitori un televisore a colori e perse il resto dei soldi in una partita di poker. Nel 1971, il proprietario degli Oakland Athletics era Charlie Finley, che aveva fatto trasferire la squadra da Kansas City nel 1968. Gli piaceva definirsi un visionario, ma si comportava piuttosto come un buffone. Provava un grande piacere a scuotere il mondo del baseball con innovazioni quali divise multicolori, raccattapalle femmine, palline arancioni (un'idea che ebbe vita molto breve), e una lepre meccanica che recapitava palle sempre nuove all'arbitro in casa base. Qualsiasi cosa, pur di attirare l'attenzione. Si comprò persino un mulo, lo chiamò Charley O., e prese a portarselo allo stadio e addirittura nelle hall degli alberghi. Ma, mentre monopolizzava le pagine dei giornali con le sue eccentricità, si costruì una dinastia. Ingaggiò un allenatore molto preparato, Dick Williams, e mise insieme una squadra che comprendeva Reggie Jackson, Joe Rudi, Sal Bando, Bert Campaneris, Rick Monday, Vida Blue, Catfish Hunter e Rollie Fingers. Gli A's dei primi anni Settanta erano senza dubbio la squadra più chic di tutto il mondo del baseball. Indossavano scarpini bianchi - la prima e unica

squadra a farlo - e avevano una varietà incredibile di divise, in diverse combinazioni di verde, oro, bianco e grigio. Stile da californiani, con i capelli un po' lunghi, barba, baffi, e aria da anticonformisti. Per un gioco che ormai aveva più di un secolo e che esigeva un religioso rispetto delle tradizioni, gli A's erano scandalosi. Avevano stile. Gli Stati Uniti erano ancora sotto l'influsso degli anni Sessanta. Chi aveva bisogno dell'autorità? Le regole si potevano infrangere, persino nel mondo ultraconservatore del baseball professionistico. Alla fine di agosto del 1971, Ron partì per Oakland la terza volta, ora in veste ufficiale di Athletic, membro del club, uno dei ragazzi, futura stella, anche se doveva ancora debuttare da professionista. Fu ben accolto, con pacche sulle spalle e frasi d'incoraggiamento. Aveva diciott'anni, ma col suo viso tondo e i riccioli sugli occhi non ne dimostrava più di quindici. I veterani sapevano che le sue chance di sfondare erano scarse, come per tutti i giovani che firmavano un contratto, ma lo fecero comunque sentire benvenuto. Anche loro, una volta, si erano trovati nella sua situazione. Meno del dieci per cento dei giocatori che firmano un contratto da professionista riesce a giocare anche solo una partita in Major League, ma nessun diciottenne vuole sentirselo dire. Ron girovagò fra la panchina e il campo, chiacchierò con i giocatori, si allenò in battuta prima della partita, osservò la folla piuttosto esigua prendere posto con ordine nell'Oakland Alameda County Coliseum. Prima dell'inizio, lo fecero accomodare in prima fila, subito dietro la panchina degli A's, da dove guardò giocare la sua nuova squadra. Il giorno successivo tornò a Ada, più determinato che mai a sbrigare in fretta la pratica delle serie minori per fare il "grande salto" a vent'anni, massimo ventuno. Aveva visto, sentito, assorbito l'atmosfera elettrica di uno stadio della Major League, e non sarebbe 'mai più stato lo stesso. Si lasciò crescere i capelli. Provò anche con i baffi, ma la natura non collaborava. I suoi amici lo credevano ricco e lui di certo si sforzava di dare quell'impressione. Era diverso, aveva più stile della maggior parte della gente di Ada. Era stato in California! Per tutto settembre stette a guardare divertito gli A's, che con 101 vittorie dominarono l'American League West. Presto sarebbe stato con loro, come ricevitore o esterno centro, con la divisa colorata, i capelli lunghi e tutto il resto, parte della squadra più alla moda di tutte. A novembre, firmò un contratto con la Topps Chewing Gum, cedendo così alla compagnia il diritto esclusivo a esibire, stampare e riprodurre il

suo nome, il suo volto, la sua foto e la sua firma su una figurina. Come ogni ragazzo di Ada, ne aveva collezionate lui stesso a migliaia; le conservava, le scambiava, le incorniciava, le portava in giro in una scatola da scarpe, e metteva da parte gli spiccioli per comprarne altre. Aveva quelle di Mickey Mantle, Whitey Ford, Yogi Berra, Roger Maris, Willie Mays, Hank Aaron, e di tutti i più grandi giocatori. Adesso, avrebbe avuto la propria. Il sogno stava rapidamente diventando realtà. Il primo anno, però, fu assegnato a Coos Bay, Oregon, categoria A, Northwestern League, molto lontano da Oakland. Il ritiro primaverile del 1972 a Mesa, in Arizona, non fu niente di speciale. Non si era fatto notare, non aveva attirato l'attenzione di nessuno e gli A's stavano ancora cercando di capire dove farlo giocare. Lo misero dietro il piatto, ma era una posizione che non conosceva. Lo fecero lanciare, semplicemente perché aveva un braccio molto forte. Verso la fine della primavera le cose cominciarono ad andare storte. Ron ebbe un attacco di appendicite e tornò a Ada per farsi operare. Mentre aspettava con impazienza la guarigione, cominciò a bere per passare il tempo. Al Pizza Hut la birra costava poco e, quando si stancava di stare lì, Ron prendeva la sua nuova Cutlass e andava all'Elks Lodge per lavarsi lo stomaco con qualche whisky & cola. Era annoiato e ansioso di giocare, e senza sapere perché cercò sollievo nell'alcol. Alla fine ricevette la telefonata che aspettava e ripartì per l'Oregon. Giocando part-time per i Coos Bay-North Bend Athletics, fece 41 valide su 155, una misera media di 0,265. Giocò quarantasei partite da ricevitore e qualche inning come esterno centro. Nel finale di stagione, il suo contratto fu assegnato a Burlington, Iowa, nella Midwest League, sempre nella categoria A. Al massimo un passo laterale, di certo non una promozione. Giocò appena sette partite e a fine stagione tornò a casa. Ogni passaggio nelle leghe minori è temporaneo e traumatico. I giocatori guadagnano pochissimo e vivono di magri rimborsi spese offerti dal loro club. Quando giocano in casa, alloggiano in motel che offrono sconti mensili o dividono piccoli appartamenti. In trasferta, stanno in motel. E vanno nei bar e nei night. Sono giovani, raramente sposati, lontani dalla famiglia, fanno una vita disordinata e tendono a tirare tardi la sera. In genere sono poco più che adolescenti, immaturi, viziati, convinti di essere vicini a fare i soldoni giocando nei grandi stadi.

Perciò si danno alla pazza gioia. Le partite cominciano alle sette di sera e finiscono alle dieci. Una doccia veloce, ed è ora di uscire. Stanno fuori tutta la notte, dormono tutto il giorno, a casa o in pullman, bevono, vanno a donne, giocano a poker, fumano erba. È il lato oscuro delle serie minori. E Ron lo abbracciò con entusiasmo. Come ogni padre, Roy Williamson seguiva la stagione del figlio con curiosità e orgoglio. Ronnie chiamava raramente e scriveva ancora meno, ma Roy riusciva a tenersi aggiornato con le statistiche. Un paio di volte lui e Juanita andarono in Oregon in macchina per vederlo giocare. Ronnie stava patendo il suo anno da matricola e cercava di abituarsi ai fortissimi slider e alle tagliatissime palle curve dei professionisti. Un giorno Roy ricevette una telefonata dall'allenatore degli A's. La sregolatezza di Ron cominciava a essere preoccupante, si sentì dire. Troppe feste, alcol, notti brave, sbornie: il ragazzo stava esagerando. Non era insolito, per un diciannovenne alla sua prima stagione lontano da casa, ma forse un bel discorsetto da parte del padre gli avrebbe fatto bene. Anche Ron cominciò a chiamare casa più spesso. L'estate era agli sgoccioli, il tempo passato in campo sempre troppo poco e lui era arrabbiato con l'allenatore e i suoi assistenti, si sentiva sottoutilizzato. Come poteva migliorare, se lo tenevano in panchina? Scelse, strategia rischiosa e poco usata, di scavalcare i suoi allenatori. Cominciò a chiamare la dirigenza degli A's con una lista di lamentele. La vita era grama nel baseball di categoria A, non lo facevano giocare abbastanza e bisognava che i pezzi grossi che l'avevano scelto lo sapessero. I dirigenti mostrarono poca comprensione. Avevano centinaia di giocatori dispersi nelle leghe minori, la maggior parte dei quali ben più avanti di Ron Williamson, e chiamate e lamentele si rivelarono presto inutili. Erano al corrente della situazione, sapevano che arrancava. Gli dissero di smetterla di lamentarsi e di pensare piuttosto a giocare meglio. Ron tornò a Ada all'inizio dell'autunno 1972, ancora da eroe, con i modi e la parlata un po' da californiano. E continuò la sua vita notturna. Quando a ottobre gli Oakland A's vinsero per la prima volta nella loro storia le World Series, festeggiò in una bettola locale. "Quella è la mia squadra!" gridò ripetutamente in direzione del televisore, suscitando l'ammirazione dei presenti.

Cambiò improvvisamente quando incontrò e cominciò a frequentare Party O'Brien, una bella ragazza, ex Miss Ada. Si vedevano regolarmente e la loro diventò presto una storia seria. Party era battista, non beveva e non tollerava i vizi di Ron. Lui, dal canto suo, era più che contento di darsi una regolata e promise di cambiare vita. Nel 1973, Ron non si era avvicinato di un passo ai grandi campionati. Dopo un'altra primavera insignificante a Mesa, fu nuovamente assegnato ai Burlington Bees, dove giocò solo cinque partite prima di essere trasferito ai Key West Conchs, nella Florida State League, ancora in categoria A. In cinquantanove partite, la sua media in battuta si attestò su un penoso 0,137. Per la prima volta in vita sua, cominciò a dubitare di farcela. Le due stagioni assai deludenti che aveva alle spalle gli avevano fatto capire che il lancio dei professionisti, anche soltanto in categoria A, era molto più difficile da battere di tutte le difese viste alla Asher High School. I lanciatori erano più potenti, le palle curve più tagliate. I giocatori erano tutti forti, alcuni sarebbero arrivati nelle massime serie. Il suo ingaggio era stato ormai speso e sperperato, il suo viso sorridente sulle figurine non era poi così entusiasmante come gli era sembrato solo due anni prima. E aveva la sensazione che lo guardassero tutti: i suoi amici, la brava gente di Ada e di Asher si aspettava che lui coronasse i loro sogni, che desse loro fama e onori. Doveva essere il nuovo grande talento dell'Oklahoma. Mickey Mantle era arrivato in Major League a diciannove anni. Ron era già in ritardo. Tornò a Ada, da Party, che gli suggerì con insistenza di cercarsi un lavoro come si deve fino all'inizio della stagione successiva. Un suo zio aveva delle conoscenze nel Texas e Ron andò a Victoria a lavorare come manovale in un'impresa di coperture di tetti. Il 3 novembre 1973, Ron e Party si unirono in matrimonio con una grandiosa cerimonia alla Prima Chiesa Battista di Ada, la parrocchia della sposa. Lui aveva vent'anni e si illudeva ancora di essere una promessa del baseball. Ada lo vedeva come un eroe. Il futuro campione aveva sposato una reginetta di bellezza di buona famiglia: la sua vita pareva una favola. Nel febbraio del 1974 i novelli sposi andarono a Mesa per il ritiro primaverile. Il fatto di essere sposato spronava ulteriormente Ron a farsi stra-

da, se non fino alla categoria tripla A, almeno fino alla doppia A. Il suo contratto per il 1974 era con Burlington, ma lui non aveva intenzione di tornarci. Era stanco di Burlington e Key West, e se gli A's l'avessero rispedito lì, il messaggio sarebbe stato chiaro: non lo consideravano più una promessa. Si impegnò maggiormente in allenamento, corse di più, si allenò a lungo in battuta, lavorò come ai tempi della Asher. Poi, un giorno, durante il solito allenamento sul diamante, forzò un lancio in seconda base e sentì un dolore acuto al gomito. Cercò di non farci caso, di stringere i denti e continuare a giocare. Sarebbe passato, era solo un indolenzimento dovuto all'intensità dell'allenamento. Invece, lungi dal passare, il dolore cominciò a peggiorare. Alla fine di marzo, Ron riusciva a malapena a lanciare la palla nel diamante. Il 31 marzo gli A's lo esclusero, e lui e Patty si misero in viaggio verso l'Oklahoma. Evitarono Ada e si fermarono a Tulsa, dove Ron trovò lavoro come rappresentante per la Bell Telephone. Era solo temporaneo, si diceva, uno stipendio sicuro in attesa che gli guarisse il braccio e che qualcuno nel giro del baseball si decidesse a chiamarlo. Dopo qualche mese, tuttavia, cominciò a chiamare lui, e a sentirsi rispondere picche. Party trovò lavoro in un ospedale e i due sposini iniziarono a pensare di sistemarsi. Annette gli spediva dai cinque ai dieci dollari alla settimana, in caso avessero bisogno di una mano per le bollette. Questi piccoli extra smisero di arrivare dopo che Party le telefonò per avvertirla che Ron usava quei soldi per comprarsi da bere. Annette non approvava, era preoccupata dal fatto che suo fratello avesse ripreso a ubriacarsi. Sentiva che c'era tensione, ma non sapeva come andassero veramente le cose fra Ron e sua moglie. Party era timida, riservata, non era a suo agio in mezzo ai Williamson. Annette e suo marito li vedevano solo una volta all'anno. Quando la Bell promosse un collega anziché lui, Ron non esitò a licenziarsi e cominciò a vendere assicurazioni sulla vita per conto della Equitable. Era il 1975, non aveva ancora un contratto per giocare a baseball e non vedeva alcun interesse da parte di eventuali squadre che fossero alla ricerca di talenti perduti. Tuttavia, con la sua sicurezza da atleta e la sua personalità estroversa, vendeva un sacco di polizze. Era un venditore nato, e il successo e gli incassi gli piacevano. Gli piaceva anche fare le ore piccole nei bar e nei night. Patty non sopportava che bevesse, non riusciva ad accettare la sua

sregolatezza, il fatto che fumasse abitualmente erba. I suoi sbalzi di umore erano sempre più bruschi e violenti: Ron non era più il ragazzo che aveva sposato. Una sera, nella primavera del 1976, Ron chiamò i suoi in piena crisi isterica, disse che lui e Patty avevano litigato malamente e si erano separati. Roy e Juanita, così come Annette e Renee, rimasero sconvolti dalla notizia, ma speravano che il matrimonio si potesse ancora salvare. D'altra parte succedeva a tutte le giovani coppie di entrare in crisi, non c'era niente di irrimediabile. Prima o poi Ronnie avrebbe ricevuto un'offerta, si sarebbe infilato un'altra divisa e avrebbe ripreso la sua carriera nel baseball. Sarebbe andato tutto bene: era solo una burrasca passeggera. Non fu così, però. Ron e Patty non parlarono con nessuno dei loro problemi, ma divorziarono per "incompatibilità di carattere". Il loro matrimonio era durato meno di tre anni. Roy Williamson aveva un amico d'infanzia chiamato Harry Brecheen, che era di Francis come lui e faceva l'osservatore per gli Yankees. Riuscì a reperire il suo numero di telefono e lo passò al figlio. Il potere di persuasione di Ron diede i suoi frutti nel giugno 1976, quando riuscì a convincere gli Yankees che il suo braccio era guarito e che era più in forma che mai. Dopo aver visto abbastanza grandi lanci da capire che non poteva battere, decise di giocare la sua carta migliore: il suo braccio destro. Era sempre stato forte, a Oakland parlavano continuamente di trasformarlo in lanciatore. Firmò un contratto con gli Oneonta Yankees della New York-Penn League, categoria A. Non vedeva l'ora di lasciare Tulsa e di ricominciare a sognare. Aveva un destro potente, certo, ma spesso sembrava che non avesse un'idea precisa di dove stesse andando la palla. Le palle tagliate erano troppo grezze, gli mancava l'esperienza. A forza di lanciare troppo forte e troppo presto, il dolore al gomito si riacutizzò, dapprima lentamente, poi fino a rendergli praticamente inutilizzabile il braccio. I due anni di inattività si facevano sentire e alla fine della stagione Ron fu escluso di nuovo. Evitando ancora una volta Ada, tornò a Tulsa a vendere polizze assicurative. Annette ogni tanto andava a trovarlo e quando la conversazione toccava il baseball e i suoi insuccessi Ron scoppiava a piangere e non smetteva più. Confessò alla sorella di soffrire di depressione. Tornare alla vita nelle serie minori lo fece ricadere nelle vecchie abitu-

dini: bar, donne, alcol. Per passare il tempo, entrò in una squadra di softball e godette del ruolo di grande stella su un piccolo palcoscenico. Durante una partita, in una serata fredda, lanciò forte verso la prima base e sentì uno strano strappo alla spalla. Lasciò la squadra e il softball, anche se il danno ormai era fatto. Consultò un medico e si sottopose a uno strenuo programma di riabilitazione, ma il miglioramento fu marginale. Non disse nulla dell'infortunio, sperando ancora una volta che il riposo mettesse a posto tutto. L'ultimo tentativo di giocare da professionista fu nella primavera del 1977. Ancora una volta, con la sua abilità retorica, Ron si guadagnò una divisa degli Yankees. Sopravvisse al ritiro primaverile continuando a giocare come lanciatore e fu assegnato a Fort Lauderdale, nella Florida State League. Laggiù sopportò la sua ultima stagione, centoquaranta partite, la metà delle quali in trasferta, in pullman, ma col passare dei mesi finì per essere utilizzato sempre meno. Lanciò in appena quattordici partite, trentatré inning. Aveva ventiquattro anni e una spalla compromessa in modo irreparabile. La gloria della Asher e i tempi di Murl Bowen sembravano ormai lontani. La maggior parte dei giocatori si fa una ragione dell'inevitabile, Ron no. C'erano troppe persone che contavano su di lui, la sua famiglia aveva fatto troppi sacrifici. Aveva rinunciato al college, a un'istruzione, per giocare nella Major League: non poteva mollare. Il suo matrimonio era fallito e lui non era abituato al fallimento. In più, indossava la divisa degli Yankees, simbolo potentissimo che teneva in vita il suo sogno. Resistette con abnegazione fino alla fine della stagione, poi i suoi amati Yankees lo esclusero ancora una volta. 3 Alcuni mesi dopo la fine del campionato, Bruce Leba camminava distrattamente per il Southroads Mall di Tulsa, quando scorse un volto familiare e si fermò di botto. Davanti a lui, in un negozio di abbigliamento maschile chiamato Toppers Menswear, c'era il suo vecchio amico Ron Williamson, con indosso gli stessi vestiti eleganti che cercava di vendere ai clienti. Si abbracciarono affettuosamente e cominciarono a chiacchierare: avevano molte cose da dirsi. Un tempo erano stati come fratelli, poi si erano persi di vista. Dopo essersi diplomati alla Asher, avevano preso strade diverse. Bruce

aveva giocato per due anni all'università, poi aveva smesso per un problema alle ginocchia. La carriera di Ron non era andata molto meglio. Entrambi avevano alle spalle un divorzio. Nessuno dei due sapeva che l'altro si fosse sposato e nessuno dei due si sorprese che l'altro non avesse perso la passione per la vita notturna. Erano giovani, di bell'aspetto, di nuovo single, con un po' di soldi in tasca: cominciarono subito a uscire, per bere e andare a donne insieme. A Ron le donne erano sempre piaciute, ma da quando il baseball aveva smesso di dargli soddisfazioni, rimorchiare era diventato il suo sport preferito. Bruce viveva sempre a Ada, ma ogni volta che passava da Tulsa faceva baldoria con Ron e i suoi amici. Nonostante le delusioni, il baseball rimaneva il loro argomento preferito: i giorni di gloria alla Asher, il coach Bowen, i sogni che un tempo avevano condiviso, i vecchi compagni di squadra. Grazie alle sue ginocchia malridotte, Bruce era riuscito a staccarsi dal baseball senza rancori, o quantomeno a rinunciare senza troppi rimpianti al sogno della Major League. Ron invece era ancora convinto di potercela fare, sperava che le cose cambiassero, che il suo braccio guarisse per miracolo, che la vita tornasse a essere bella. Sulle prime, Bruce non gli disse niente, pensando che gli sarebbe passata. Aveva imparato che nulla svanisce più in fretta della fama di un atleta liceale. Bisogna accettarlo e andare avanti. Qualcuno, però, non ce la fa e continua a sognare. Ron si dichiarava certissimo di poter ancora giocare ed era molto turbato dai propri insuccessi. Chiedeva costantemente a Bruce che cosa diceva la gente di lui a Ada. Era delusa che lui non fosse diventato il nuovo Mickey Mantle? Si parlava di lui nei bar? No, gli assicurava Bruce, nessuno parlava di lui. Ma Ron restava convinto che i suoi concittadini lo considerassero un fallito, e che l'unico modo per rimediare alla situazione fosse ottenere un nuovo contratto e farsi strada con le unghie e con i denti fino alla Major League. Bruce cercava di farlo tornare con i piedi per terra. «Lascia stare il baseball, amico. Il sogno è finito.» La famiglia di Ron cominciò a notare profondi cambiamenti nella sua personalità. A volte era nervoso, agitato, incapace di concentrarsi, saltava continuamente di palo in frasca. Alle riunioni di famiglia se ne stava seduto immobile, muto, per un po', poi di colpo si inseriva nella conversazione

parlando solo di sé e senza lasciar parlare gli altri. Non riusciva a stare fermo sulla sedia, fumava furiosamente, se ne andava senza preavviso. Il giorno del Ringraziamento del 1977, Annette invitò tutta la famiglia per il tradizionale pranzo. Non appena furono seduti, Ron si alzò di scatto senza dire una parola, uscì e andò a piedi fino a casa di sua madre, che stava dalla parte opposta della città. Non spiegò mai perché. In altre occasioni, si chiudeva a chiave in una stanza: era fastidioso per il resto della famiglia, ma almeno si poteva fare conversazione. Quando Ron tornava, infatti, blaterava di qualsiasi cosa gli passasse per la mente, in genere senza alcun collegamento con il discorso che si stava facendo. Stava in mezzo al soggiorno e parlava, parlava, parlava. Poi, a un certo punto, si stancava e tornava a chiudersi a chiave da qualche parte. Una volta si presentò con una chitarra, cominciò a strimpellare e a cantare, stonato, pretendendo che tutta la famiglia cantasse con lui. Dopo alcuni pezzi venuti malissimo, rinunciò e tornò in camera furioso. I familiari sospirarono, alzarono gli occhi al cielo e ripresero a chiacchierare. Purtroppo si erano abituati alle stranezze di Ron. A volte era chiuso, scorbutico e musone per giorni, poi chissà come ritornava socievole ed estroverso. Il baseball lo deprimeva, preferiva non parlarne. Un giorno era depresso e non faceva che autocommiserarsi, il giorno dopo era iperattivo e gioviale. La famiglia sapeva che si era rimesso a bere e sospettavano che facesse anche uso di sostanze. Forse alcol e droga stavano minando il suo equilibrio e contribuivano ai suoi repentini cambi d'umore. Annette e Juanita provarono a parlargliene, il più delicatamente possibile, ma lui reagì con ostilità. Poi a Roy Williamson venne diagnosticato un cancro al colon e i problemi di Ron divennero meno importanti, anche perché il tumore si propagava rapidamente. Ronnie era sempre stato un mammone, ma amava e rispettava suo padre e si sentiva in colpa. Sebbene non andasse più in chiesa e avesse molta meno fede di un tempo, conservava la visione pentecostale secondo cui i peccati vengono puniti. Suo padre aveva condotto una vita retta, ma ora veniva punito per gli innumerevoli peccati commessi dal figlio. La malattia di Roy peggiorò la depressione di Ron, che non riusciva a smettere di pensare al proprio egoismo, ai capricci per i vestiti, le attrezzature sportive, i campi scuola di baseball, le gite... Aveva persino costretto la famiglia a traslocare ad Asher. E l'aveva ripagata con un semplice tele-

visore a colori comprato con l'ingaggio degli A's. Eppure suo padre, senza dire niente, si comprava vestiti di seconda mano perché il figlio potesse essere il più elegante del liceo. Faceva un sacco di strada a piedi con i suoi ingombranti campionari per vendere prodotti per la casa porta a porta e guadagnare qualche soldo. E non si perdeva mai una partita, quando il figlio giocava. All'inizio del 1978 Roy si sottopose a un intervento esplorativo a Oklahoma City, ma il tumore era già in fase avanzata e non poteva essere asportato chirurgicamente. Roy rifiutò la chemioterapia, tornò a casa e cominciò un rapido e doloroso declino. Verso la fine, Ron tornò a casa da Tulsa per stargli vicino. Disperato, in lacrime, si scusò ripetutamente con lui e lo pregò di perdonarlo. Roy a un certo punto ne ebbe abbastanza. «È ora che cresci, figlio mio» gli disse. «Sii uomo. Basta con i pianti e le crisi isteriche, cerca di fare qualcosa della tua vita.» Morì il 1° aprile 1978. Nel 1978, Ron abitava a Tulsa con Stan Wilkins, un metalmeccanico che aveva quattro anni meno di lui. I due condividevano la passione per la chitarra e per la musica leggera, e passavano ore a suonare e cantare. Ron aveva una voce potente, sebbene non molto esercitata, un certo talento musicale e una chitarra costosa, una Fender. Era capace di suonare per ore. La vita notturna a Tulsa non mancava e i due coinquilini uscivano spesso. Dopo il lavoro andavano a bersi qualche birra e poi puntavano verso i club, dove Ron era conosciuto. Amava le donne ed era assolutamente impavido quando si trattava di conquistarle. Appena entrava in un locale, si guardava in giro, sceglieva la più sexy e la invitava a ballare. Se lei acconsentiva, di solito finiva che Ron la accompagnava a casa. Il suo obiettivo era portare a letto una donna diversa ogni sera. Nonostante amasse bere, se era in caccia stava attento a non esagerare per non rischiare di compromettere le sue prestazioni. La droga non dava di questi problemi, tuttavia, specie la cocaina, che si stava diffondendo in tutti gli Stati Uniti e si trovava facilmente nei locali di Tulsa. Alle malattie sessualmente trasmissibili all'epoca non si pensava: la preoccupazione maggiore era l'herpes, dell'AIDS non si era ancora sentito parlare. La seconda metà degli anni Settanta poteva essere un'epoca di edonismo selvaggio, per chi lo desiderava. Ron Williamson perse il controllo. Il 30 aprile 1978 la polizia di Tulsa ricevette una chiamata da Lyza

Lentzch, che dichiarò di essere stata stuprata da Ron Williamson. Ron venne arrestato il 5 maggio, pagò 10.000 dollari di cauzione e fu rilasciato. Si rivolse a John Tanner, penalista affermato, e ammise di aver avuto un rapporto sessuale con la Lentzch. Era stato consensuale, però; si erano incontrati in un locale, lei lo aveva invitato a casa sua ed erano stati a letto assieme. Tanner gli credette, nonostante in genere fosse piuttosto diffidente nei confronti dei clienti che si dichiaravano innocenti. Anche gli amici di Ron trovarono ridicola l'accusa di stupro. Ron piaceva alle donne, che gli saltavano praticamente addosso. Poteva avere chi voleva in qualsiasi locale. Inoltre, quelle che abbordava non erano mai santarelline appena uscite dalla chiesa, ma donne fatte in cerca di avventure. Sebbene passare per uno stupratore lo umiliasse, era deciso a comportarsi come se niente fosse. Continuò a uscire e fare baldoria, e se qualcuno provava a dirgli che si era messo in un casino, gli rideva in faccia. Aveva un buon avvocato, non aveva paura di niente e di nessuno. In realtà, un po' di paura l'aveva. E non a torto. Essere accusato di un reato così grave era preoccupante e il pensiero di dover affrontare una giuria che avrebbe potuto spedirlo in prigione per anni gli metteva ansia. Essendo a Tulsa e non a Ada, poté risparmiare ai suoi familiari alcuni dettagli, ma questi si accorsero presto che la sua depressione e i suoi sbalzi d'umore stavano peggiorando. Di fronte a un mondo sempre più ostile, Ron reagì con le sole armi che possedeva: si mise a bere di più, a fare più tardi la notte, a corteggiare più donne. L'idea era quella di fare una bella vita e sfuggire alle preoccupazioni, ma in realtà l'alcol alimentava la sua depressione, o forse la sua depressione aumentava il bisogno di alcol. Quale che fosse la combinazione, Ron divenne sempre più lunatico, depresso e imprevedibile. Il 9 settembre, la polizia di Tulsa ricevette una telefonata riguardo un altro presunto stupro a opera di Ron Williamson. Una diciottenne che si chiamava Amy Dell Ferneyhough era rimasta chiusa fuori di casa dopo una lunga notte in un locale. Erano le quattro del mattino, non trovava le chiavi e il suo ragazzo non le apriva la porta perché era arrabbiato con lei. Siccome Amy aveva bisogno di andare in bagno, si era diretta verso un negozio che stava aperto tutta la notte. Lì aveva incontrato Ron Williamson. Non si conoscevano, ma avevano cominciato a chiacchierare e poi si erano appartati in un campo dietro il negozio, dove avevano avuto un rap-

porto sessuale. Secondo la Ferneyhough, Ron l'aveva presa a pugni, le aveva strappato i vestiti e l'aveva stuprata. Secondo Ron, la Ferneyhough era arrabbiata con il suo ragazzo che l'aveva chiusa fuori di casa ed era ben contenta di consolarsi un po' con lui. Per la seconda volta in cinque mesi, Ron pagò la cauzione e chiamò John Tanner. Con due accuse di stupro che gli pendevano sulla testa, mise un freno alla vita notturna e piano piano si ritirò in una specie di clausura. Viveva solo, non parlava praticamente con nessuno. Annette intuì qualcosa perché gli mandava dei soldi. Bruce Leba sapeva poco o niente. Nel febbraio del 1979, cominciò il processo Ferneyhough. Ron testimoniò e spiegò ai giurati che, sì, certo, lui e Amy avevano fatto sesso, ma di comune accordo. Si erano appartati dietro un negozio alle quattro del mattino. La giuria si ritirò a deliberare per un'ora, gli credette e lo assolse. A maggio Ron tornò in tribunale per rispondere alle accuse di Lyza Lentzch. Spiegò alla giuria che l'aveva incontrata in un night e aveva ballato con lei. Lyza gli piaceva ed evidentemente anche lui piaceva a lei, dato che l'aveva invitato a passare la notte a casa sua, dove avevano avuto un rapporto consensuale. Lyza dichiarò che in realtà lei aveva cambiato idea e aveva cercato di spiegarlo a Ron Williamson, ma lui le aveva fatto paura e lei alla fine aveva ceduto per evitare di finire male. Ancora una volta, la giuria credette a Ron e lo assolse. Che gli avessero dato dello stupratore era umiliante e Ron sapeva che un'etichetta del genere era difficile da togliere, ma dover rispondere di violenza carnale due volte in meno di cinque mesi era una vera e propria infamia. Lui, il grande Ron Williamson, uno stupratore? Che poi fosse stato assolto poco contava: la gente avrebbe mormorato, gli avrebbe puntato il dito contro ogni volta che passava. Aveva ventisei anni, e per la maggior parte della sua vita era stato la stella del baseball, la grande promessa destinata alla gloria della Major League. Poi era diventato il giocatore ancora sicuro di sé vittima di un infortunio temporaneo. La gente di Ada e di Asher non si era dimenticata di lui: era giovane, ancora pieno di talento, famoso. Ma con le accuse di stupro cambiava tutto: a quel punto nessuno l'avrebbe più ricordato come giocatore di baseball, ma come quello che violentava le donne. Si chiuse in se stesso, ritirandosi ogni giorno un po' di più nel suo mondo buio e confuso. Cominciò a non presentarsi più al lavoro, dopo

un po' si licenziò da Toppers Menswear e, quando rimase completamente senza soldi, fece le valigie e se andò da Tulsa. Stava precipitando nella depressione più cupa, risucchiato da una spirale inarrestabile, fra alcol e droga. Juanita era profondamente turbata. Non sapeva granché dei problemi che Ron aveva avuto a Tulsa, ma sapeva abbastanza da preoccuparsi. Ron era chiaramente conciato male: beveva, i suoi sbalzi d'umore erano sempre più brutti e repentini, i suoi comportamenti sempre più bizzarri. Si vedeva subito che stava male: aveva i capelli incolti, la barba lunga, i vestiti sporchi. Proprio lui, che fino a poco prima teneva tantissimo al suo aspetto, lavorava in un negozio di abbigliamento e si accorgeva subito se giacca e cravatta non erano intonate. Si piazzava sul divano nel soggiorno di sua madre e dormiva. A volte ronfava venti ore al giorno, sempre sul divano. Aveva la sua camera, ma quando era buio si rifiutava anche solo di entrarci. C'era dentro qualcosa, diceva, qualcosa che lo spaventava. Sebbene dormisse profondamente, a volte si alzava di scatto urlando che c'erano serpenti per terra e ragni sui muri. Cominciò a sentire delle voci, ma non confidò a sua madre cosa gli dicessero. A un certo punto, però, iniziò a rispondere. Ogni cosa lo stancava: persino mangiare e lavarsi erano una fatica cui doveva seguire una lunga pennichella. Era apatico e demotivato, anche nei suoi brevi sprazzi di sobrietà. Juanita non aveva mai tollerato alcol in casa e odiava anche il fumo. Raggiunsero una sorta di tregua quando Ron si trasferì nell'angusto garage accanto alla cucina. Lì poteva fumare e bere e suonare la chitarra senza dare fastidio a sua madre. Quando voleva dormire, si trascinava in soggiorno e si buttava sul divano; quando era sveglio, stava nell'appartamentino ricavato nel garage. Di tanto in tanto ritrovava le energie e ricominciava a uscire la sera, a bere, drogarsi e andare a donne, anche se con un minimo di cautela in più. Spariva per giorni, dormiva fuori, chiedeva soldi a qualunque conoscente incontrasse per strada. Poi, di colpo, tornava l'apatia, le lunghe dormite sul divano, la chiusura verso il mondo. Juanita era in ansia. Non c'erano casi di malattie mentali in famiglia e lei non aveva idea di come gestire una cosa simile. Pregava e faceva di tutto per tenere i problemi di Ronnie lontani da Annette e Renee. Le sue figlie erano sposate, felici. Ronnie era la sua croce, non la loro. Occasionalmente, Ron parlava di cercare lavoro. Il fatto di non riuscire a

lavorare e a mantenersi da solo lo faceva stare male. Un suo amico aveva delle conoscenze in California, sapeva che stavano assumendo gente. E così, con grande sollievo di tutta la famiglia, Ron partì. Dopo qualche giorno, però, chiamò la madre in lacrime, dicendole che abitava con dei satanisti che lo terrorizzavano e non lo lasciavano andare via. Juanita gli mandò un biglietto aereo, e Ron riuscì a scappare. Provò in Rorida, nel New Mexico e in Texas, ma non resisteva mai più di un mese. Tornava sempre affaticato ed esausto, e passava ancora più tempo sul divano. Alla fine, Juanita lo convinse a vedere uno specialista, che gli diagnosticò una sindrome maniaco-depressiva e gli prescrisse del litio. Ron però non lo prendeva con regolarità. Lavorava part-time dove trovava, senza mai riuscire a tenersi un posto. L'unica cosa che era capace di fare era vendere, ma ormai non era più nelle condizioni di convincere nessuno a comprare niente. Parlava ancora di sé come di un giocatore professionista, un buon amico di Reggie Jackson, ma a quel punto non gli credeva più nessuno. Verso la fine del 1979, Annette prese appuntamento con Ronald Jones, un giudice della Corte distrettuale della contea di Pontotoc. Gli spiegò il problema del fratello e gli chiese se lo Stato non potesse fare qualcosa. «No» rispose il giudice Jones. «Finché non diventa pericoloso per sé o per gli altri, non si può intervenire.» In un giorno di particolare lucidità, Ron fece domanda per entrare in una comunità di recupero di Ada. Il medico che lo visitò, allarmato per le sue condizioni, gli consigliò di rivolgersi al dottor Prosser del Saint Anthony Hospital di Oklahoma City. Ron fu ricoverato il 3 dicembre 1979. Ma i problemi cominciarono presto: Ron esigeva privilegi che il personale non poteva accordargli, voleva molto più tempo e attenzione da parte dei medici e si comportava come se fosse il loro unico paziente. Quando le sue richieste non venivano esaudite, se ne andava dall'ospedale. Qualche ora dopo tornava e chiedeva di essere riammesso. L'8 gennaio 1980, Prosser osservò che Ron aveva "comportamenti strani, talvolta psicotici". Scrisse: "È difficile stabilire se sia maniacodepressivo come pensa il collega di Ada, oppure schizoide con tendenze sociopatiche, o viceversa sociopatico con tendenze schizoidi. Avrebbe bisogno di un trattamento prolungato, ma rifiuta la terapia". Ron viveva in un sogno sin dalla prima adolescenza, dai giorni gloriosi

del baseball, e non accettava la realtà. Credeva ancora che "loro" - le autorità costituite del baseball - sarebbero venuti a cercarlo per farlo giocare, dargli onore e celebrità. "Il tratto schizofrenico del suo disturbo è che vuole soltanto giocare a baseball, preferibilmente da grande campione" scrisse il dottor Prosser. Gli suggerirono un trattamento prolungato contro la schizofrenia, ma Ron non ne volle sapere. Sebbene rifiutasse analisi ed esami, Prosser lo definì "sano e robusto, attivo, mobile e fisicamente più in forma della media dei suoi coetanei". Quando si riprese, Ron andò a vendere porta a porta i prodotti della Rawleigh come suo padre. Ma era un lavoro noioso, le provvigioni erano basse, lui aveva poca pazienza per la parte amministrativa e riteneva che una grande stella del baseball non dovesse finire a vendere prodotti per la casa. Rifiutava le cure e beveva. Ormai era un habitué dei bar di Ada e dintorni. Si ubriacava, blaterava della sua carriera nel baseball e infastidiva le donne. Molti lo temevano, baristi e buttafuori lo conoscevano. Se Ron Williamson entrava in un locale, se ne accorgevano tutti. Uno dei suoi club preferiti era il Coachlight, dove i buttafuori lo tenevano d'occhio. Si venne ben presto a sapere che a Tulsa aveva avuto dei problemi con la giustizia e cominciò a tenerlo d'occhio anche la polizia. Una notte, lui e Bruce Leba erano in giro per bar e si fermarono a far benzina. Un poliziotto che li stava seguendo li fermò accusandoli di aver rubato la benzina. Non era vero, ma evitarono l'arresto solo di un soffio. Non poteva durare. Nell'aprile del 1980, due anni dopo la morte del padre, Ron venne arrestato per guida in stato di ebbrezza. A novembre, Juanita lo convinse a cercare aiuto contro l'alcolismo. Spronato dalla madre, Ron si recò al centro di igiene mentale di Ada e parlò con Duane Logue, un consulente per le tossicodipendenze. Ammise tranquillamente di bere da undici anni, di assumere sostanze da sette e di aver aumentato il consumo di alcol dopo che gli Yankees lo avevano escluso. Non fece cenno ai due processi per stupro. Logue gli consigliò una struttura che si chiamava Bridge House, ad Ardmore, Oklahoma, un'ottantina di chilometri da Ada. Il giorno dopo, Ron si presentò alla Bridge House e accettò il ricovero di ventotto giorni per disintossicarsi. Era molto agitato e continuava a dire al medico che aveva fatto "cose terribili". Dopo due giorni, incominciò a isolarsi, a dormire tutto il giorno e a saltare i pasti. Dopo una settimana, sorpreso a fumare

nella sua stanza in chiara violazione del regolamento, dichiarò che si era stufato e che voleva andare via con Annette, che quel giorno era andata a trovarlo. L'indomani era già di ritorno a chiedere di essere riammesso. Gli dissero di andare a casa e di presentarsi dopo due settimane. Temendo l'ira della madre, Ron preferì restare ad Ardmore e girovagò per giorni senza dire a nessuno dove fosse. Il 25 novembre Duane Logue gli scrisse una lettera, fissando un appuntamento per il 4 dicembre. Diceva, fra l'altro: "Sono preoccupato per il suo stato di salute e spero di vederla all'appuntamento". Il 4 dicembre, Juanita informò il centro di igiene mentale che Ron aveva trovato un lavoro e viveva ad Ardmore. Si era fatto dei nuovi amici, aveva contattato una chiesa e nuovamente accettato Cristo. Insomma, non aveva più bisogno del loro aiuto: potevano chiudere la pratica. La riaprirono dieci giorni dopo, quando Ron incontrò nuovamente Duane Logue, il quale gli consigliò una terapia a lungo termine. Ron non era d'accordo. Non prendeva neppure i farmaci che gli erano stati prescritti, soprattutto il litio. A volte ammetteva senza remore l'abuso di alcol e droghe, altre lo negava con fermezza. "Bevo solo qualche birra ogni tanto" diceva. Non riuscendo a tenersi un lavoro, era sempre al verde. Quando Juanita si rifiutava di "prestargli" dei soldi, lui girava per tutta Ada alla ricerca di qualcuno disposto a passargli qualcosa. Prevedibilmente il suo giro di amici si stava assottigliando; la maggior parte della gente lo evitava. Andava spesso ad Asher a trovare Murl Bowen. Chiacchieravano, Ron gli raccontava l'ennesima disavventura della sua vita sfortunata e il suo vecchio allenatore gli allungava venti dollari. Ron prometteva di restituirglieli e lui gli faceva la predica, raccomandandogli di darsi una regolata. Ron andava spesso anche da Bruce Leba, che si era risposato e conduceva una vita assai più tranquilla nella sua casa fuori città. Almeno un paio di volte al mese, Ron si presentava alla sua porta ubriaco e sporco, e lo supplicava di lasciarlo dormire da lui. Bruce lo accoglieva sempre, cercava di fargli passare la sbornia, gli dava da mangiare e alla fine gli infilava in mano dieci dollari. Nel febbraio del 1981 Ron fu nuovamente arrestato per guida in stato di ebbrezza. Si dichiarò colpevole e finì in prigione. Appena uscito, partì per andare a trovare sua sorella Renee e suo marito Gary a Chickasha. Una domenica, tornando dalla funzione, Renee e Gary se lo trovarono nel giardino di casa. Ron spiegò loro che stava in tenda, che l'aveva montata nei

paraggi. Fin lì, era abbastanza credibile. Ma Ron raccontò anche di essere appena sfuggito ad alcuni militari di Lawton, i quali avevano la casa piena di armi ed esplosivi con cui volevano far saltare in aria la base. Fortunatamente era riuscito a scappare in tempo, ma ora aveva bisogno di un tetto. Renee e Gary lo fecero stare in camera del figlio. Gary gli trovò un lavoro in una fattoria, a trasportare balle di fieno, ma Ron ci restò solo due giorni e poi si licenziò, perché aveva trovato una squadra di softball che aveva bisogno di lui. Il fattore chiamò poi Gary dicendogli che Ron avrebbe fatto meglio a non ripresentarsi. Secondo lui, aveva seri problemi mentali. L'interesse di Ron per i presidenti americani si rinfocolò all'improvviso e per giorni non parlò d'altro. Non solo era in grado di citarli in ordine cronologico e al contrario, ma sapeva tutto di loro: date e luoghi di nascita, mandati, vicepresidenti, mogli e figli, imprese particolari e così via. Ogni conversazione in casa dei Simon doveva avere per argomento un presidente americano. Quando Ron era presente non si poteva discutere di nient'altro. Ormai viveva soltanto di notte. Sebbene avesse voglia di dormire, al buio non ci riusciva e così guardava la televisione a tutto volume fino all'alba, quando gli veniva sonno. I Simon, stanchi dopo la notte insonne, potevano almeno fare colazione in pace prima di andare al lavoro. Ron si lamentava spesso dei suoi mal di testa. Una notte Gary sentì dei rumori e lo trovò che rovistava nell'armadio dei medicinali, alla ricerca di qualcosa che gli facesse passare l'emicrania. Raggiunto il limite della sopportazione, gli fece un bel discorso serio. Gli spiegò che era il benvenuto e poteva restare, ma che avrebbe dovuto adattarsi ai loro ritmi. Ron pareva non rendersi conto dei propri problemi. Se ne andò senza dir nulla e tornò da sua madre, dove passava il tempo sul divano o rinchiuso nel garage. Aveva ventotto anni ed era incapace di ammettere che aveva bisogno d'aiuto. Annette e Renee erano preoccupate per il fratello, ma non c'era molto che potessero fare. Lui era testardo e sembrava contento della sua vita da vagabondo. I suoi comportamenti erano sempre più strani e non c'era dubbio che le sue facoltà mentali si stessero deteriorando, ma questo argomento era tabù: avevano già provato a parlargliene, invano. Juanita poteva anche persuaderlo ad andare a parlare con uno psicologo o a cercare una cura per il bere, ma lui non si impegnava mai a seguire alcun trattamento pro-

lungato. Ogni piccolo sprazzo di sobrietà era seguito da settimane di incertezza riguardo dove fosse o cosa stesse facendo. Il suo unico divertimento era suonare la chitarra, solitamente sulla veranda a casa di sua madre. Poteva star seduto, arpeggiare e cantare agli uccelli per ore. Quando la veranda lo annoiava, andava a esibirsi per strada. Spesso senza macchina o senza soldi per far benzina, vagabondava per Ada a piedi con la chitarra in mano. Rick Carson, il suo amico d'infanzia, faceva il poliziotto. Quando era di pattuglia, vedeva spesso Ron bighellonare sui marciapiedi e in mezzo alle case, a suonare e cantare fino a tarda notte. Gli chiedeva: «Dove te ne vai, Ron?». «Da nessuna parte.» Allora Rick gli offriva un passaggio a casa. A volte Ron lo accettava, altre preferiva continuare a camminare. Il 4 luglio 1981 venne arrestato per ubriachezza molesta. Juanita si infuriò e insistette perché Ron cercasse aiuto. Così Ron si rivolse al Central State Hospital di Norman, dove fu visitato dal dottor Sambajon del reparto di psichiatria. Ron voleva "che qualcuno lo aiutasse". La sua energia e la sua autostima erano estremamente basse, pensava di non valere niente e di non avere speranze. Aveva persino tendenze suicide. Disse: "Non posso fare alcun bene a me o a chi mi sta intorno. Non riesco a tenermi un lavoro, ho sempre un atteggiamento negativo". Raccontò al dottor Sambajon che la depressione era cominciata quattro anni prima, quando la sua carriera nel baseball era finita quasi in contemporanea con il suo matrimonio. Riconobbe di abusare di alcol e droghe, ma riteneva che non fosse quella la causa dei suoi problemi. Il dottor Sambajon lo trovò "trasandato, sporco, disordinato, incapace di prendersi cura di se stesso". Ma non aveva perso del tutto le proprie capacità di giudizio e sembrava avere un'idea, per quanto vaga, delle proprie condizioni. Gli diagnosticò un disturbo distimico, una forma cronica di depressione minore, e gli raccomandò di prendere i farmaci, di sottoporsi a una psicoterapia e a una terapia di gruppo, e di affidarsi al sostegno della famiglia. Nel giro di tre giorni Ron chiese e ottenne di essere dimesso. Una settimana dopo si ripresentò in ospedale ed ebbe un colloquio con Charles Amos. Si definì un ex giocatore di baseball, depresso dalla fine della sua carriera sportiva. Sosteneva che un'altra causa della sua depressione era la religione. Amos gli raccomandò la dottoressa Marie Snow, l'unica psichia-

tra di Ada, e lui cominciò a vederla una volta alla settimana. La Snow gli prescrisse l'Asendin, un comune antidepressivo, e Ron mostrò timidi cenni di miglioramento. Lo convinse a sottoporsi a una psicoterapia, ma Ron resistette tre mesi e poi piantò lì. Il 30 settembre 1982 fu nuovamente arrestato per guida in stato di ebbrezza e finì in prigione. 4 Tre mesi dopo l'omicidio di Debbie Carter, gli ispettori Dennis Smith e Mike Kieswetter andarono a casa Williamson e interrogarono Ron per la prima volta. Juanita era presente e partecipò al colloquio. Ron non ricordava dove era stato la sera del 7 dicembre, anche perché erano passati tre mesi. Sì, ogni tanto andava al Coachlight, come in altri locali di Ada. Juanita controllò l'agenda e informò gli ispettori di polizia che quella sera alle dieci suo figlio era in casa. Mostrò loro la pagina del 7 dicembre. Smith e Kieswetter chiesero a Ron se conosceva Debbie Carter. Non gli pareva, rispose lui. La conosceva di nome, certo, visto che in città si era molto parlato della sua morte. Smith gli mostrò una foto e Ron la osservò con attenzione. Sì, forse l'aveva vista in giro, non era sicuro. Chiese di rivederla. Sì, gli sembrava un viso noto. Negò con decisione di sapere qualcosa dell'omicidio, ma disse che a suo parere era stato uno psicopatico che l'aveva seguita fino a casa, l'aveva aggredita e poi era scappato dalla città. Dopo una mezz'oretta, i due ispettori chiesero a Ron se era disponibile a fornire un campione di saliva, un capello e un pelo pubico. Ron disse di sì e li seguì in centrale. Tre giorni dopo, il 17 marzo, Smith e Kieswetter tornarono e gli rifecero le stesse domande. Ron ripeté che non aveva nulla a che fare con l'omicidio di Debbie Carter e che la sera del 7 dicembre era rimasto a casa. La polizia interrogò anche Dennis Fritz, il quale non aveva nessun legame con il caso a parte il fatto di essere amico di Ron Williamson. Secondo un primo verbale di polizia, Fritz era "indagato, o comunque in rapporti con un altro indagato per l'omicidio di Debbie Carter". Dennis andava molto di rado al Coachlight e quando fu commesso l'omicidio non ci metteva piede da mesi. Nessun teste ne segnalò la presenza nel locale; anzi, fino al marzo del 1983 nessun teste fece mai il suo nome. Si era trasferito da poco a Ada, non lo conosceva quasi nessuno. Non ave-

va mai accompagnato Ron Williamson al Coachlight. Non conosceva Debbie Carter, non credeva di averla mai vista e non sapeva dove abitasse. Siccome però le indagini si stavano ormai concentrando su Ron Williamson e l'idea era che fossero state due persone a uccidere Debbie Carter, occorreva trovare un complice. Dennis Fritz era la persona giusta. Dennis Fritz era di una cittadina vicina a Kansas City, dove aveva studiato. Nel 1971 si era laureato in biologia alla Southeastern Oklahoma State University. Nel 1973 aveva avuto una figlia, Elizabeth. All'epoca viveva con la moglie Mary a Durarti, Oklahoma. Mary lavorava in un college e Dennis aveva un buon posto in ferrovia. Il giorno di Natale del 1975 Dennis era fuori città per lavoro e Mary fu uccisa da un vicino diciassettenne, che le sparò alla testa mentre lei era in casa seduta su una sedia a dondolo. Per due anni Dennis non riuscì più a lavorare. Emotivamente scosso, non riusciva a fare altro che occuparsi di Elizabeth. Quando nel 1981 la bambina cominciò la scuola, però, andò a insegnare scienze in una scuola nella cittadina di Konawa. Pochi mesi dopo si trasferì a Ada e andò a stare in una casa in affitto non distante da quella di Ron Williamson e dall'appartamento in cui sarebbe poi morta Debbie Carter. La madre, Wanda, si trasferì con lui per dargli una mano con Elizabeth. Dennis accettò un altro incarico in una scuola di Noble, a un'ora di macchina, dove insegnava biologia e allenava la squadra di basket. Durante la settimana stava in un caravan nel parco della scuola e il weekend tornava a Ada per passare un po' di tempo con la figlia e la madre. Non faceva vita notturna, ma qualche sera andava a salutare la figlia e poi a bere un bicchiere o forse a cercare compagnia. Nel novembre del 1981, una sera che era a Ada e si annoiava, Dennis uscì a comprare della birra. Davanti al negozio c'era la vecchia Buick di Juanita Williamson, con Ron sul sedile davanti che suonava la chitarra. Anche Dennis suonava e per combinazione aveva la chitarra in macchina. I due attaccarono discorso e parlarono un po' di musica. Ron spiegò a Dennis che abitava lì vicino e lo invitò a suonare con lui. Erano tutti e due piuttosto soli e bisognosi di compagnia. Dennis trovò l'appartamento di Ron squallido e sporco. Ron gli spiegò che era disoccupato e abitava con sua madre, la quale non tollerava né tabacco né alcol. Quando Dennis gli chiese come passava le giornate, Ron rispose che dormiva un sacco. Gli sembrò un tipo abbastanza cordiale, che

parlava e rideva volentieri, ma restava sempre un po' per conto suo: ogni tanto guardava nel vuoto come se lui non ci fosse. Insomma, era un uomo strano. Dennis era contento di poter parlare di musica e suonare la chitarra con qualcuno, però la terza o quarta volta che si videro notò che Ron beveva troppo ed era molto lunatico. Gli piacevano la birra e la vodka, cominciava a bere nel tardo pomeriggio, quando si svegliava e sua madre non c'era. Prima che l'alcol gli entrasse in circolo era piatto e depresso, poi si riprendeva. Ron e Dennis iniziarono a uscire insieme per locali, la sera. Un pomeriggio Dennis andò da Ron prima del solito e fece due chiacchiere con Juanita. La trovò simpatica, ma molto provata; non si sbottonò, tuttavia sembrava stanca e preoccupata per il figlio. Mentre loro parlavano, Ron stava in camera sua a guardare il muro. Disse a Dennis che quella stanza gli dava la nausea e che cercava di passarci meno tempo possibile. C'erano molte foto di Party, la sua ex moglie, e di lui vestito da baseball. «Che bella donna!» commentò Dennis guardando Patty. «Un tempo avevo tutto» gli rispose Ron triste e amareggiato. Aveva ventotto anni e si era già arreso. Andare per bar era sempre un'avventura, con Ron. Non stava mai zitto, voleva essere sempre al centro dell'attenzione. Si divertiva a mettersi in giacca e cravatta e fingere di essere un ricco avvocato di Dallas. Nel 1981 aveva abbastanza esperienza di tribunali per poter risultare credibile e la sceneggiata si ripeté in numerosi locali della zona. Dennis Fritz se ne stava in disparte e si godeva la scena. Dava molto spazio a Ron. Dopo un po', però, cominciò a stufarsi. Uscire con Ron significava ritrovarsi immancabilmente coinvolti in qualche lite, non sapere mai come sarebbe finita la serata. Nell'estate del 1982, mentre tornavano a Ada dopo essere stati in giro a bere, Ron disse a Dennis che voleva andare a Galveston. Dennis aveva commesso l'errore di raccontargli che una volta era stato a pescare da quelle parti e a Ron era venuta voglia di provare. Erano ubriachi e l'idea di farsi otto ore di macchina non sembrava troppo balzana. Erano usciti con il pick-up di Dennis perché Ron non aveva più né patente, né macchina. Peraltro, non avrebbe neanche avuto i soldi per la benzina. La scuola era finita, Dennis aveva qualche soldo in tasca e la prospettiva di andare a pescare non gli dispiaceva. Così i due comprarono dell'altra birra e si misero in viaggio.

A un certo punto, in Texas, a Dennis venne sonno e così guidò Ron. Quando Dennis si risvegliò, seduto dietro c'era un nero dall'aria strana. «Ho fatto salire un autostoppista» gli comunicò Ron tutto fiero. A Houston, appena prima dell'alba, si fermarono un momento a comprare qualcosa da bere e da mangiare. Quando tornarono, il pick-up non c'era più: l'aveva rubato l'autostoppista. Ron ammise di essersi dimenticato le chiavi nel cruscotto. Anzi, a pensarci bene, forse aveva lasciato addirittura il motore acceso. Dennis e Ron si bevvero un'altra birra meditando sulla loro cattiva sorte. Dennis avrebbe voluto chiamare la polizia, Ron era incerto. Litigarono un po', poi Dennis telefonò. Il poliziotto lo stette a sentire e alla fine gli rise in faccia. Erano in un quartiere malfamato, ma trovarono un Pizza Hut, mangiarono una pizza e bevvero qualche birra. Poi si misero a girare per la città, senza meta. Verso sera, si imbatterono in una discoteca di neri, dove Ron era deciso a entrare. Dennis pensava che fosse una follia, ma alla fine si rese conto che probabilmente era più prudente stare dentro che fuori. Così entrarono e Dennis ordinò una birra, sperando di passare inosservato. Ma Ron cominciò come al solito a parlare a voce alta e ad attirare l'attenzione. Era in giacca e cravatta, e faceva l'avvocato di Dallas. Mentre Dennis si crucciava per il suo pick-up e stava attento a non beccarsi una coltellata, il suo amico si vantava di essere in stretti rapporti con Reggie Jackson. Il padrone della discoteca, Cortez, prese Ron in simpatia. Quando questi gli raccontò del furto del pick-up, rise a crepapelle. Alla chiusura del locale, Ron e Dennis andarono via con lui. Abitava lì vicino, ma non aveva abbastanza letti per tutti, così i due bianchi dormirono per terra. Al mattino, Dennis si svegliò con un gran mal di testa, furioso per la perdita del pick-up e deciso a tornare a Ada senza correre altri rischi. Ron dormiva della grossa, ma lui lo svegliò e insieme convinsero Cortez ad accompagnarli a una banca, in modo che Dennis potesse prelevare. Cortez accettò dietro pagamento e li aspettò in macchina mentre loro entravano in banca. Quando stavano per uscire, Ron e Dennis videro arrivare decine di automobili della polizia a sirene spiegate e convergere intorno alla macchina di Cortez. Osservarono gli agenti che facevano scendere il loro conoscente e lo trasferivano a bordo di una volante e si allontanarono quatti quatti, cercando di non farsi notare. Trovarono un pullman per Ada, comprarono i biglietti e si imbarcarono in un viaggio lungo e noioso. Dennis non ne poteva più di Ron ed era arrabbiato per la storia del pick-up. Decise di non vederlo per un po'.

Ron lo chiamò un mese più tardi per chiedergli di uscire. Dopo l'avventura a Houston, i rapporti fra i due si erano notevolmente raffreddati. A Dennis piaceva uscire e far bagordi, ma cercava sempre di tenere la situazione sotto controllo. Ron gli andava bene per farsi una birra ogni tanto e suonare un po' la chitarra assieme, ma uscire con lui la sera voleva dire sempre cacciarsi in qualche guaio. Accettò, ma avvertì Ron che poteva stare fuori poco, giusto il tempo di un bicchiere, perché aveva appuntamento con una ragazza. Gli era tornata la voglia di sistemarsi. Sua moglie era morta da sette anni, voleva rifarsi una vita. Ron invece non cercava relazioni stabili: le donne gli interessavano per il sesso e basta. Nonostante l'avesse avvertito, Dennis fece fatica a scrollarsi di dosso Ron, che lo seguì all'appuntamento con la ragazza e, resosi finalmente conto di essere di troppo, si infuriò e se ne andò. Non avendo voglia di farsi la strada a piedi, tuttavia, rubò la macchina di Dennis e andò a casa di Bruce Leba. Dennis restò a dormire dalla sua ragazza e quando la mattina dopo si rese conto che la sua auto non c'era più, chiamò la polizia e sporse denuncia. Poi telefonò a Bruce Leba e gli chiese se aveva visto Ron. Bruce promise di riportare a Ada sia Ron sia la macchina. Per strada, però, venne fermato dalla polizia. Dennis ritirò la denuncia, ma lui e Ron non si parlarono per mesi. Dennis Fritz era a Ada quando ricevette la telefonata dell'ispettore Dennis Smith. Era gentilmente pregato di recarsi alla stazione di polizia per chiarire alcune cosette. «Quali cosette?» chiese Fritz. «Ne parliamo di persona» gli rispose Smith. Fritz non aveva niente da nascondere, ma andare alla polizia lo innervosiva lo stesso. Smith e Rogers gli chiesero che rapporti avesse con Ron Williamson. Era un suo amico, rispose lui, ma non lo vedeva da mesi. All'inizio fu un colloquio formale, poi i toni si fecero più aspri. «Dov'era la sera del 7 dicembre?» Dennis sul momento non seppe rispondere, aveva bisogno di rifletterci. «Conosceva Debbie Carter?» «No.» E così via. Fritz uscì dopo un'ora, lievemente preoccupato di essere stato coinvolto nelle indagini per quel fatto di sangue. Dennis Smith gli ritelefonò per chiedergli se era disposto a sottoporsi a una prova con la macchina della verità. Avendo una formazione scientifica, Fritz sapeva che il poligrafo è uno strumento inaffidabile e avrebbe preferito non averci nulla a che fare. D'altra parte, che non aveva mai co-

nosciuto Debbie Carter era vero e dimostrarlo a Smith e Rogers poteva essere importante. Quindi, seppure con una certa riluttanza, accettò di recarsi negli uffici dell'OSBI a Oklahoma City. Quanto più si avvicinava il giorno del test, tanto più era agitato, al punto che prima di andare prese del valium per calmarsi. A somministrargli il test fu l'agente dell'OSBI Rusty Featherstone, in presenza di Dennis Smith e Gary Rogers. Al termine, i tre osservarono il grafico scuotendo gravemente la testa. L'esame era andato "molto male". «Impossibile» fu la prima reazione di Fritz. «Tu ci stai nascondendo qualcosa» dissero. Fritz ammise di essere agitato e confessò di aver preso del valium. Evidentemente era un elemento importante, perché Featherstone, Smith e Rogers insistettero per ripetere la prova. Dennis sentì di non avere alternative. La settimana successiva, Featherstone portò la macchina della verità a Ada e la predispose nel seminterrato del dipartimento di polizia. Fritz era ancora più teso della prima volta, ma rispose a tutte le domande con facilità e sinceramente. Ciononostante, secondo Featherstone, Smith e Rogers, la prova andò "ancora peggio" della prima volta. I tre cambiarono atteggiamento. Rogers, che faceva il poliziotto cattivo, iniziò a insultare e minacciare Fritz, ripetendo in continuazione che "stava nascondendo qualcosa". Smith cercava di fare l'amicone, ma il giochetto era chiaro, oltre che scontato. Rogers era vestito da cowboy, con stivali e tutto il resto; passeggiava avanti e indietro imprecando e minacciando iniezione letale e braccio della morte, poi si voltava all'improvviso verso Fritz, gli dava un pugno nelle costole e gli urlava che era meglio che confessasse. Se volevano fargli paura, non ci riuscirono più di tanto: Fritz continuò a ripetere di lasciarlo in pace, che non aveva fatto niente. Alla fine Rogers lo accusò di aver stuprato e ammazzato Debbie Carter. Si arrabbiò e cominciò a usare toni sempre più offensivi. Disse che Fritz e il suo amico Williamson erano entrati in casa della Carter e l'avevano violentata e uccisa: gli conveniva ammetterlo. Non avendo prove, gli ispettori dovevano per forza ottenere una confessione ed erano determinati a estorcerne una a Fritz. Lui però non cedeva, anche perché non aveva niente da confessare. Dopo due ore di insulti e urla, tuttavia, pensò di raccontargli qualcosa pur di farli smettere. E così riferì un episodio che risaliva all'estate prima. Lui e Ron erano andati a

Norman per locali, in cerca di ragazze. Avevano rimorchiato una, che era salita in macchina con loro ma poi aveva dato in escandescenze perché Dennis non la lasciava scendere e alla fine era riuscita a fuggire e aveva chiamato la polizia. Lui e Ron avevano dormito in macchina, in un posteggio, per non farsi beccare. La ragazza comunque non aveva sporto denuncia. Quel racconto parve placare i tre poliziotti, almeno per qualche minuto. Era evidente che erano più che altro interessati a Ron. Adesso avevano le prove che lui e Fritz erano amici e spesso andavano per locali assieme. Che rilevanza avesse questo ai fini della risoluzione del caso Carter a Fritz era poco chiaro, ma non c'era niente di chiaro in quello che stavano dicendo quei tre. Fritz sapeva di essere innocente, però. Se Smith e Rogers volevano incastrare lui, il vero assassino l'avrebbe fatta franca. Dopo altre tre ore di martellamento, alla fine Featherstone, Smith e Rogers se ne andarono convinti che Fritz fosse coinvolto nell'omicidio di Debbie Carter. La sua confessione non sarebbe bastata, comunque: era indispensabile raccogliere altre prove. Così incominciarono a tenerlo d'occhio, a seguirlo per la città, a fermarlo senza motivo. Molte mattine, Fritz si svegliava e si ritrovava un'auto della polizia davanti a casa. Si lasciò prelevare saliva, peli e capelli. Perché no? Non aveva niente da temere. Prese in considerazione anche di cercarsi un avvocato, ma poi decise che non era il caso. Era innocente, la polizia prima o poi se ne sarebbe resa conto. L'ispettore Smith fece delle ricerche su Dennis Fritz e scoprì che nel 1973 aveva avuto dei problemi giudiziari nella città di Durant perché scoperto a coltivare marijuana. Armato di questa informazione, contattò la scuola di Noble in cui Fritz insegnava e informò il preside che il suo professore di scienze era indagato per omicidio e aveva precedenti penali, cosa che aveva omesso di segnalare nella domanda di assunzione. E così Fritz venne licenziato. Il 17 marzo, Susan Land dell'OSBI ricevette da Dennis Smith i capelli e i peli pubici di Fritz e Williamson. Il 21 marzo, Ron andò alla stazione di polizia e si sottopose volontariamente a un test con la macchina della verità, che gli venne somministrato da B.G. Jones, anche lui dell'OSBI. Jones dichiarò il risultato del test "non conclusivo". A Ron venne inoltre fatto un tampone buccale, che una settimana dopo fu inviato all'OSBI, insieme a quello di Fritz.

Il 28 marzo Jerry Peters dell'OSBI completò le analisi sulle impronte digitali e scrisse un rapporto nel quale dichiarava che l'impronta del palmo sul rivestimento della parete della camera della vittima non apparteneva né a Debbie Carter, né a Dennis Fritz, né a Ron Williamson. Il risultato era certo e per la polizia sarebbe dovuto essere incoraggiante: trovare l'autore di quell'impronta voleva dire avere l'assassino. La polizia invece informò con discrezione la famiglia Carter che Ron Williamson era il loro principale sospettato. Non avevano ancora le prove per inchiodarlo, ma avrebbero continuato a indagare e le avrebbero lentamente e metodicamente raccolte. Ron Williamson era un personaggio sospetto: si comportava in maniera strana, seguiva orari inconsueti, abitava con la madre, era disoccupato, aveva un passato di violenza nei confronti delle donne, frequentava locali e discoteche di dubbia reputazione e, soprattutto, viveva a un passo dalla vittima. Tagliando dal vicolo sul retro, da casa sua a quella di Debbie c'erano solo pochi minuti di strada. Inoltre, era già stato accusato due volte di stupro. Che poi fosse stato assolto era irrilevante. Poco dopo l'omicidio, la zia di Debbie, Glenna Lucas, aveva ricevuto una telefonata anonima in cui una voce maschile diceva: «Debbie è già morta, la prossima sei tu». La donna ricordava con orrore la scritta sul muro in casa della nipote: IL PROSIMO E JIM SMITH. Fu presa dal panico ma, invece di notificare la cosa alla polizia, si rivolse alla procura. Bill Peterson era procuratore da tre anni. Era giovane, corpulento e di buona famiglia. Il suo distretto comprendeva tre contee: Pontotoc, Seminoie e Hughes. Il suo ufficio era nel palazzo di giustizia di Ada. Conosceva i Carter ed era particolarmente ansioso di trovare il colpevole. Dennis Smith e Gary Rogers lo tenevano aggiornato sull'andamento delle indagini. Quando Glenna Lucas gli riferì la telefonata anonima, si dichiarò d'accordo con Peterson che poteva essere stato Ron Williamson a fargliela, e anche a uccidere Debbie. Dal vicolo dietro casa sua, infatti, Ron poteva vedere la casa di Debbie, e dal vialetto di casa di sua madre la casa di Glenna. Insomma, stava proprio lì nel mezzo, e poi era un uomo strano, non aveva un lavoro, stava sveglio di notte e dormiva di giorno, guardava i vicini. Peterson mise il telefono di Glenna Lucas sotto controllo, ma la donna non ricevette altre telefonate. Glenna aveva una figlia di otto anni, Christy, al corrente della tragedia

che aveva colpito la sua famiglia. Glenna la teneva costantemente sotto controllo, non la lasciava sola un attimo e non le permetteva neppure di usare il telefono. Prese provvedimenti perché venisse sorvegliata in modo particolare persino a scuola. In casa e in famiglia si mormorava a proposito di Ron Williamson. Perché aveva ucciso Debbie? Che cosa aspettava la polizia ad arrestarlo? Voci e pettegolezzi aumentarono. Il quartiere aveva paura. La città aveva paura. L'assassino era ancora a piede libero, benché tutti sapessero chi era. Perché la polizia non lo metteva sotto chiave, per il sollievo di tutta la città? Effettivamente Ron avrebbe dovuto essere rinchiuso davvero. Avrebbe avuto bisogno di un lungo soggiorno in un istituto specializzato che gli fornisse cure adeguate. Invece, da un anno e mezzo non vedeva neanche più la dottoressa Snow. Nel giugno del 1983, spinto dalla madre, andò a chiedere aiuto alla clinica psichiatrica di Ada. Disse che stava male, che era depresso. Venne indirizzato a una struttura di Cushing, dove fu visitato da Al Roberts, il quale dichiarò che aveva un quoziente intellettivo di 114, "nella fascia medio-alta", ma era possibile che l'abuso di alcol gli avesse provocato un danno cerebrale. Definì quella di Ron la "disperata richiesta di aiuto" di un uomo insicuro, teso, ansioso, nervoso e depresso. Estremamente anticonformista, è pieno di risentimento nei confronti dell'autorità, lunatico, imprevedibile nel comportamento. Ha problemi a controllare i propri impulsi. Sospettoso e diffidente, fatica a relazionarsi con gli altri e manifesta disagio quando è in compagnia. Tende a non assumersi la responsabilità delle proprie azioni e si difende dal dolore con rabbia e ostilità. Vede il mondo come un luogo minaccioso e terrificante, e per difesa assume atteggiamenti ostili o si chiude in se stesso. Profondamente immaturo, ostenta indifferenza. Ron fece domanda di iscrizione alla East Central University di Ada, sostenendo di volersi laureare in chimica o, in alternativa, in educazione fisica. Acconsentì a sottoporsi a una serie di test psicologici. A somministrarglieli fu Melvin Brooking. Brooking conosceva bene Ron e la sua famiglia. Forse anche troppo, visto che nel suo rapporto lo chiama "Ronnie" e riferisce una serie di aned-

doti. Riguardo alla sua carriera sportiva, scrisse: "Non so come fosse il suo profitto alle superiori, ma so che era un atleta straordinario. Purtroppo era ostacolato da problemi caratteriali e sia sul campo sia fuori tendeva a essere sgarbato, immaturo, fortemente autocentrato e arrogante. Il suo atteggiamento da primadonna, la sua incapacità di relazionarsi agli altri e di sottostare alle regole lo rendevano inadeguato al gioco di squadra". A proposito della famiglia, disse: "La madre di Ronnie ha lavorato tutta la vita. È da anni titolare di un salone di parrucchiera nel centro di Ada. Sia lei sia il marito sono stati vicini al figlio nei tanti momenti di crisi. La madre continua tuttora a occuparsi di lui, benché emotivamente, fisicamente e finanziariamente provata". Del matrimonio fallito, scrisse: "Ronnie ha sposato una ragazza molto bella, ex Miss Ada, che a un certo punto non è più riuscita a sopportare i suoi bruschi cambiamenti di umore e la sua incapacità di far fronte alle responsabilità e l'ha lasciato". Evidentemente Ron era stato sincero a proposito dell'abuso di alcol e sostanze, perché Brooking osservava: "Ha avuto gravi problemi con alcol e droghe in passato". E poi: "Tende ad assumere molti farmaci, principalmente per via della depressione, ma sostiene di non abusare più né di alcol né di sostanze". La diagnosi di Brooking fu disturbo bipolare, che descrisse così: Il disturbo bipolare fa sì che Ronnie passi da uno stato di euforia maniacale a uno stato di profonda depressione. Tipicamente, quest'ultimo è dominante. L'euforia è in genere di breve durata e indotta da sostanze. Da tre o quattro anni Ronnie soffre di depressione grave, vive in casa con la madre, dorme buona parte della giornata, lavora poco o niente e dipende interamente dagli altri per vivere. È andato via di casa tre o quattro volte e si è mosso in direzione di cure e trattamenti, ma non è mai riuscito a portarle a termine. Brooking diagnosticò inoltre un disturbo paranoide di personalità indicato da "un atteggiamento di sfiducia e diffidenza generalizzate, ipersensibilità e affettività limitata". Per buona misura, aggiunse anche tendenza alla dipendenza da alcol e sostanze. La prognosi era "riservata". Brooking concludeva dicendo: "Ronnie non ha realizzato quasi nulla da quando è andato via di casa dieci

anni fa. Ha collezionato soltanto una serie di problemi e crisi devastanti. Continua a cercare un po' di stabilità e concretezza, ma finora non è riuscito a trovarle". Il compito di Brooking era valutare Ron, non curarlo. Alla fine dell'estate del 1983 le condizioni mentali di Ron erano in netto peggioramento, ma lui non riusciva a farsi aiutare. Avrebbe avuto bisogno di un trattamento prolungato all'interno di una struttura specializzata, ma i suoi familiari non potevano permetterselo, lo Stato non poteva offrirgliela e lui, in ogni caso, non l'avrebbe voluta. La domanda di iscrizione alla East Central University comprendeva una richiesta di borsa di studio, che gli venne accordata. Ron ricevette un avviso che lo invitava a ritirare l'assegno in segreteria. Andò a prenderlo, scarmigliato come al solito, con i baffi e i capelli lunghi, insieme ad altri due loschi figuri evidentemente molto interessati al fatto che Ron stava per ritirare dei soldi. L'assegno era intestato a Ron, ma per essere incassato necessitava della firma di un funzionario. Per averla Ron avrebbe dovuto fare una lunga coda, ma aveva fretta. Quei soldi erano suoi, pensava. Non aveva voglia di aspettare. Anche i suoi amici non vedevano l'ora di mettere le mani sui contanti e così Ron falsificò la firma. E se ne andò con trecento dollari. Nancy Carson, la moglie di Nick Carson - amico d'infanzia di Ron poi entrato nella polizia -, lavorava alla segreteria dell'università e conosceva Ron da anni. Lo vide falsificare la firma sull'assegno, rimase sconcertata e chiamò il marito. Un funzionario del college conosceva i Williamson. Andò da Juanita, sul lavoro, e le riferì i fatti: se avesse rimborsato i trecento dollari, l'università non avrebbe sporto denuncia. La donna firmò subito un assegno e andò a cercare il figlio. Il giorno successivo Ron venne arrestato per traffico di documenti falsi, reato punibile con un massimo di otto anni di detenzione, e rinchiuso nel carcere della contea. Lui non era in grado di pagare la cauzione e i suoi familiari non erano in grado di aiutarlo. Le indagini sull'omicidio Carter andavano avanti lentamente. Dal laboratorio dell'OSBI non erano ancora arrivati i risultati delle analisi dattiloscopiche e dei campioni raccolti sulla scena del crimine e prelevati a trentuno indagati. Fra questi c'erano Ron Williamson e Dennis Fritz, ma non Glen Gore, cui non era ancora stato chiesto materiale biologico di nessun tipo.

Nel settembre del 1983 le formazioni pilifere relative al caso erano sull'ingombra scrivania di Melvin Hett, tricologo dell'OSBI. Il 9 novembre, Ron venne sottoposto a un'altra prova con la macchina della verità mentre era in carcere. Anche questa volta a somministrargliela fu l'agente dell'OSBI Rusty Featherstone. Durò due ore e a Ron vennero poste numerose domande anche prima di collegarlo alla macchina. Ron continuò a negare con la massima sicurezza qualsiasi coinvolgimento nell'omicidio, dicendo di non saperne nulla. Il colloquio venne filmato e il risultato dell'esame, ancora una volta, fu dichiarato "non conclusivo". Ron si abituò alla vita dietro le sbarre. Smise con l'alcol e le pillole perché non aveva altra scelta, ma mantenne l'abitudine di dormire venti ore al giorno. Senza terapie di sorta, le sue condizioni mentali continuavano a peggiorare. A novembre una detenuta nello stesso carcere, Vicki Michelle Owens Smith, raccontò all'ispettore Smith una strana storia a proposito di Ron. Dennis Smith scrisse il seguente verbale: Alle tre o alle quattro di sabato mattina, Ron Williamson, guardando dalla finestra, vedeva Vicki. Le gridava che era una strega, che era stata lei a portarlo a casa di Debbie Carter e che adesso gli aveva portato lo spirito di Debbie Carter nella cella per tormentarlo e non lasciargli pace. Williamson gridava anche alla madre di perdonarlo. In dicembre, un anno dopo l'omicidio, Glen Gore fu invitato a presentarsi alla stazione di polizia. Negò qualsiasi coinvolgimento nella morte di Debbie Carter. Disse di aver visto la vittima la sera del 7 dicembre al Coachlight, poche ore prima dell'omicidio, e aggiunse un piccolo particolare rispetto a quanto dichiarato in precedenza. Dichiarò infatti di aver invitato a ballare la ragazza per liberarla da Ron Williamson, che le stava dando fastidio. Il fatto che nessun altro al Coachlight avesse visto Ron evidentemente veniva ritenuto un dettaglio insignificante. Benché la polizia fosse ansiosa di raccogliere indizi contro Williamson e Fritz, le prove continuavano a essere troppo inconsistenti. Fra le impronte rilevate nell'appartamento di Debbie Carter, non ce n'era una che corrispondesse a quelle dei due indagati e questo minava alla base la teoria che gli assassini avessero lottato a lungo con la vittima prima di ucciderla. Non c'erano testimoni oculari, nessuno aveva sentito niente. Le analisi sulle formazioni pilifere, benché tutt'altro che risolutive, non erano ancora state

completate. Le prove contro Ron consistevano in due test con la macchina della verità dal risultato "non conclusivo", una brutta fama, il fatto di abitare vicino alla vittima e la testimonianza, tardiva e priva di qualsiasi conferma, di Glen Gore. Quelle contro Dennis Fritz erano ancora più inconsistenti. In un anno, l'unico risultato tangibile delle indagini sull'omicidio Carter era stato il licenziamento di un professore di scienze. Nel gennaio del 1984 Ron si dichiarò colpevole del reato di falsificazione di assegni e fu condannato a tre anni di detenzione. Venne mandato in un carcere nei pressi di Tulsa, dove ben presto si fece notare per i suoi comportamenti strani. Fu perciò trasferito in osservazione in un centro di igiene mentale. La mattina del 13 febbraio il dottor Robert Briody lo visitò e annotò: "Generalmente controllato, sembra padrone delle proprie azioni". Durante il colloquio del pomeriggio, tuttavia, Briody vide un Ron diverso: "Iperattivo, parla a voce alta, è irritabile, si accalora facilmente, fa associazioni illogiche, salta di palo in frasca, esprime pensieri irrazionali. Ha ideazione paranoica". Briody raccomandò ulteriori esami. Nel centro di igiene mentale le misure di sicurezza non erano rigide. C'era un campo da baseball nelle vicinanze; Ron lo scoprì e a volte la notte ci andava di nascosto, per godersi un po' di solitudine. Una volta un poliziotto lo trovò che sonnecchiava sull'erba e lo riportò al centro, dove venne rimproverato e obbligato a scrivere le motivazioni del suo gesto. L'altra sera ero giù e avevo bisogno di pensare. I campi sportivi mi hanno sempre fatto sentire in pace. Sono andato a piedi a quello sull'angolo e mi sono accucciato sotto un albero. Dopo un po' una guardia mi ha detto di tornare al centro. A metà strada ho incontrato Brents e sono entrato con lui. Dice che visto che non ho fatto niente, per questa volta chiude un occhio. Però devo scrivere un rapporto, cosa che sto facendo. Con il principale indagato in carcere, le indagini sull'omicidio di Debbie Carter subirono una battuta d'arresto. Passavano le settimane e non c'erano sviluppi. Dennis Fritz andò a lavorare in una casa di cura per anziani, poi in una fabbrica. La polizia di Ada ogni tanto gli dava ancora fastidio, ma sempre meno. Glen Gore era ancora in città, ma la polizia non badava a

lui. La frustrazione era grande, la tensione alle stelle. Ma il peggio doveva ancora venire. Nell'aprile del 1984 a Ada venne uccisa un'altra giovane donna. La sua morte non aveva nessun legame con quella di Debbie Carter, ma finì per influenzare pesantemente il destino di Ron Williamson e Dennis Fritz. Denice Haraway era una studentessa ventiquattrenne della East Central University che lavorava part-time in un McAnally's alla periferia orientale di Ada. Otto mesi prima si era sposata con Steve Haraway, anch'egli studente universitario e figlio di un importante dentista della città. I due sposini vivevano in un appartamento di proprietà del dottor Haraway e lavoravano per mantenersi agli studi. La sera di sabato 28 aprile, intorno alle otto e mezzo, un uomo che stava andando al McAnally's vide uscire dal negozio una ragazza giovane e carina insieme a un ragazzo più o meno della sua età, che le teneva un braccio intorno alla vita come se fosse la sua fidanzata. Si avvicinarono a un pickup, un vecchio Chevrolet con la carrozzeria piena di macchie grigie. La donna salì a bordo per prima, dalla parte del passeggero. Poi salì anche lui, sbatté la portiera e partì in direzione est, verso la campagna. Quando entrò nel negozio, l'uomo vide che non c'era nessuno. La cassa era aperta, vuota. In un posacenere c'era una sigaretta ancora accesa e, accanto, una lattina di birra aperta. Dietro il bancone c'erano una borsa e un libro di testo. L'uomo chiamò per vedere se c'era qualcuno nel retro e, non ottenendo risposta, telefonò alla polizia. Nella borsa marrone l'agente intervenuto trovò una patente di guida intestata a Denice Haraway. Il cliente guardò la foto e confermò che si trattava della ragazza che aveva visto uscire dal negozio meno di mezz'ora prima. Era sicurissimo che fosse lei, perché andava spesso in quel negozio e l'aveva già vista. L'ispettore Dennis Smith era già a letto, quando gli telefonarono per avvertirlo. «Fate conto che quel negozio sia la scena di un crimine» disse agli agenti, e se ne tornò a dormire. I suoi ordini, però, non vennero eseguiti. Il gestore del negozio, che abitava lì vicino, arrivò e controllò la cassaforte, che non era stata aperta. Trovò quattrocento dollari in contanti sotto il bancone, che dovevano essere trasferiti nella cassaforte, e altri centocinquanta in un secondo scomparto della cassa. In attesa che arrivasse l'ispettore, mise a posto il negozio: svuotò il posacenere con il mozzicone e gettò via

la lattina di birra. Gli agenti intervenuti non gli dissero niente. Se mai c'era stata la possibilità di rilevare impronte o altri indizi, ormai era svanita. Steve Haraway studiava, in attesa che sua moglie tornasse a casa dopo la chiusura del McAnally's alle undici. La telefonata della polizia lo mise in allarme e corse subito al negozio, dove identificò l'auto, i libri e la borsetta della moglie. La descrisse alla polizia e cercò di farsi venire in mente come fosse vestita: blue-jeans, scarpe da tennis e una camicia, non ricordava quale. La domenica mattina vennero chiamati al lavoro tutti i trentatré poliziotti del dipartimento di Ada. Dai distretti vicini giunsero anche uomini della polizia di Stato. Decine di gruppi e associazioni, compresa la confraternita di cui faceva parte Steve, offrirono volontari per contribuire alle ricerche. Gary Rogers dell'OSBI venne messo a capo delle indagini a livello statale, mentre il responsabile all'interno del dipartimento di polizia di Ada era Dennis Smith. Insieme, divisero la contea in sezioni e assegnarono le varie squadre perché controllassero ogni strada, autostrada, fiume, pozzo e campo. Una dipendente del JP'S, un altro negozio aperto ventiquattr'ore su ventiquattro a circa un chilometro dal McAnally's, si presentò alla polizia e riferì che non molto tempo prima della scomparsa di Denice si erano fermati da lei due ragazzi che l'avevano spaventata. Entrambi fra i venti e i venticinque anni, avevano i capelli lunghi e si comportavano in modo strano. Avevano fatto una partita a biliardo e poi se n'erano andati a bordo di un vecchio pick-up. Il cliente del McAnally's aveva visto la ragazza allontanarsi in compagnia di un solo uomo e non gli era sembrata spaventata. La descrizione generica che aveva fornito corrispondeva a quella dei due ragazzi che si erano comportati in maniera strana al JP'S. Gli ispettori adesso avevano una piccola traccia da seguire: cercavano due uomini bianchi fra i venti e i venticinque anni, uno di statura compresa fra il metro e settantacinque e il metro e ottanta, capelli lunghi sotto le orecchie e carnagione chiara, l'altro con i capelli castani chiari fino alle spalle, di corporatura minuta. La domenica le ricerche della ragazza, per quanto accurate, non diedero alcun frutto. Dennis Smith e Gary Rogers le interruppero appena fu buio con l'intenzione di riprenderle il mattino dopo. Il lunedì stamparono una serie di volantini con una foto recente di Denice Haraway e una sua breve descrizione: statura un metro e settanta, cinquanta chili, occhi castani, capelli biondo scuro, carnagione chiara. Sui

volantini erano descritti anche i due uomini del JP'S e il vecchio pick-up. Vennero affissi in tutti i negozi di Ada e dintorni da poliziotti e volontari. Furono elaborati anche due identikit, con l'aiuto della commessa del JP'S. Quando vennero mostrati al cliente del McAnally's, questi rispose che uno era "abbastanza somigliante" all'uomo che aveva visto con Denice. I due identikit vennero diffusi dalle varie stazioni televisive locali. Non appena gli abitanti di Ada li videro, cominciarono a tempestare di telefonate la polizia. All'epoca gli ispettori erano quattro: Dennis Smith, Mike Baskin, D.W. Barrett e James Fox. Ben presto le segnalazioni da controllare furono troppe: oltre cento, facevano i nomi di ventiquattro uomini. Due sembrarono subito particolarmente interessanti. Billy Charley, nominato in una trentina di telefonate, venne invitato a presentarsi alla polizia. Vi arrivò accompagnato dai genitori, i quali confermarono che la sera del sabato era rimasto a casa. L'altro nominativo fatto da trenta cittadini preoccupati era quello di Tommy Ward, già noto alla polizia. Tommy era stato infatti arrestato più volte per ubriachezza molesta e furto, ma mai per reati di violenza. I suoi stavano a Ada e avevano fama di essere grandi lavoratori. Tommy aveva ventiquattro anni ed era il penultimo di otto figli. Non aveva finito le superiori. Si presentò alla polizia volontariamente. Gli ispettori Smith e Baskin gli chiesero dove avesse passato il sabato sera. A pescare con un amico, rispose lui, Karl Fontenot. Dopo erano stati a una festa e verso le quattro del mattino erano tornati a casa a piedi. Tommy non possedeva mezzi di trasporto. Gli ispettori notarono che aveva i capelli biondi tagliati molto corti e male, chiaramente non da un professionista. Gli scattarono una foto da dietro e la datarono 1° maggio. Gli uomini degli identikit avevano capelli lunghi e chiari. L'ispettore Baskin rintracciò Karl Fontenot e lo invitò a presentarsi alla stazione di polizia. Fontenot disse di sì, ma poi non andò. Baskin non lo convocò una seconda volta. Fontenot aveva capelli lunghi e scuri. Mentre le ricerche continuavano con grande impegno nella contea di Pontotoc, il nome e la descrizione di Denice Haraway vennero diffusi alle centrali di polizia di tutti gli Stati Uniti. Arrivarono molte chiamate, nessuna utile. Denice sembrava essere scomparsa nel nulla senza lasciare la minima traccia. Quando non distribuiva volantini o perlustrava le strade della zona, Ste-

ve Haraway stava in casa, in compagnia di qualche amico fidato. Il telefono squillava continuamente e ogni volta lui sperava che fosse la fine di quell'incubo. Era certo che Denice non era scappata volontariamente. Erano sposati da meno di un anno e ancora molto innamorati. Stavano finendo tutti e due l'università, e non vedevano l'ora di laurearsi e cominciare una nuova vita lontano da lì. Steve era sicuro al cento per cento che fosse stata rapita. Ogni giorno che passava, le probabilità di ritrovarla viva diminuivano. Se a portarla via dal negozio fosse stato un maniaco, una volta consumata la violenza l'avrebbe lasciata libera. Se fosse stato un sequestro, a quell'ora sarebbe già arrivata una richiesta di riscatto. Si parlava di un ex fidanzato che stava nel Texas, si diceva che ci fossero di mezzo dei trafficanti di droga, ma niente di fondato. Ada era di nuovo sotto shock. A diciassette mesi dall'omicidio di Debbie Carter, quando la città stava appena iniziando a riprendersi, la scomparsa di Denice Haraway scatenò di nuovo il panico. Tutti ricominciarono a sprangare porte e finestre e a impedire ai figli di uscire la sera. Le vendite di armi da fuoco lievitarono. Che cosa stava succedendo alla bella cittadina universitaria piena di chiese? Passarono settimane e la vita tornò alla normalità per la maggior parte delle persone. Arrivò l'estate, le scuole chiusero. Le voci si placarono, ma non del tutto. Un uomo in Texas si vantò di aver ucciso dieci donne e la polizia di Ada corse a interrogarlo. Venne ritrovato un corpo di donna nel Missouri. Ma le gambe erano tatuate e Denice Haraway non aveva tatuaggi. Passò l'estate, giunse l'autunno e la polizia continuava a brancolare nel buio. Denice Haraway non era stata ritrovata, né viva né morta. E non c'erano stati progressi neppure nelle indagini sull'omicidio Carter. Due crimini sconvolgenti, entrambi impuniti: l'atmosfera era pesante, tesa. La polizia lavorava senza tregua, ma anche senza risultati. Venivano riprese e approfondite vecchie piste, tutte vane. Dennis Smith e Gary Rogers erano stressatissimi. Per Rogers le pressioni erano ancora maggiori che per Smith. L'anno prima, a Seminoie, una cinquantina di chilometri a nord di Ada, era scomparsa nel nulla un'altra ragazza, Patty Hamilton. Aveva diciott'anni, anche lei lavorava in un negozio aperto ventiquattr'ore su ventiquattro. E anche in quell'occasione a dare l'allarme era stato un cliente che era entrato nel negozio e non aveva trovato nessuno. La cassa era stata svuotata, sul bancone

erano state trovate due lattine aperte. Nessun segno di colluttazione. L'automobile della ragazza era parcheggiata poco lontano, chiusa. Di lei, nessuna traccia. La polizia era convinta che fosse stata rapita e uccisa. A occuparsi delle indagini era stato Gary Rogers. Con quello di Denice Haraway e Debbie Carter, quello di Patty Hamilton era il terzo mistero che non era riuscito a risolvere. Quando l'Oklahoma era ancora territorio indiano, Ada era stata patria di molti fuorilegge e malviventi. All'epoca i conflitti si risolvevano a colpi di pistola e chi vinceva il duello poteva andarsene indisturbato, senza alcun timore che le autorità intervenissero. Rapinatori di banche e ladri di bestiame si rifugiavano a Ada perché era ancora territorio indiano e non faceva parte degli Stati Uniti. Gli sceriffi, quando c'erano, non avevano chance contro i criminali che risiedevano da quelle parti. Le cose cambiarono nel 1909, quando la gente di Ada si stufò di vivere senza legge e nella paura. Uno stimato allevatore che si chiamava Gus Bobbitt venne ucciso da un killer assoldato da un proprietario terriero rivale. L'assassino e i tre mandanti vennero presi e la febbre della vendetta si diffuse per la regione come un'epidemia. Guidato dai personaggi più importanti della città, massoni, la mattina del 19 aprile 1909 si formò un gruppo di quaranta cittadini animati da sacra indignazione. Costoro marciarono solennemente dalla Loggia in Twelfth Street, nel centro di Ada, fino alla prigione, dove misero fuori combattimento lo sceriffo, presero i quattro malviventi, li trascinarono in una scuderia di là dalla strada e, legati mani e piedi con filo di ferro, li impiccarono. La mattina dopo un fotografo posizionò la sua macchina nella scuderia e scattò alcune foto. Una di esse è sopravvissuta fino a oggi: sfuocata, in bianco e nero, ritrae tutti e quattro gli uomini con il cappio al collo, immobili, morti. Alcuni anni dopo l'esecuzione, la foto venne riprodotta su una cartolina e distribuita dalla locale Camera di commercio. Evidentemente, Ada andava fiera di quel linciaggio. 5 Nel caso Carter, Dennis Smith e Gary Rogers avevano il referto dell'autopsia, capelli, peli, un certo numero di prove "sospette" con la macchina della verità e soprattutto la convinzione di essere ormai arrivati al colpevole. Ron Williamson stava scontando una breve condanna, ma presto sareb-

be tornato. Prima o poi, sarebbero riusciti a incastrarlo. Nel caso Haraway, invece, non avevano nulla: niente corpo, niente testimoni, neppure la più debole pista. Gli identikit avrebbero potuto essere quelli di metà dei ragazzi di Ada. Era indispensabile una svolta nelle indagini. Arrivò, inaspettata, all'inizio dell'ottobre 1984, quando Jeff Miller andò dalla polizia di Ada e chiese dell'ispettore Smith, dicendo di avere informazioni sul caso Haraway. Miller era un ragazzo del posto, senza precedenti penali, ma la polizia lo conosceva come uno dei tanti irrequieti di Ada che campavano lavoricchiando, di solito in fabbrica, e tiravano tardi la sera. Miller si sedette davanti a Smith e cominciò a parlare. La sera in cui era scomparsa Denice Haraway c'era stata una festa al Blue River, una quarantina di chilometri a sud di Ada. Lui non ci era andato, ma conosceva due ragazze che invece vi avevano partecipato. Costoro, di cui Miller fece i nomi, in seguito gli avevano detto che alla festa c'era anche Tommy Ward, il quale, quando la roba da bere era finita, si era offerto di andare a prendere delle birre. Non avendo la macchina, si era fatto prestare il pick-up da Janette Roberts. Si era assentato alcune ore ed era tornato stravolto, in lacrime e senza le birre. Gli avevano chiesto come mai piangeva e lui aveva riferito di aver fatto una cosa terribile. «Che cosa?» gli avevano chiesto. Era tornato a Ada - non si sapeva bene per quale motivo, visto che c'erano molti posti in cui era possibile comprare da bere senza andare fin laggiù - e si era ritrovato al McAnally's, nella zona orientale della città. Aveva portato fuori del negozio la commessa, l'aveva violentata e uccisa, e quindi si era sbarazzato del cadavere. Al pensiero di quel che aveva fatto, si sentiva malissimo. Il perché avesse deciso di confessare una cosa simile a un gruppo di semisconosciuti che avevano bevuto e fumato hashish tutta la sera non venne approfondito. E neppure il motivo per cui le due donne fossero andate a raccontarlo a Jeff Miller invece che alla polizia, e come mai avessero aspettato cinque mesi prima di aprire bocca. Era una storia assurda, ma Dennis Smith la prese molto sul serio. Cercò di rintracciare le due ragazze, che però nel frattempo si erano trasferite. (Quando riuscì a trovarle, un mese dopo, negarono di essere state a quella festa, di aver visto Tommy Ward lì o ad altri party e di averlo mai sentito raccontare di aver rapito e ucciso una commessa. Insomma, negarono tutto

ciò che aveva detto Jeff Miller.) Dennis Smith rintracciò anche Janette Roberts, che si era trasferita a Norman, a centoventi chilometri da Ada, con il marito Mike. Il 12 ottobre andò da lei senza preavviso accompagnato dall'ispettore Mike Baskin e le chiese di seguirlo alla stazione di polizia. La Roberts acconsentì riluttante. Nel corso dell'interrogatorio, ammise di aver partecipato a diverse feste al Blue River con suo marito Mike, Tommy Ward e Karl Fontenot, ma era quasi sicura che il sabato della scomparsa della Haraway non ci fosse stata nessuna festa. Prestava spesso il proprio pick-up a Tommy Ward, disse, ma non era mai successo che lui gliel'avesse preso nel corso di una festa al fiume (o altrove). Non aveva mai visto Tommy sconvolto e in lacrime, non gli aveva mai sentito confessare stupri né tanto meno omicidi. Insomma, era sicura che non fosse mai successo nulla di quel che Miller aveva raccontato. Smith e Baskin rimasero piacevolmente sorpresi nello scoprire che Tommy Ward abitava con i Roberts e lavorava con Mike. Erano tutti e due alle dipendenze di un'impresa edile e spesso cominciavano all'alba e finivano al tramonto. Smith e Baskin decisero di fermarsi a Norman per aspettare che Ward tornasse a casa dal lavoro e fargli qualche domanda. Uno dei motivi per cui Tommy non voleva parlare con la polizia era che prima di tornare a casa si era fermato a bere qualcosa con Mike. Inoltre, gli sbirri gli stavano antipatici. Insomma, non aveva nessuna voglia di seguirli in centrale. Era già stato sentito dalla polizia di Ada qualche mese prima, pensava che fosse finita lì. Era andato via da Ada anche perché troppa gente lo aveva trovato somigliante a uno degli identikit ed era stufo di voci e illazioni. Lui non vedeva nessuna somiglianza fra sé e quello schizzo, opera di un disegnatore che non aveva mai visto l'uomo che aveva ritratto. La polizia l'aveva diffuso in tutti i modi e gli abitanti di Ada erano ansiosi di dare il loro contributo all'arresto del colpevole. Ada era una piccola città, la scomparsa di Denice Haraway aveva destato molto scalpore. Tutti si sforzavano di capire chi potesse nascondersi dietro quegli identikit. Tommy aveva già avuto a che fare con la polizia diverse volte, anche se mai per nulla di serio, sapeva a cosa si andava incontro e preferiva evitare. Secondo Janette, tuttavia, se non aveva niente da nascondere, Tommy doveva andare a parlare con Smith e Baskin: non ci sarebbero stati problemi. Tommy aveva la coscienza pulita, ma non si fidava comunque. Dopo un'ora di esitazioni, chiese a Mike un passaggio fino alla centrale di Norman.

Smith e Baskin lo condussero in una saletta e gli spiegarono che volevano filmare l'interrogatorio. Tommy, teso, acconsentì alle riprese. Gli ispettori accesero la telecamera e gli lessero i suoi diritti. Cominciarono abbastanza educatamente, come se fosse un normale colloquio di routine. Chiesero a Tommy se ricordava l'interrogatorio di cinque mesi prima. Certo che sì. Aveva detto la verità, in quell'occasione? Sì. La stava dicendo anche adesso? Sì. Dopo qualche minuto, nel pallone per i continui salti avanti e indietro nel tempo dei due ispettori, Tommy confuse i giorni della settimana. Cinque mesi prima aveva detto che il giorno della scomparsa di Denice Haraway aveva fatto dei lavori di idraulica in casa di sua madre, poi era andato a una festa a casa dei Roberts, a Ada, ed era tornato a casa, a piedi, alle quattro del mattino. Ora disse che quelle cose le aveva fatte il giorno prima. «Ho confuso il giorno» si difese, ma i due ispettori rimasero poco convinti. E iniziarono. «Quando ti sei accorto di non averci detto la verità?» «Sicuro che adesso stai dicendo la verità?» «Ti stai cacciando nei guai da solo.» I toni diventarono più aspri e accusatori. Smith e Baskin mentirono, dicendo a Tommy Ward di avere parecchie persone in grado di testimoniare che era al Blue River, quel sabato di aprile, e che a un certo punto si era fatto prestare un pick-up ed era andato via. «Non era quel giorno lì» insisteva Tommy. Il venerdì era andato a pescare, il sabato alla festa a casa dei Roberts e al party sul fiume era andato la domenica. Si chiedeva come mai la polizia mentisse: lui sapeva di dire la verità. Ma le vessazioni continuavano: «È vero che volevi fare una rapina al McAnally's? Guarda che abbiamo testimoni in grado di confermarlo». Tommy tenne duro e continuò a negare, ma era molto preoccupato. Se la polizia adottava certi sistemi, fin dove si sarebbe spinta? A un certo punto Smith tirò fuori una grossa fotografia di Denice Haraway e gliela sbatté sotto il naso. «Conosci questa ragazza?» «No, non la conosco. L'ho vista e basta.» «L'hai ammazzata tu?» «No. Non toglierei mai la vita a un essere umano.» «Chi l'ha uccisa, allora?» «Non lo so.» Smith continuava a tenergli la foto sotto il naso e a chiedergli se non

trovava anche lui che fosse una bella ragazza. «La sua famiglia vorrebbe farle il funerale. Vorrebbero ritrovare il corpo, dargli giusta sepoltura.» «Non so dove sia» rispose Tommy guardando la foto e chiedendosi perché lo stessero accusando. «Perché non mi dici dov'è, così restituiamo il corpo alla famiglia?» «Perché non lo so.» «Usa l'immaginazione» disse Smith. «Supponiamo che due uomini l'abbiano rapita, l'abbiano fatta salire su un pick-up e l'abbiano portata via. Che cosa potrebbero averne fatto, del cadavere?» «Non ne ho la minima idea.» «Usa l'immaginazione, ti ho detto. Dove potrebbero averla portata?» «Per quel che ne so io, potrebbe essere ancora viva. Nessuno ne sa più niente.» Smith continuava a tenergli la foto sulla faccia e a fare domande. Le risposte di Tommy venivano liquidate subito come non veritiere. Sembrava che i due ispettori non lo ascoltassero nemmeno. Gli chiesero diverse volte se a suo parere era una bella ragazza. «Cosa dici, avrà gridato, mentre la violentavano?» «Ti sembra giusto che i suoi non possano nemmeno farle il funerale?» «Tommy, hai pregato per lei?» domandò Smith a un certo punto. Alla fine, posò la foto e chiese a Tommy se si riteneva sano di mente, se aveva visto gli identikit e che titolo di studio aveva. Poi riprese in mano la foto, la avvicinò a pochi centimetri dalla faccia di Tommy e ricominciò con le domande riguardo a come fosse morta la ragazza e dove potesse essere il suo corpo. «Di' un po', ti piace? La trovi bella?» Mike Baskin la buttò sul patetico: «Il dolore dei suoi cari si placherebbe almeno un pochino, se potessero dare sepoltura alla figlia». Tommy era d'accordo. Purtroppo, però, non aveva la minima idea di dove potesse essere finita Denice Haraway. Alla fine spensero la telecamera: l'interrogatorio era durato tre quarti d'ora. Tommy Ward era rimasto fedele alla sua deposizione originaria, senza tentennamenti: non sapeva nulla riguardo alla scomparsa di Denice Haraway. Era turbato, ma acconsentì a sottoporsi a una prova con la macchina della verità qualche giorno dopo. I Roberts abitavano a pochi isolati dalla stazione di polizia di Norman. Tommy decise di tornare a piedi e prendere una boccata d'aria fresca. Essere stato trattato a quel modo lo faceva arrabbiare. Gli avevano dato dell'assassino! Avevano cercato di farlo cadere in contraddizione, avevano

mentito! Smith e Baskin tornarono a Ada convinti di aver trovato il colpevole. Tommy Ward assomigliava all'identikit di uno dei due uomini che si erano comportati in maniera strana al JP'S quel sabato sera, aveva dato due versioni diverse del modo in cui aveva passato la sera in cui la Haraway era scomparsa ed era apparso molto sulle spine durante l'interrogatorio. Lì per lì Tommy fu sollevato al pensiero di sottoporsi a un test con la macchina della verità: almeno la polizia avrebbe visto che lui non c'entrava niente e avrebbe smesso di rompergli le scatole. Poi cominciò a sognarsi di notte l'omicidio, le accuse, i commenti sulla sua presunta somiglianza con uno degli identikit, il bel viso di Denice Haraway e il dolore dei suoi familiari. Perché ce l'avevano con lui? Quelli della polizia erano convinti che fosse stato lui ad ammazzarla, volevano farlo cadere in trappola. Perché avrebbe dovuto fidarsi di loro e sottoporsi al test? Non sarebbe stato più opportuno rivolgersi a un avvocato? Chiamò sua madre e le disse che non si fidava della polizia e della macchina della verità. «Ho paura che mi facciano dire qualcosa che non devo dire» le confidò. «Tu di' la verità» gli consigliò la madre. «E vedrai che andrà tutto bene.» La mattina di giovedì 18 ottobre, Mike Roberts accompagnò Tommy alla sede dell'OSBI a Oklahoma City, a venti minuti di macchina. La prova sarebbe dovuta durare un'ora: Mike avrebbe aspettato fuori e poi i due amici sarebbero andati al lavoro assieme. Avevano chiesto un paio di ore di permesso. Mentre guardava Tommy entrare nel palazzo, Mike Roberts non poteva immaginare che l'amico avrebbe passato il resto della sua vita in carcere. Dennis Smith accolse Tommy con un gran sorriso e una calorosa stretta di mano, poi lo fece accomodare in una saletta dove lo lasciò ad aspettare mezz'ora da solo. È un famoso trucco della polizia per innervosire l'indagato. Alle dieci e mezzo, Tommy venne condotto in un'altra sala, dove trovò l'agente Rusty Featherstone e il suo fido poligrafo. Featherstone gli spiegò come funzionava la macchina, o come avrebbe dovuto funzionare, e quindi collegò gli elettrodi. Tommy era già sudato prima ancora di cominciare. All'inizio le domande furono facili: famiglia, studi, lavoro. Tutti conoscevano le risposte e la macchina funzionava a dovere. Tommy cominciò a rilassarsi.

Alle undici e cinque, Featherstone gli lesse i suoi diritti e affrontò l'argomento Haraway. Per due ore e mezzo, Tommy restò fedele alla propria versione: non sapeva nulla. Il test andò avanti senza interruzioni fino alle tredici e trenta, quando Featherstone staccò la macchina e se ne andò. Tommy tirò un sospiro di sollievo, pensando che il tormento fosse finito. Era andato tutto bene: ormai la polizia non avrebbe più avuto motivo di dargli fastidio. Featherstone tornò dopo cinque minuti, esaminò i grafici e rifletté sui risultati. Poi chiese a Tommy come pensava che fosse andata. Tommy si disse convinto di aver superato la prova: se ormai era tutto chiarito, poteva tornare a lavorare? «Non se ne parla» replicò Featherstone. «La prova non è andata per niente bene.» Tommy era incredulo, ma Featherstone disse che si vedeva chiaramente che aveva mentito e che era coinvolto nel sequestro della Haraway. Gli conveniva parlare. «Parlare di che?» «Il poligrafo non mente» sottolineò Featherstone, indicando i grafici. «Tu sai qualcosa» disse ripetutamente. E spiegò che, se Tommy avesse detto tutto, se avesse finalmente confessato come erano andate le cose, lui avrebbe potuto dargli una mano. Faceva il poliziotto buono, comprensivo. Se invece Tommy si fosse rifiutato di collaborare, allora sarebbe stato costretto a consegnarlo a Smith e Rogers, i due poliziotti cattivi e con il pugno facile. «Confessa» lo incoraggiò. «Non ho niente da confessare» ribadì Tommy. E insistette che il poligrafo doveva avere qualcosa che non andava, perché lui aveva detto la verità. Featherstone non gli credette. Tommy ammise di essere stato molto nervoso durante la prova, in ansia perché era in ritardo per il lavoro. Ammise inoltre che il colloquio con Smith e Rogers di sei giorni prima l'aveva lasciato scombussolato, al punto che aveva persino fatto un sogno. «Un sogno?» gli chiese Featherstone. Tommy glielo raccontò: era a una festa, seduto su un pick-up insieme con due uomini e una donna, vicino alla centrale elettrica appena fuori Ada. Uno dei due uomini cercava di baciare la ragazza, ma lei non ci stava. Allora Tommy gli diceva di lasciarla in pace. Voleva andarsene a casa. Quando lo diceva, uno dei due uomini gli rispondeva che era già a casa.

Tommy allora guardava dal finestrino e scopriva che era vero, era a casa. Si lavava le mani, che erano sporche di nero, ma le macchie non se ne volevano andare. Non sapeva chi fossero la ragazza e i due uomini. «Questo sogno non ha senso» fu la replica di Featherstone. «I sogni non devono mica avere un senso» rispose Tommy. Featherstone non perse la pazienza, ma continuò a insistere perché Tommy dicesse tutto quello che sapeva e, soprattutto, dove era nascosto il cadavere. Lo minacciò di chiamare i due poliziotti che aspettavano "di là", lasciando intendere che loro sarebbero passati alle maniere forti. Tommy era stupefatto, confuso e molto impaurito. Siccome continuava a rifiutarsi di confessare, Featherstone lo consegnò a Smith e Rogers, che erano già molto arrabbiati e sembravano pronti a prenderlo a botte. Appena Featherstone ebbe chiuso la porta, Smith aggredì Tommy gridando: «Tu, Karl Fontenot e Odell tit*worth avete preso quella ragazza, l'avete portata alla centrale elettrica, l'avete violentata e l'avete uccisa, non è vero?». «No» disse Tommy, cercando di rimanere lucido e di non farsi prendere dal panico. «Dicci tutto, lurido bugiardo!» ringhiò Smith. «Non hai superato la prova con la macchina della verità, sappiamo che stai mentendo. Sappiamo che sei stato tu ad ammazzare quella poveretta!» Tommy stava cercando di fare mente locale su Odell tit*worth. Lo conosceva di nome, ma non di persona. Era di Ada o dintorni, a quanto sapeva, e aveva una cattiva fama. Tommy non ricordava di averlo mai incontrato. Forse l'aveva visto una o due volte, ma non si ricordava che faccia avesse. Intanto Smith continuava a urlargli di tutto e pareva sul punto di spaccargli la faccia. L'ispettore ripeté la sua teoria riguardo al rapimento di Denice e Tommy continuò a negare. Lui non c'entrava, ribadì. «Non so nemmeno chi sia Odell tit*worth.» «Sì, che lo sai» lo corresse Smith. «Piantala di raccontar balle.» Il coinvolgimento di Karl Fontenot, in teoria, era più comprensibile, perché lui e Tommy erano amici da un paio d'anni. Ma Tommy era sgomento di fronte a quelle accuse e terrorizzato dall'irremovibilità di Smith e Rogers, che continuavano a minacciarlo e a insultarlo, ormai senza più alcun ritegno. Tommy sudava freddo, era nel pallone e cercava di mantenersi più razionale possibile. Dava risposte brevi. «No, non sono stato io.» «No, io non c'entro niente.» In un paio di occasioni gli venne voglia di fare un

commento sarcastico, ma si trattenne. Smith e Rogers parevano furibondi ed erano armati. L'interrogatorio sembrava non dover finire più. Dopo tre ore con Featherstone e una con Smith e Rogers, Tommy aveva bisogno di una pausa. Doveva andare in bagno, aveva voglia di fumare una sigaretta, sentiva il bisogno di schiarirsi un attimo le idee. Ma soprattutto aveva bisogno di aiuto, di parlare con qualcuno che gli spiegasse che cosa stava succedendo. «Possiamo fare un momento di pausa?» chiese. «Fra un secondo» gli risposero. Tommy notò una telecamera sul tavolo vicino, spenta per non riprendere la violenza di quell'interrogatorio. "Non può essere la procedura normale" pensò. Smith e Rogers gli ricordarono più volte che in Oklahoma c'era la pena di morte, che agli assassini si faceva l'iniezione letale. Tommy rischiava di fare quella fine, lo sapeva? Sarebbe finito nel braccio della morte. «Certo, qualcosa si potrebbe fare, se tu... Devi parlare, dirci tutto, portarci dove hai nascosto il cadavere. Solo così noi potremo darti una mano, patteggiare.» «Non ho fatto niente!» disse Tommy. «Ha fatto un sogno» rivelò Featherstone ai suoi colleghi. Tommy lo ripeté e anche la reazione di Smith e Rogers fu di spregio. Erano d'accordo tutti e tre sul fatto che quel sogno non aveva senso. Tommy ripeté che i sogni spesso non hanno senso. Ma quel sogno era pur sempre un punto di partenza e i tre poliziotti non se lo lasciarono sfuggire: i due uomini del sogno erano Odell tit*worth e Karl Fontenot, vero? «No» ripeté Tommy. I due uomini del sogno non avevano un volto. E tanto meno un nome. «Stronzate! La ragazza era Denice Haraway, vero?» «No, neanche la ragazza aveva un volto.» «Stronzate!» Per un'ora i tre poliziotti aggiunsero i necessari dettagli al sogno di Tommy e per un'ora lui negò disperatamente. «Era solo un sogno!» diceva. Solo un sogno. «Stronzate!» ripetevano gli ispettori. Dopo altre due ore sotto torchio, Tommy cedette. Era spaventato: Smith e Rogers erano arrabbiati, capaci di malmenarlo da un momento all'altro, se non addirittura di sparargli. E poi temeva di finire davvero nel braccio

della morte. Aveva capito che non gli avrebbero dato tregua finché non avesse detto qualcosa. Erano cinque ore che era chiuso in quella stanza, non ne poteva più. Era stanco, confuso, terrorizzato. E così fece un errore che gli sarebbe costato la condanna a morte e gli avrebbe tolto per sempre la libertà. Decise di dargli corda. Essendo assolutamente innocente e supponendo che lo fossero anche Fontenot e tit*worth, decise di dire ai tre poliziotti quello che volevano sentirsi dire. Tanto, prima o poi la verità sarebbe venuta a galla. Nel giro di un giorno o due si sarebbero resi conto che la sua storia non stava in piedi. Avrebbero parlato con Karl Fontenot, che avrebbe detto la verità. Avrebbero rintracciato Odell tit*worth, che gli avrebbe riso in faccia. L'importante era farli smettere. Prima o poi, intanto, avrebbero scoperto la verità. Se la sua confessione di un sogno fosse stata sufficientemente campata per aria, chi mai ci avrebbe creduto? Era stato Odell a entrare per primo nel negozio, vero? «Sì.» Tanto, era solo un sogno. Finalmente i tre poliziotti stavano ottenendo qualcosa. Erano stati abili, il ragazzo dava segni di cedimento. Volevano rapinare il negozio, vero? «Sì.» Tanto, era solo un sogno. Smith e Rogers abbellivano il racconto e Tommy gli dava corda. Tanto, era solo un sogno. La polizia si trovava in gravi difficoltà. L'ispettore Mike Baskin era in ufficio a Ada, ma avrebbe preferito essere all'osisi, in azione. Intorno alle quindici lo chiamò Gary Rogers con una notizia sensazionale: Tommy Ward stava parlando! Doveva prendere la macchina e andare nella zona ovest della città, vicino alla centrale elettrica, a cercare il corpo. Baskin corse subito, convinto di trovare finalmente Denice Haraway. Invece non trovò nulla e si rese conto che per effettuare ricerche più accurate gli sarebbero occorsi rinforzi. Perciò tornò alla stazione di polizia. Ricevette un'altra telefonata: la storia era cambiata. Andando verso la centrale elettrica, sulla destra, c'era una vecchia casa bruciata. Il cadavere era lì. Baskin si rimise in macchina, cercò fra le macerie, non trovò niente e ri-

tornò a Ada. Terza telefonata di Rogers: la storia era di nuovo cambiata. Vicino alla centrale elettrica e alla casa abbandonata c'era un bunker. Il cadavere era lì. Baskin chiamò due agenti, prese le torce e ripartì alla carica. Trovò il bunker e cominciò le ricerche. Venne buio e del cadavere non c'era traccia. Ogni volta che parlavano con Baskin, Smith e Rogers apportavano qualche variazione al sogno di Ward. Era tardi, Tommy ormai non ce la faceva più. I tre si alternavano, scambiandosi le parti di poliziotto buono e cattivo, insultando, minacciando. «Lurido figlio di puttana!» era niente, rispetto al resto. Tommy se lo sentì ripetere almeno mille volte. «Ti va solo bene che Mike Baskin non è qui» disse a un certo punto Smith. «Perché lui ti farebbe saltare le cervella.» Tommy non si sarebbe stupito, se gli avessero sparato in testa. Ormai era buio: Smith e Rogers capirono che il corpo non sarebbe stato ritrovato con facilità e decisero di finirla lì. Con la telecamera ancora spenta, ripercorsero la storia con Tommy: i tre assassini erano in giro sul pickup di Odell tit*worth e avevano in mente di fare una rapina. Rendendosi conto che Denice Haraway li avrebbe riconosciuti, l'avevano portata via e quindi avevano deciso di violentarla e ucciderla. Il luogo esatto in cui avevano nascosto il cadavere non era chiaro, ma i tre ispettori erano certi che fosse vicino alla centrale elettrica. Tommy era ormai esausto e non riusciva nemmeno più a parlare. Cercò di ripetere la storia, ma continuava a confondersi. Così Smith e Rogers lo interrompevano, gli ripetevano quello che doveva dire e lo facevano ricominciare daccapo. Alla fine, dopo quattro prove, con l'attore protagonista sempre più stanco, cominciarono le riprese. «Adesso ripeti tutto quanto, Tommy. Mi raccomando, dicci tutto e risparmiaci la storia del sogno.» «Ma la storia è un sogno!» protestò Tommy. «Tu raccontala come se non lo fosse» insistettero loro. «Ci pensiamo poi noi, a dire che non è vero. Tu non stare a dire che era un sogno.» Alle ore 18.58, Tommy Ward guardò la telecamera e declinò le proprie generalità. Era sotto interrogatorio da otto ore e mezzo, fisicamente ed emotivamente a pezzi. Fumava una sigaretta, la prima del pomeriggio, e aveva davanti una bibita in lattina. Sembrava che avesse appena concluso un'amichevole conversazione con i tre ispettori, nel pieno rispetto reciproco.

Raccontò la sua storia. Lui, Karl Fontenot e Odell tit*worth avevano portato via dal negozio Denice Haraway, l'avevano condotta alla centrale elettrica a ovest della città, l'avevano violentata e uccisa e avevano gettato il corpo nei pressi del bunker vicino a Sandy Creek. L'arma del delitto era il coltello a serramanico di tit*worth. Era tutto un sogno, disse. O pensò di aver detto. Diverse volte chiamò tit*worth tit*dale e gli ispettori lo fermarono, dandogli l'imbeccata. Tommy si corresse e andò avanti. Pensava che anche un cieco si sarebbe reso conto che stava dicendo un ammasso di sciocchezze. Trentun minuti dopo gli ispettori spensero la telecamera, ammanettarono Tommy e lo trasferirono nel carcere di Ada. Mike Roberts era ancora nel parcheggio della sede dell'OSBI ad aspettarlo. Stava lì da quasi nove ore e mezzo. Il mattino dopo, Smith e Rogers indissero una conferenza stampa e annunciarono di aver risolto il caso Haraway. Tommy Ward, ventiquattro anni, residente a Ada, aveva confessato, facendo il nome di due complici. Questi ultimi non erano ancora stati arrestati e pertanto i giornalisti erano pregati di non divulgare la notizia per due o tre giorni, in attesa che venissero tratti in arresto anche loro. I giornalisti del quotidiano ubbidirono, quelli di una stazione televisiva no. E così dell'arresto si parlò al telegiornale locale. Alcune ore dopo, Karl Fontenot venne fermato vicino a Tulsa e portato a Ada. Smith e Rogers, forti del successo ottenuto con Tommy Ward, cominciarono a interrogarlo. La telecamera era pronta, ma il colloquio non venne registrato. Karl aveva vent'anni e abitava da solo da quando ne aveva sedici. Era cresciuto a Ada nella miseria più nera: il padre era alcolizzato e la madre era morta in un incidente d'auto davanti agli occhi del figlio. Karl era molto impressionabile, non aveva famiglia e aveva pochi amici. Si disse innocente: non sapeva nulla della scomparsa della Haraway. Si dimostrò un osso assai meno duro di Tommy: in meno di due ore Smith e Rogers ottennero una confessione. Sospettosamente simile a quella di Ward. Fontenot se la rimangiò subito dopo essere stato trasferito in carcere e in seguito dichiarò: «Non ero mai stato dentro, non avevo precedenti. Mi diedero dell'assassino, dicevano che avevo ucciso una ragazza e che sarei finito nel braccio della morte. Gli dissi quello che volevano sentirsi dire per-

ché la smettessero di tormentarmi. Cosa che effettivamente successe, finite le riprese. Mi chiesero se preferivo fornire una dichiarazione scritta o filmata. Non capii a cosa servisse finché non mi dissero che avevo appena confessato l'omicidio di Denice Haraway. L'unico motivo per cui parlai fu che volevo tornarmene a casa». La polizia si assicurò che la notizia arrivasse ai giornalisti. Ward e Fontenot avevano confessato, il mistero Haraway era risolto. Forse non del tutto, ma quasi. C'era ancora il problema tit*worth, ma ne sarebbero venuti a capo nel giro di pochi giorni. La casa bruciata venne identificata e fra i detriti fu ritrovato un osso, presumibilmente una mandibola. La notizia apparve sull'"Ada Evening News". Nonostante l'avessero provata e riprovata, la confessione di Karl Fontenot era un pasticcio. Le discrepanze fra la sua versione dei fatti e quella di Tommy Ward erano enormi. I due si contraddicevano su punti importanti, quali l'ordine in cui i tre avrebbero stuprato la vittima, quando era stata uccisa, il numero e l'ubicazione delle coltellate, il momento del decesso. Uno diceva che a un certo punto la ragazza era riuscita a fuggire e loro avevano dovuto rincorrerla, l'altro non faceva neanche un cenno a questo particolare. Le discrepanze più gravi erano sulle modalità dell'uccisione e sull'occultamento del cadavere. Tommy Ward diceva che Denice era stata pugnalata più volte mentre era stesa sul retro del pick-up di tit*worth durante lo stupro collettivo, che era morta lì e che loro tre l'avevano buttata giù dal camioncino nei pressi del bunker. Fontenot, invece, sosteneva che l'avevano portata dentro la casa abbandonata, dove Odell tit*worth l'aveva accoltellata e nascosta sotto le assi del pavimento, poi aveva cosparso la casa di benzina e le aveva dato fuoco. Sia Ward sia Fontenot, però, su una cosa erano d'accordo: a organizzare tutto era stato tit*worth. Era lui la mente: aveva fatto salire Ward e Fontenot sul suo pick-up, li aveva fatti bere e fumare marijuana e li aveva convinti a rapinare il McAnally's. Al negozio, era stato lui a entrare, prendere i soldi e portare via la ragazza, così come a decidere di ucciderla, in modo che non potesse denunciarli. tit*worth era poi andato alla centrale elettrica, aveva tirato fuori il coltello a serramanico con una lama da dieci centimetri e l'aveva ammazzata. Anche a bruciare la casa - o a non bruciarla era stato lui.

Pur ammettendo una parte di colpa, Ward e Fontenot dichiararono che il vero colpevole era Odell tit*worth, o tit*dale, o come diavolo si chiamava. Nel tardo pomeriggio di venerdì 19 ottobre tit*worth fu arrestato. Aveva già alle spalle quattro condanne, non vedeva di buon occhio i poliziotti e conosceva molto meglio le loro tecniche e i loro trucchetti. Non si smosse di un millimetro: non sapeva niente del caso Haraway, non gli importava che cosa avessero detto Ward e Fontenot, per iscritto o su videocassetta. Non li aveva mai visti né conosciuti. Il suo interrogatorio non venne filmato. Fu accompagnato in carcere e lì ben presto gli venne in mente che il 26 aprile si era rotto un braccio nel corso di una rissa. Due giorni dopo, quando Denice Haraway era scomparsa, lui era a casa della sua fidanzata, con il braccio ingessato. In entrambe le confessioni veniva descritto come pieno di tatuaggi visibili sotto le maniche della T-shirt. Nella realtà, aveva il braccio sinistro costretto in un voluminoso gesso ed era da tutt'altra parte rispetto al McAnally's. Quando Dennis Smith controllò, trovò referti medici e verbali di polizia che confermavano la versione di tit*worth. Smith parlò persino con il suo medico curante, il quale attestò che con un braccio ridotto in quelle condizioni tit*worth non sarebbe mai riuscito a trasportare un cadavere o commettere atti di violenza. Era escluso: tit*worth si era fatto male solo due giorni prima e aveva il braccio ingessato dal polso all'ascella. Le confessioni reggevano sempre meno. Gli agenti impegnati nelle ricerche incontrarono il proprietario della vecchia casa bruciata. Sentito che stavano cercando i resti della Haraway perché uno degli indagati aveva confessato di averla nascosta lì e quindi di aver dato fuoco alla casa, spiegò che era impossibile: aveva bruciato lui stesso quella casa nel giugno del 1983, dieci mesi prima della scomparsa della ragazza. Il medico legale analizzò l'osso ritrovato fra i detriti e stabilì che apparteneva a un opossum. Questo particolare arrivò ai giornalisti. Purtroppo, però, i media non vennero mai a sapere che la casa era stata bruciata prima della scomparsa della Haraway, né che tit*worth aveva il braccio sinistro ingessato. E tanto meno che sia Ward sia Fontenot si erano rimangiati le loro "confessioni". In carcere, infatti, si dichiararono subito innocenti e riferirono che le loro confessioni erano state estorte con la violenza. I Ward racimolarono abba-

stanza quattrini per assicurarsi l'assistenza di un bravo avvocato, cui Tommy descrisse nei particolari i trucchetti utilizzati da Smith e Rogers durante l'interrogatorio. Lui l'aveva detto mille volte, che era solo un sogno. Karl Fontenot, invece, era solo al mondo. Le ricerche del cadavere continuavano. La domanda che sorgeva spontanea era: "Se quei due hanno confessato, com'è che non sapete dov'è il corpo?". Il quinto emendamento della Costituzione americana protegge dall'autoincriminazione e, poiché è noto che il modo più facile per risolvere un caso è ottenere una confessione, esiste un ricco corpus legislativo riguardante la condotta da tenere durante gli interrogatori. Molte delle norme che lo compongono erano già in vigore nel 1984. Cento anni prima, nella causa "Hopt contro lo Stato dello Utah", la Corte suprema aveva stabilito la non ammissibilità di dichiarazioni ottenute facendo appello a speranze e timori atti a minare la libertà e l'autocontrollo necessari per una confessione spontanea. Nel 1897, nella causa "Bram contro gli Stati Uniti d'America", la Corte stabilì che la confessione deve essere libera e volontaria, e non può essere estorta con minacce, violenze o promesse, neppure di lieve entità. La confessione ottenuta con l'ausilio di minacce è pertanto ritenuta inammissibile. Nel 1960 nella causa "Blackburn contro lo Stato dell'Alabama", la Corte dichiarò che la coercizione può essere "sia verbale sia fisica". Per stabilire la correttezza di una confessione, occorreva tenere conto di questi fattori: 1) la durata dell'interrogatorio; 2) la presenza o meno di pause e interruzioni nello stesso; 3) il fatto che fosse condotto durante le ore diurne o notturne (con un forte pregiudizio nei confronti di queste ultime); 4) le risorse intellettive, culturali ed espressive del confesso. In "Miranda contro lo Stato dell'Arizona", il caso più famoso relativo all'autoincriminazione, la Corte suprema impose una serie di misure cautelari atte a proteggere i diritti dell'accusato. Il cittadino fermato dalle forze dell'ordine ha il diritto costituzionale di tacere e sue eventuali dichiarazioni non possono essere usate contro di lui in sede processuale, a meno che non si dimostri che quando le ha rese egli era consapevole: 1) del proprio diritto di non rispondere alle domande; 2) del fatto che ogni sua affermazione poteva essere usata contro di lui; 3) del proprio diritto di avvalersi di un avvocato, di sua scelta o d'ufficio. Se nel corso di un interrogatorio il citta-

dino chiede di essere assistito da un avvocato, l'interrogatorio deve essere immediatamente sospeso. Questa sentenza fu emessa nel 1966 e divenne subito famosa. All'inizio in molti dipartimenti di polizia fu ignorata, ma smise di esserlo quando pericolosi criminali non poterono essere legalmente perseguiti perché non erano stati letti loro i diritti al momento dell'arresto. Benché aspramente criticata e osteggiata da molti americani indignati dal fatto che la Corte suprema usasse troppi riguardi nei confronti dei delinquenti, è entrata pian piano a far parte della cultura americana e non vi è poliziesco ambientato negli USA in cui non si senta un agente recitare i diritti all'arrestato. Rogers, Smith e Featherstone sapevano che era una procedura importante e infatti la filmarono. Ciò che si guardarono bene dal riprendere furono le estenuanti cinque ore e mezzo di minacce e insulti prima della confessione. Dal punto di vista costituzionale, le confessioni di Tommy Ward e Karl Fontenot erano scandalose, ma nell'ottobre del 1984 la polizia di Ada era ancora convinta che presto o tardi il corpo di Denice Hareway sarebbe stato ritrovato e con esso sarebbero emersi indizi importanti. Pensava, insomma, di avere ancora tutto il tempo di raccogliere prove inconfutabili della colpevolezza di Ward e Fontenot prima che venisse celebrato il processo. Ma il corpo non venne ritrovato. Tommy Ward e Karl Fontenot non avevano idea di dove fosse e lo ripetevano continuamente. Passarono mesi senza che la polizia trovasse altri indizi. Le confessioni dei due ragazzi acquistavano sempre più importanza: ormai erano le uniche prove. 6 Ron Williamson era al corrente del caso Haraway. Era nel posto giusto per avere tutte le informazioni, in una cella del carcere di contea. Condannato a tre anni di detenzione, dopo dieci mesi venne rispedito a Ada agli arresti domiciliari, con scarsissima libertà di movimento. Prevedibilmente, l'esperimento non riuscì. Ron non seguiva alcuna cura e perdeva la cognizione del tempo. A volte non sapeva nemmeno che giorno fosse. A novembre, mentre era agli arresti domiciliari, venne accusato di aver violato le condizioni relative al regime di semilibertà "per aver lasciato la propria abitazione in orari non consentiti". Ron disse di aver semplicemente attraversato la strada per andare a

comprare un pacchetto di sigarette e di essere rientrato con mezz'ora di ritardo. Venne arrestato, riportato in carcere e quattro giorni dopo accusato di evasione. Si dichiarò nullatenente e gli venne affidato un difensore d'ufficio. In carcere non si parlava che del caso Haraway. Tommy Ward e Karl Fontenot erano dentro e i detenuti, non avendo nulla da fare, parlavano e discutevano. Ward e Fontenot erano al centro dell'attenzione, perché il loro delitto era il più recente, oltre che il più sensazionale. Tommy raccontò la confessione del sogno e le tattiche utilizzate per estorcergliela da Smith, Rogers e Featherstone, che i suoi ascoltatori conoscevano bene. Giurava e spergiurava di non avere niente a che fare con la morte di Denice Haraway. L'assassino è ancora a piede libero, diceva, che se la ride alle spalle dei due cretini incastrati dalla polizia. Senza il corpo di Denice Haraway, Bill Peterson si trovava di fronte a un processo difficile. Aveva in mano soltanto due confessioni e nessunissima prova. Anzi, la realtà contraddiceva le dichiarazioni di Ward e Fontenot, che oltretutto erano discordanti su molti punti. Peterson aveva anche due identikit, altrettanto poco convincenti. Uno recava un minimo di somiglianza con Tommy Ward, ma l'altro non ricordava neppure lontanamente Karl Fontenot. Arrivò il giorno del Ringraziamento e dei resti della Haraway ancora non c'era traccia. Poi ci furono le feste di Natale. Nel gennaio del 1985, Bill Peterson convinse un giudice che c'erano abbastanza prove del fatto che Denice Haraway fosse morta. Nel corso dell'udienza preliminare, proiettò davanti a numerosi spettatori i filmati delle due confessioni. La reazione fu di shock, ma le evidenti discrepanze fra il resoconto di Ward e quello di Fontenot non sfuggirono a nessuno. Ciononostante, Peterson voleva un processo, con o senza cadavere. Incontrò numerosi problemi. Due giudici chiesero l'esonero, le ricerche della donna scomparsa languirono fino a essere ufficialmente sospese dopo un anno, e gli abitanti di Ada, seppure abbastanza convinti che Ward e Fontenot fossero colpevoli - altrimenti perché avrebbero confessato? -, erano preoccupati per l'assoluta mancanza di prove. Possibile che ci volesse tanto tempo per assicurare il colpevole alla giustizia? Nell'aprile del 1985, a un anno dalla scomparsa di Denice Haraway, "l'Ada Evening News" pubblicò un articolo di Dorothy Hogue sullo scontento generale per la lentezza delle indagini. Si intitolava: La città dei de-

litti irrisolti. Parlando brevemente sia del caso Haraway sia del caso Carter, la Hogue scriveva: "Benché le autorità abbiano svolto accurate ricerche in zone diverse, prima e dopo l'arresto di Ward e Fontenot, il corpo di Denice Haraway non è mai stato ritrovato. Tuttavia, l'ispettore Smith si dice convinto che il caso sia chiuso". L'articolo non faceva cenno alle confessioni dei due presunti colpevoli. A proposito del caso Carter, la Hogue diceva: "Le prove raccolte sulla scena del crimine sono state mandate ai laboratori dell'Oklahoma State Bureau of Investigation quasi due anni fa e ancora non si hanno i risultati". Veniva sottolineato che l'OSBI era sovraccarico di lavoro. Dennis Smith dichiarava: "Abbiamo ristretto il campo delle indagini a un individuo, ma non sono ancora stati spiccati mandati d'arresto". Nel febbraio del 1985 Ron si presentò in tribunale per rispondere del reato di evasione. A difenderlo era David Morris, che conosceva bene i Williamson. Ron si dichiarò colpevole del reato ascrittogli e venne condannato a due anni di detenzione, con il beneficio della sospensione a condizione che: 1) si sottoponesse a adeguata terapia di igiene mentale; 2) dimostrasse di tenere una buona condotta; 3) rimanesse nella contea di Pontotoc; 4) si astenesse dal consumo di alcol. Pochi mesi dopo venne arrestato per ubriachezza molesta nella contea di Pottawatomie. Bill Peterson chiese che la sospensione della pena venisse revocata e che Ron Williamson tornasse dietro le sbarre. Venne fissata un'udienza il 26 luglio, con il giudice distrettuale John David Miller. Anche in quest'occasione, a rappresentare Ron fu David Morris. Durante l'udienza Ron, che ormai non si curava da tempo, parlò a sproposito, litigò con il suo avvocato, con il giudice e con i messi e manifestò un'aggressività e una distruttività tali che l'udienza venne rimandata a tre giorni dopo. Miller chiese al personale del carcere di parlare con Williamson e consigliargli di tenere un altro tipo di comportamento, ma Ron iniziò a gridare e strepitare appena entrato in aula. Il giudice lo ammonì, Ron gli rispose. Voleva cambiare avvocato. Il giudice gli chiese perché, ma lui non riuscì a spiegargliene il motivo. Il suo comportamento era inqualificabile, ma era evidente che era malato. A volte sembrava a contatto con la realtà, ma in genere blaterava per conto suo. Era rabbioso, astioso, in perenne conflitto con il resto del mondo. Dopo una serie di avvertimenti, il giudice Miller lo rimandò in cella e

rinviò nuovamente l'udienza. Il giorno dopo David Morris richiese un'udienza per valutare le capacità mentali del suo assistito. Presentò inoltre una mozione per venire esonerato dall'incarico. Nella sua visione distorta del mondo, Ron si sentiva perfettamente normale e trovava offensivo che l'avvocato mettesse in dubbio la sua sanità mentale, quindi non gli parlava più. Morris era al limite della sopportazione. La sua prima mozione venne accolta e l'udienza per la valutazione dello stato mentale di Ron fu fissata quindici giorni dopo. Quella relativa all'esonero, invece, fu respinta. Appena dichiarata aperta, l'udienza venne però sospesa perché Ron dava in escandescenze. Il giudice Miller ordinò una perizia psichiatrica. All'inizio del 1985 a Juanita Williamson era stato diagnosticato un cancro alle ovaie, che progrediva rapidamente. Da due anni e mezzo girava voce che suo figlio avesse ucciso Debbie Carter e lei voleva mettere a tacere i sospetti una volta per tutte prima di morire. Era una donna molto precisa, che conservava meticolosamente documenti e agende. I registri del suo esercizio commerciale erano perfetti: nel giro di un minuto era in grado di dire alle sue clienti le date dei loro ultimi cinque appuntamenti. Non buttava via niente: scontrini, ricevute, matrici di assegni, pagelle dei figli, ricordi. Aveva controllato la propria agenda un centinaio di volte e sapeva che la sera del 7 dicembre 1982 Ron era stato a casa con lei. Alla polizia l'aveva già detto in diverse occasioni, ma gli ispettori sostenevano che Ron sarebbe potuto uscire di casa senza che lei se ne accorgesse, correre lungo il vicolo, uccidere Debbie Carter e tornare a casa. Perché avesse dovuto fare una cosa del genere era una questione di secondo piano. Com'era di secondo piano la dichiarazione fasulla di Glen Gore, il quale pretendeva che Ron quella sera fosse al Coachlight a infastidire Debbie Carter. Meri dettagli: la polizia aveva il suo uomo. Juanita Williamson era una donna molto stimata, però. Era una cristiana devota, conosciuta in tutte le chiese pentecostali, e una parrucchiera di successo, con centinaia di clienti che le volevano bene. Se fosse salita sul banco dei testimoni e avesse dichiarato sotto giuramento che suo figlio la sera dell'omicidio era a casa con lei, la giuria le avrebbe creduto. Forse suo figlio aveva dei problemi, ma di certo aveva ricevuto un'educazione come si deve.

Ma a Juanita nel frattempo era venuta in mente anche un'altra cosa. Nel 1982 il noleggio di videocassette era molto popolare. Il negozio in fondo alla strada faceva affari d'oro. Il 7 dicembre Juanita aveva noleggiato un videoregistratore e cinque fra i suoi film preferiti, che aveva guardato fino a tardi con Ron. Quella sera suo figlio era con lei, seduto sul divano a guardare vecchi film. Juanita aveva conservato la ricevuta del videonoleggio. Tutte le volte che aveva avuto bisogno di un avvocato per piccoli problemi legali, si era rivolta a David Morris, il quale per amicizia aveva anche aiutato Ron, pur considerandolo un cliente tutt'altro che ideale. Morris la stette a sentire, controllò la ricevuta del negozio e non ebbe il minimo dubbio che Juanita stesse dicendo la verità. Anzi, tirò un sospiro di sollievo, perché anche lui aveva sentito le voci secondo cui a uccidere Debbie Carter era stato Ron. Morris si occupava quasi a tempo pieno di processi penali e non nutriva molto rispetto per la polizia di Ada. Però aveva abbastanza conoscenze nell'ambiente e quindi organizzò un incontro con Dennis Smith. Vi accompagnò Juanita Williamson e la esortò a parlare all'ispettore in sua presenza. Dennis Smith ascoltò con attenzione, esaminò la ricevuta e chiese alla Williamson se era disponibile a rilasciare una dichiarazione davanti a una telecamera. La donna disse di sì. David Morris rimase a guardare mentre posizionavano sedia e telecamera, facevano prendere posto alla donna e cominciavano l'interrogatorio. Juanita Williamson quella sera tornò a casa soddisfatta, convinta di aver finalmente messo a posto le cose. La registrazione però andò perduta, sempre che quel giorno la telecamera fosse carica. Del fatto che Juanita Williamson avesse rilasciato una dichiarazione in difesa del figlio al processo non si fece neppure parola. Ron, in carcere, era preoccupato per sua madre. In agosto era ricoverata in gravissime condizioni, ma lui non aveva il permesso di vederla. Quel mese, per ordine del tribunale, venne nuovamente visitato dal dottor Charles Amos, il quale gli prescrisse una serie di test. Nel corso del primo, notò che Ron segnava "vere" tutte le risposte, senza neanche pensarci. Amos gliene chiese il motivo e la risposta di Ron fu: «Cos'è più importante: questo test o mia madre?». Amos interruppe la somministrazione e scrisse: "Marcato deterioramento delle funzioni emotive rispetto al precedente incontro del 1982".

Ron chiese in tutti i modi di poter vedere sua madre prima che morisse. Anche Annette intercedette perché gli venisse concessa l'autorizzazione a farle visita. Ormai conosceva il personale del carcere. Quando portava biscotti e dolci a suo fratello, ne preparava un po' di più, per distribuirne anche alle guardie carcerarie e agli altri detenuti. In alcune occasioni, aveva addirittura cucinato per tutti nei locali del carcere. Fece notare che l'ospedale non era lontano, che Ada era una piccola città dove tutti conoscevano Ron e la sua famiglia: quante probabilità c'erano che suo fratello si procurasse un'arma e facesse una strage? Alla fine si trovò un accordo e Ron venne scortato fuori del carcere da un manipolo di guardie, legato a polsi e caviglie, a mezzanotte passata. Venne accompagnato all'ospedale a bordo di un cellulare, fu messo su una sedia a rotelle e trasportato da sua madre. Juanita aveva detto chiaro e tondo che non voleva vedere il figlio in catene. Annette aveva pregato i funzionari del carcere di esaudire questo suo ultimo desiderio e aveva ottenuto una piccola deroga al regolamento. Purtroppo, però, la comunicazione non arrivò agli agenti e la scorta si rifiutò di togliere le manette al detenuto. Ron implorò le guardie di slegargli i polsi per pochi minuti, mentre era dentro la camera per vedere sua madre viva per l'ultima volta. Impossibile. Ron doveva restare sulla sedia a rotelle, legato mani e piedi. Chiese almeno una coperta per nascondere le catene. Le guardie ci pensarono su un momento - che costituisse un rischio per la sicurezza? - e poi gliela concessero. Lo accompagnarono nella stanza e chiesero ad Annette e Renee di uscire. I tre fratelli avrebbero voluto stare un momento tutti assieme un'ultima volta, ma le guardie lo considerarono un rischio troppo elevato e le spedirono nel corridoio. Ron disse alla madre che le voleva molto bene, che gli dispiaceva di aver combinato tanti guai nella sua vita e di averla delusa. Scoppiò a piangere e le chiese perdono. Naturalmente Juanita lo rassicurò. Lui citò alcuni passi delle Scritture. Era difficile raggiungere un certo livello di intimità, però, con le guardie tutto intorno al letto. Ma la scorta doveva evitare che Ron si lasciasse andare a gesti inconsulti. Forse temevano che si lanciasse da una finestra, o che facesse del male a qualcuno. Fu un addio breve, perché le guardie concessero solo pochi minuti: dovevano tornare in carcere. Annette e Renee sentirono il fratello che piangeva mentre lo trascinavano via. Juanita Williamson morì il 31 agosto 1985. Inizialmente a Ron venne

negato il permesso di prendere parte ai funerali, poi intervenne il marito di Annette, offrendosi di ingaggiare due suoi cugini che avevano fatto parte delle forze dell'ordine per contribuire alla scorta. La polizia si comportò comunque come se il funerale di Juanita Williamson fosse un evento ad alto rischio. Il detenuto doveva entrare una volta che tutti gli altri avessero preso posto, in catene. Precauzioni indispensabili, per un uomo reo di aver falsificato un assegno di trecento dollari. La chiesa era gremita di gente, il feretro vicino all'altare, aperto, in maniera che tutti potessero vedere l'austero profilo della morta. Vennero aperte le porte sul retro e il figlio della defunta fu accompagnato lungo la navata da guardie armate. Aveva le catene alle caviglie e ai polsi, collegate fra loro all'altezza della vita, che lo ostacolavano nei movimenti e producevano un rumore minaccioso nel silenzio della chiesa. Vedendo la madre nella bara, Ron scoppiò in singhiozzi e disse: «Perdonami, mamma, ti prego!». I singhiozzi si trasformarono in un penoso lamento. Lo fecero sedere in mezzo a due guardie con le catene che sferragliavano a ogni suo movimento. Era nervoso, agitato, sconvolto, incapace di stare fermo e zitto. Era lì, nella chiesa dove andava da bambino, dove Annette suonava l'organo ogni domenica mattina, dove sua madre partecipava a tutte le funzioni, e piangeva. Dopo il funerale, venne servito un piccolo rinfresco in una sala della chiesa. Ron vi partecipò, scortato dalle guardie. Era quasi un anno che mangiava solo il rancio della prigione e quel buffet doveva sembrargli un banchetto regale. Annette chiese alle guardie di liberargli i polsi in maniera che potesse mangiare, ma la richiesta non venne accordata. Lei insistette, ma le guardie non vollero sentire ragioni. E così amici e parenti osservarono pietosi Annette e Renee che si davano i turni per imboccare il fratello. Al cimitero, dopo le letture e le preghiere, tutti andarono a fare le condoglianze ai tre figli, per abbracciarli affettuosamente o stringere loro la mano. Ron, però, aveva le mani legate e non poté fare altro che baciare le signore e accennare una stretta di mano sferragliante con gli uomini. Era settembre, faceva ancora molto caldo e il sudore gli colava sulla fronte e sulle guance. Non potendosi asciugare da solo, doveva chiedere alle sorelle di aiutarlo.

La perizia del dottor Charles Amos dichiarava Ron Williamson infermo di mente ai sensi delle leggi statali, incapace di comprendere le accuse rivoltegli e di assistere il proprio legale rappresentante in una difesa efficace. Secondo Amos, avrebbe potuto acquistare le necessarie capacità mentali solo con un'adeguata terapia. Senza, avrebbe invece costituito un pericolo per la propria e altrui incolumità. Il giudice Miller prese atto della perizia di Amos e dichiarò Ron "mentalmente incapace". Ron venne quindi trasferito all'Eastern State Hospital di Vinita per ulteriori accertamenti. Lo prese in cura il dottor R.D. Garcia, che gli prescrisse Dalmane e Restoril per l'insonnia, Mellaril per le allucinazioni e le forme maniacali e Thorazine per schizofrenia, iperattivismo e aggressività, oltre che per la fase ipomaniacale della ciclotimia. Dopo alcuni giorni di adattamento, Ron si tranquillizzò e cominciò a stare meglio. Due settimane più tardi, il dottor Garcia concluse: "Soggetto sociopatico con una storia di alcolismo. Deve continuare il Thorazine, 100 mg quattro volte al dì. Non a rischio di fuga". Precisazione ironica, dal momento che la sospensione della pena gli era stata revocata proprio per "evasione". Nel rispondere a una serie di domande scritte postegli dal tribunale, Garcia dichiarò: "Il soggetto: 1) è in grado di comprendere la natura delle accuse rivoltegli; 2) è in grado di assistere efficacemente il suo legale rappresentante nella preparazione della difesa; 3) non è più da considerarsi infermo di mente; 4) ove venisse rilasciato, anche in assenza di terapia, non costituirebbe un rischio significativo per l'incolumità propria e altrui, fatto salvo un peggioramento della sociopatia, nel qual caso egli potrebbe essere potenzialmente pericoloso, specie in stato di ebbrezza". Ron tornò a Ada, dove doveva riprendere il procedimento a suo carico. Il giudice Miller non richiese una consulenza tecnica post-trattamento e accolse semplicemente la tesi del dottor Garda. Ufficialmente, Ron rimaneva "mentalmente incapace". Sulla base delle conclusioni del dottor Garcia, però, la sospensione della pena gli venne revocata e Ron dovette tornare in carcere per scontare quel che restava della condanna. Al momento della dimissione, l'Eastern State Hospital gli aveva dato una scorta di Thorazine sufficiente per due settimane. A settembre cominciò il processo a carico di Tommy Ward e Karl Fontenot. Gli avvocati difensori volevano due processi separati e, soprattutto,

fuori della contea di Pontotoc. Denice Haraway non era stata mai ritrovata, centinaia di persone avevano partecipato alle sue ricerche e in città non si era parlato d'altro per molto tempo. Il suocero era un dentista stimato e molto conosciuto a Ada. Ward e Fontenot erano in carcere da undici mesi. Delle loro confessioni si discuteva in bar e negozi da quando la notizia era apparsa sui giornali, a ottobre. Come potevano pensare di avere una giuria imparziale? Quando un caso desta tanto scalpore, il processo viene quasi sempre celebrato in un'altra sede. Ma la deroga alla competenza territoriale quella volta non venne concessa. L'altra battaglia degli avvocati di Ward e Fontenot verteva sulle confessioni. I loro legali rappresentanti volevano che fossero dichiarate inammissibili, principalmente a causa dei metodi utilizzati dagli ispettori Smith e Rogers per ottenerle. Inoltre, i fatti riferiti dai due ragazzi erano evidentemente falsi e non supportati dal minimo indizio. Peterson si batté con tutte le sue forze, però: a parte quei due filmati, non aveva in mano niente. Dopo lunghe e animate discussioni, il giudice stabilì che i giurati potevano vederli. Il pubblico ministero chiamò a deporre cinquantuno testimoni, la maggior parte dei quali non disse nulla di sostanziale. Molti erano amici di Denice Haraway e testimoniarono che la donna era scomparsa e presumibilmente morta. L'unica sorpresa di quel processo fu Terri Holland, una donna dai numerosi precedenti penali, che nella sua deposizione raccontò di aver conosciuto Karl Fontenot in carcere, a ottobre. Quando il ragazzo era arrivato, lei era già detenuta e ogni tanto si parlavano. In uno di questi colloqui Karl le aveva detto che lui, Tommy Ward e Odell tit*worth avevano rapito, stuprato e ucciso Denice Haraway. Fontenot negò di averla mai vista o conosciuta. Terri Holland non fu l'unica delinquente di carriera a essere chiamata a testimoniare. Peterson convocò anche un altro detenuto del carcere, un piccolo criminale di nome Leonard Martin, che dichiarò di aver sentito Karl Fontenot parlare da solo nella propria cella e dire: «Lo sapevo, che ci avrebbero beccato. Lo sapevo, lo sapevo!». Era questo lo spessore delle prove presentate dal pubblico ministero per convincere la giuria che Ward e Fontenot erano colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio. Non c'erano prove e le confessioni erano piene di discrepanze e di evi-

denti inesattezze. La posizione del pubblico ministero era assurda: chiedeva ai giurati di credere a ciò che Ward e Fontenot avevano dichiarato, però non proprio a tutto. Signore e signori della giuria, non date importanza al presunto coinvolgimento di tit*worth: in realtà lui non c'entra nulla. E neppure al rogo della casa: in realtà l'aveva bruciata il proprietario dieci mesi prima. Nell'aula vennero predisposti gli schermi e abbassate le luci per proiettare i filmati delle due confessioni. I dettagli che ne emergevano erano raccapriccianti: Ward e Fontenot rischiavano la pena di morte. Nella sua requisitoria, la prima che pronunciava a un processo importante, Chris Ross assunse toni drammatici, ricapitolando tutti i particolari più atroci e crudeli citati nelle confessioni: una giovane donna molto graziosa era stata violentata e pugnalata a morte, e il suo cadavere insanguinato era stato bruciato. I giurati si lasciarono suggestionare a sufficienza e, dopo una brevissima discussione in camera di consiglio, ritornarono con un verdetto di colpevolezza. Ward e Fontenot vennero condannati a morte. La verità, però, era che Denice Haraway non era stata né pugnalata, né bruciata, a dispetto di quanto avevano raccontato Ward e Fontenot nelle loro confessioni fasulle, e di quanto Bill Peterson e Chris Ross avevano detto alla giuria. Denice Haraway era morta in seguito a un colpo di pistola alla testa. I suoi resti vennero ritrovati il gennaio successivo da un cacciatore nel profondo di un bosco vicino a Gerty, nella contea di Hughes, a una cinquantina di chilometri da Ada, da tutt'altra parte rispetto alla zona in cui erano state effettuate le ricerche. Che la donna non fosse morta accoltellata avrebbe dovuto essere di per sé la prova che le confessioni di Ward e Fontenot erano fasulle e che erano state estorte con la violenza. Invece no. Un fatto del genere avrebbe dovuto spingere le autorità ad ammettere il proprio errore e a cercare il vero colpevole. Invece no. Dopo il processo, ma prima del ritrovamento del cadavere, Tommy Ward era in attesa di essere trasferito nel braccio della morte del carcere di McAlester, a un centinaio di chilometri da Ada. Era sotto shock, spaventato, confuso e depresso. Un anno prima era un ragazzo normalissimo, che aspirava a divertirsi, a trovare un buon lavoro e una bella ragazza: adesso

lo aspettava l'iniezione letale. Pensava all'assassino che girava indisturbato ridendo di lui e dei poliziotti che l'avevano mandato in carcere al posto suo. Chissà se aveva avuto la faccia tosta di seguire il processo. Probabilmente sì. Tanto, che cosa rischiava? Un giorno lo andarono a trovare due poliziotti di Ada. Facevano gli amiconi, si dicevano preoccupati di cosa gli sarebbe successo a McAlester. Furono sobri, misurati, non ricorsero né a minacce né a insulti. L'unica cosa che stava loro a cuore era trovare il corpo di Denice Haraway. Se Tommy li avesse aiutati, loro avrebbero aiutato lui. Se Tommy gli avesse detto dove aveva nascosto il cadavere, loro avrebbero fatto in modo che la procura commutasse la pena capitale in ergastolo. Dicevano di essere in grado di farlo, ma in realtà non lo erano. Non era in loro potere. E comunque Tommy non sapeva dove fosse il cadavere di Denice Haraway. Ribadì quello che stava dicendo da quasi un anno, e cioè che lui non sapeva niente, non c'entrava niente, non aveva fatto niente. Ormai avrebbe avuto solo dei vantaggi a parlare. Purtroppo per lui, non aveva niente da dire. La storia dell'arresto di Ward e Fontenot giunse alle orecchie di Robert Mayer, un celebre giornalista di New York, che si era trasferito nel Sudovest degli Stati Uniti. A dirglielo fu la donna con cui aveva cominciato a uscire; il fratello aveva sposato una delle sorelle di Ward. A incuriosire Mayer fu soprattutto la confessione del sogno e l'importanza che le era stata data. Perché uno dovrebbe confessare un delitto orribile e infarcire il proprio racconto di bugie? E così andò a Ada per indagare. Fece ricerche meticolose sulla città, i suoi abitanti, il delitto, la polizia, i due pubblici ministeri e i due imputati, Ward e Fontenot. La gente di Ada lo teneva d'occhio: era raro avere in città un vero scrittore, che sondava e scrutava per poi scrivere chissà che cosa. Tuttavia, Mayer si guadagnò lentamente la fiducia della maggior parte delle persone coinvolte e parlò a lungo con Bill Peterson, con gli avvocati difensori e con i poliziotti. Dennis Smith gli disse che avere due omicidi irrisolti in una cittadina come Ada era un grandissimo stress e gli mostrò una foto di Debbie Carter. «Sappiamo che a ucciderla è stato Ron Williamson, solo che non siamo ancora riusciti a provarlo» gli confidò. Quando Mayer cominciò a occuparsi del caso, aveva il dubbio che Ward e Fontenot potessero essere colpevoli, ma ben presto rimase sconcertato

dai metodi usati da Smith e Rogers e dal modo in cui si era svolto il processo. Le uniche prove erano le due confessioni che, per quanto sconvolgenti, erano così piene di contraddizioni da risultare assolutamente incredibili. Ciononostante, Mayer si sforzò di dare un quadro della situazione più obiettivo possibile. Il suo libro, The Dreams of Ada, uscì per i tipi della Viking nell'aprile del 1987. Gli abitanti di Ada aspettavano con ansia di vederlo nelle librerie. La loro reazione fu rapida e prevedibile. Alcuni lo giudicarono inaffidabile per via dei rapporti di amicizia fra l'autore e la famiglia Ward, altri trovavano il fatto che i due ragazzi avessero confessato una dimostrazione inequivocabile della loro colpevolezza e rimasero della loro idea. Ma le perplessità sull'operato di polizia e procura si diffusero a macchia d'olio, e con esse il dubbio che i veri assassini fossero ancora in libertà e che in prigione fossero finiti due innocenti. È raro che un procuratore di provincia diventi protagonista di un libro, specie nelle vesti del cattivo. Punto sul vivo dalle critiche ricevute, Bill Peterson si impegnò anima e corpo nel caso Carter. Doveva assolutamente recuperare la propria immagine. Ormai erano passati quattro anni dall'omicidio e le indagini erano a un punto morto, ma lui doveva trovare a tutti i costi un colpevole. Sia lui sia la polizia erano convinti ormai da anni che a uccidere Debbie Carter fosse stato Ron Williamson. Sul coinvolgimento di Dennis Fritz avevano ancora qualche dubbio, ma del fatto che Williamson era stato nell'appartamento della Carter la sera dell'omicidio erano sicurissimi. Le prove non c'erano, ma loro erano sicurissimi lo stesso. Ron finì di scontare la pena e tornò a Ada. Nell'agosto del 1985, quando era morta Juanita Williamson, Ron era in carcere. Lo aspettavano una perizia psichiatrica e altri due anni di detenzione e così, anche se a malincuore, Annette e Renee avevano venduto la casa di Fourth Street. Quando Ron uscì dal carcere nell'ottobre del 1986, non sapeva dove andare a stare. Lo ospitò Annette, che viveva con il marito e il figlio. I primi giorni Ron si sforzò di adattarsi, ma poi tornò alle vecchie abitudini: si preparava da mangiare a ore inconsuete facendo un chiasso terribile, passava la notte a guardare la televisione a tutto volume, beveva, fumava e dormiva sul divano tutto il giorno. Annette resistette un mese, poi gli chiese di cercarsi un'altra sistemazione.

I due anni di carcere non avevano certo migliorato le sue condizioni mentali. Ron era stato visto in diversi ospedali e centri di igiene mentale, da medici diversi che gli avevano prescritto farmaci diversi. Era stato anche per lunghi periodi senza curarsi. Per un po' andava avanti, poi qualcuno cominciava a notare i suoi comportamenti bizzarri e lo mandava dall'ennesimo specialista. All'atto della scarcerazione, il Department of Corrections lo aveva indirizzato al centro di igiene mentale di Ada. Così, il 15 ottobre Ron incontrò Norma Walker, la quale prese nota del fatto che Ron assumeva litio, Navane e Artane. Lo trovò cortese, controllato e un po' strano. «A volte ti guarda senza dire niente per un minuto buono» osservò. Ron dichiarò di voler studiare la Bibbia e diventare un ministro della chiesa. Ma gli sarebbe piaciuto anche metter su un'impresa edile. Aveva grandi progetti, che la Walker trovò un tantino eccessivi. Due settimane dopo, ancora in terapia, Ron si presentò all'appuntamento in orario e in discrete condizioni. Saltò i due successivi, invece, e quando si presentò il 9 dicembre chiese della dottoressa Marie Snow. Aveva smesso di curarsi perché aveva incontrato una ragazza contraria alle medicine. La dottoressa Snow cercò di convincerlo a riprenderle, ma lui le disse che Dio gli aveva detto di smettere sia con l'alcol sia con le pillole. Mancò all'appuntamento del 18 dicembre e del 14 gennaio. Il 16 febbraio Annette chiamò Norma Walker e disse che suo fratello era incontrollabile e aveva minacciato di spararsi un colpo di pistola. Lo definì "psicotico". Il giorno dopo Ron si presentò al centro agitato ma ragionevole. Chiese che gli cambiassero la terapia. Tre giorni dopo, la Walker ricevette una telefonata dalla McCall's Chapel. Ron stava dando in escandescenze, urlava e strepitava che voleva un lavoro. Lei consigliò di trattarlo con cautela e se necessario di chiamare la polizia. Quel pomeriggio Annette e il marito glielo portarono in studio. Erano disperati, avevano bisogno di aiuto. La Walker notò che Ron, smesso di assumere i farmaci, appariva confuso, disorientato, scollegato dalla realtà, maniacale e assolutamente incapace di prendersi cura di sé. Dubitava che potesse andare avanti senza un'adeguata terapia. Aveva "capacità mentali limitate e comportamenti ingestibili": l'unica soluzione era "il ricovero a lungo termine in un istituto specializzato". Annette e il marito andarono via senza sapere che cosa fare e senza medicine da dare a Ron, che dopo un po' sparì dalla circolazione. Una sera, mentre era in casa con due amici, a Chickasha, Gary Simmons sentì suona-

re il campanello. Andò ad aprire e si ritrovò in casa il cognato, che corse nel salotto e si accasciò a terra. «Ho bisogno di aiuto» diceva. «Sono matto. Ho bisogno di aiuto.» Non si lavava e non si faceva la barba da giorni, aveva i capelli unti e scompigliati, era disorientato, non sapeva nemmeno dov'era. «Non ce la faccio più» si lamentava. Gli amici di Gary non lo conoscevano e rimasero scioccati. Uno addirittura se ne andò. Gary gli promise di dargli una mano e Ron pian piano si calmò e si addormentò. Dopo un po' Gary e il suo amico lo caricarono in macchina. La prima tappa fu l'ospedale, che li indirizzò al centro di igiene mentale, che a sua volta consigliò loro di rivolgersi al Central State Hospital di Norman. In macchina, Ron era praticamente catatonico. A un certo punto mormorò che aveva fame. Gary conosceva un ristorante che faceva ottime costolette di maiale, ma appena vi si fermò davanti, Ron gli chiese: «Dove siamo?». «Ci fermiamo a mangiare» rispose Gary. Ron disse che non aveva fame e così ripartirono alla volta di Norman. «Perché ti volevi fermare?» domandò Ron. «Perché prima hai detto che avevi fame.» «Non è vero» rispose lui seccato. Dopo un po', Ron si lamentò di avere una fame da lupi, Gary vide un McDonald's e si fermò. «Perché ti fermi?» domandò Ron. «Così mangiamo qualcosa» rispose Gary. «Perché?» «Perché hai detto che avevi fame.» «Non ho fame. Preferisco che andiamo subito in ospedale.» Uscirono dal parcheggio del McDonald's e si rimisero in viaggio. Finalmente arrivarono a Norman, dove Ron disse di avere molta fame. Gary cercò un altro McDonald's e Ron per l'ennesima volta si stupì che si fossero fermati. L'ultima tappa prima di arrivare all'ospedale fu a un distributore di benzina in Main Street. Gary comprò due barrette di cioccolata, Ron le prese e le divorò in pochi secondi. Gary e il suo amico rimasero stupiti di quanto avesse mangiato in fretta. Al Central State Hospital, Ron era in uno stato stuporoso, da cui usciva brevemente di tanto in tanto. Il primo medico si irritò per la sua mancanza di collaborazione e se ne andò. Gary allora sgridò il cognato. Ron per tutta risposta si alzò in piedi e guardò il muro bianco flettendo i bicipiti come un culturista. Gary cercò di farlo ragionare, ma Ron era or-

mai nel suo mondo. Passarono dieci minuti: Ron stava fermo immobile a guardare il soffitto. Ne passarono altri dieci e Gary era al limite della sopportazione. Finalmente, dopo trenta interminabili minuti, Ron cambiò posizione, ma continuò a non rivolgere la parola al cognato. Fortunatamente arrivò un infermiere che lo accompagnò nella sua stanza. Al dottore Ron disse: «Volevo venire qui perché avevo bisogno di un posto dove stare, a questo punto». Gli vennero somministrati litio per la depressione e Navane, un farmaco usato nel trattamento della schizofrenia. Una volta che si fu stabilizzato, Ron firmò per uscire perché i medici non volevano dimetterlo. Pochi giorni dopo era di nuovo a Ada. Gary allora lo portò a Dallas, in un centro cristiano per il ricupero di ex galeotti ed ex tossicodipendenti. Il pastore della sua chiesa aveva conosciuto Ron e si era interessato a lui. A Gary aveva detto sottovoce: «Povero ragazzo: le luci sono accese, ma in casa non c'è nessuno». Ron venne accolto nel centro e salutò il cognato, che gli diede cinquanta dollari e tornò in Oklahoma. Dare soldi ai ricoverati era contro le regole, ma nessuno dei due lo sapeva. Po che ore dopo essere stato ammesso nel centro, Ron comprò un biglietto con i cinquanta dollari che gli aveva dato Gary e tornò a Ada in pullman. Arrivò poco dopo il cognato. Il successivo ricovero al Central State Hospital fu coatto. Il 21 marzo, nove giorni dopo la dimissione, Ron tentò il suicidio ingoiando venti pastiglie di Navane. A un'infermiera disse che l'aveva fatto perché era depresso ed era depresso perché non riusciva a trovare lavoro. Gli venne data una terapia ma, appena si stabilizzò, Ron smise di seguirla. I suoi medici conclusero che costituiva un pericolo per sé e per gli altri, e raccomandarono un ricovero di ventotto giorni. Il 24 marzo, tuttavia, Ron era già fuori. Trovò una stanza in Twelfth Street, nella parte occidentale della città, senza servizi: per farsi la doccia doveva usare la manichetta dietro la casa e, non avendo cucina, mangiava quello che gli portava Annette. Un giorno, sua sorella notò che gli sanguinavano i polsi. Ron spiegò che se li era tagliati con un rasoio per poter soffrire quanto lui faceva soffrire gli altri. Voleva morire, raggiungere in Cielo mamma e papà, a cui aveva fatto tanto, tanto male. Annette lo supplicò di farsi vedere da un medico, ma lui rifiutò. Non voleva neppure andare al centro di igiene mentale, dove era stato già aiutato tante volte. Non stava più prendendo le medicine che gli erano state prescritte. L'anziano proprietario della casa era gentile con Ron. Gli faceva pagare

un affitto molto basso e spesso chiudeva un occhio se il pagamento non arrivava. Nel garage della casa c'era una vecchia falciatrice a cui mancava una ruota. Ron la spingeva su e giù per le strade di Ada, rasando prati per cinque dollari. E così riusciva a tirare avanti. Il 4 aprile la polizia di Ada ricevette la telefonata di un residente di Tenth Street. Costui disse che doveva partire, ma aveva paura di lasciare i suoi da soli perché Ron Williamson imperversava per il quartiere anche a notte fonda. Evidentemente lo conosceva bene e lo teneva d'occhio, perché riferì che in una sola notte Ron era andato quattro volte al Circle K e due o tre al Love's, due negozi aperti ventiquattr'ore su ventiquattro. Il poliziotto lo ascoltò comprensivo. Si sapeva che Ron Williamson era un po' strano, ma non c'erano leggi che impedissero a un cittadino di andare avanti e indietro per le strade tutta la notte. Promise comunque di mandare qualcuno a sorvegliare la zona. Il 10 aprile alle tre del mattino in centrale arrivò la telefonata di un commesso del Circle K. Ron Williamson entrava e usciva dal negozio, comportandosi in maniera alquanto bizzarra. Mentre l'agente Jeff Smith era sul posto a raccogliere la denuncia, Ron entrò per l'ennesima volta nel negozio. Smith gli chiese di andarsene e lui ubbidì. Un'ora dopo Ron suonò il campanello della prigione e annunciò alla guardia che doveva confessare alcuni delitti commessi in passato. Gli diedero un modulo da compilare e Ron cominciò a scrivere. Confessò di aver rubato un portafogli al Coachlight quattro anni prima, di aver portato via una pistola da casa, di aver toccato due ragazze nelle parti intime e di aver picchiato e quasi violentato una ragazza a Asher. Poi però lasciò perdere e se ne andò. L'agente Rick Carson lo seguì per strada e lo raggiunse. Ron cercò di spiegargli che cosa stava facendo in giro a quell'ora, ma era molto confuso. Alla fine disse di essere lì a proporsi come giardiniere: rasava i prati per cinque dollari. Carson gli consigliò di tornarsene a casa: per proporsi come giardiniere le ore migliori erano quelle diurne. Il 13 aprile Ron andò al centro di igiene mentale e scioccò il personale. Un infermiere lo descrisse "con la bava alla bocca". Chiese di vedere la dottoressa Snow e si incamminò lungo il corridoio. Quando gli dissero che la dottoressa non c'era, se ne andò senza problemi. Tre giorni dopo uscì The Dreams of Ada. Per quanto volesse addossare a Ron Williamson la responsabilità della morte di Debbie Carter, la polizia non aveva prove sufficienti. Alla fine

della primavera del 1987, erano praticamente le stesse dell'estate del 1983. All'analisi tricologica, completata dai tecnici dell'OSBI due anni dopo l'omicidio, alcuni dei campioni di Ron Williamson e Dennis Fritz risultavano "compatibili" con quelli ritrovati in casa della Carter, ma si trattava di confronti scarsamente affidabili. E poi c'era un grosso problema: l'impronta della mano sul rivestimento della parete della camera da letto della vittima. All'inizio del 1983 Jerry Peters, dell'OSBI, aveva concluso che non apparteneva né a Dennis Fritz, né a Ron Williamson, né a Debbie Carter: era stata lasciata dall'assassino. Certo, poteva essersi sbagliato... Forse era stato frettoloso, aveva trascurato qualche particolare importante. Se quell'impronta fosse stata della vittima, non sarebbe stato più possibile escludere Fritz e Williamson dalla rosa degli indagati. Peterson decise pertanto di richiedere l'esumazione del cadavere per procedere a un nuovo raffronto dell'impronta. Era possibile che la decomposizione non fosse ancora così avanzata da impedire la rilevazione di nuove impronte. E queste, esaminate sotto una nuova luce, avrebbero potuto dargli un elemento in più per arrivare finalmente alla cattura dei colpevoli. Dennis Smith telefonò a Peggy Stillwell e le diede appuntamento alla stazione di polizia, senza spiegarle perché. Lei pensò che ci fosse stata una svolta nelle indagini. Al suo arrivo, trovò Bill Peterson seduto alla scrivania con un foglio davanti. Le spiegò che intendeva riesumare il cadavere della figlia e gli serviva una sua firma. Charlie Carter era già passato a metterla. Peggy rimase di stucco. L'idea di disturbare la figlia la riempiva di orrore. Disse di no, ma Peterson aveva previsto questa eventualità e insistette. Non voleva che trovassero l'assassino? La madre di Debbie disse che sì, certamente voleva che l'assassino pagasse, ma non c'era un altro modo? No, se Peggy voleva giustizia, doveva autorizzare l'esumazione. Poco dopo la donna firmò e andò via di corsa. Raccontò alla sorella il colloquio avuto con Peterson e il suo progetto. In quel momento l'idea dell'esumazione non la disturbava più così tanto: aveva voglia di rivedere la figlia. «La potrò vedere e toccare di nuovo» continuava a dire. Glenna Lucas non era altrettanto entusiasta all'idea e temeva che ci fosse qualcosa di morboso nell'eccitazione di sua sorella. Inoltre, non si fidava delle persone responsabili delle indagini né di Bill Peterson, con cui aveva

parlato diverse volte dopo l'omicidio della nipote. Peggy Stillwell non aveva mai accettato la morte di sua figlia e non era molto equilibrata. Glenna aveva ripetutamente chiesto a Peterson e alla polizia di fare riferimento a lei piuttosto che alla sorella, la quale non era in grado di gestire la situazione e andava protetta. Perciò chiamò subito il procuratore e gli chiese che cosa avesse intenzione di fare. Lui le rispose che l'esumazione era indispensabile, se volevano processare Ron Williamson e Dennis Fritz. L'impronta della mano sul muro costituiva un problema, disse. Una volta che questa fosse risultata della vittima, però, avrebbero potuto procedere all'arresto. Glenna non capiva. Come faceva Peterson a conoscere già i risultati di un esame ancora da cominciare? Come faceva a sapere che l'esumazione del corpo gli avrebbe consentito di arrestare Fritz e Williamson? Peggy Stillwell era ossessionata all'idea di poter rivedere la figlia. Alla sorella disse persino: «Pensa che mi sono dimenticata che voce ha». Glenna si fece promettere da Peterson di fare tutto nella massima riservatezza, e il più in fretta possibile. Un giorno una collega della Brockway Glass chiese a Peggy Stillwell che cosa stava succedendo al cimitero. Lei uscì di corsa dalla fabbrica e attraversò la città più in fretta che poté. Ma quando arrivò, la tomba di sua figlia era già vuota. Le prime impronte del palmo erano state prese dall'agente dell'OSBI Jerry Peters il 9 dicembre 1982 nel corso dell'autopsia. All'epoca le mani erano perfettamente conservate e Peters non aveva avuto problemi a ricavare impronte chiare e nitide. Quando aveva scritto il rapporto tre mesi dopo, aveva affermato con assoluta certezza che l'impronta insanguinata sul rivestimento della parete della camera da letto della vittima non apparteneva né alla Carter, né a Fritz, né a Williamson. A distanza di quattro anni e mezzo, però, con il caso ancora aperto e lo stress di dover trovare l'assassino, non ne era più altrettanto certo. Tre giorni dopo l'esumazione, Peters scrisse un altro rapporto, in cui dichiarava che l'impronta apparteneva a Debbie Carter. Fu la prima e unica volta in ventiquattro anni di carriera che si rimangiò una perizia. Era molto importante per Bill Peterson. Ora che era dimostrato che l'impronta sul muro non era di un misterioso assassino ma della vittima, poteva concentrarsi su Fritz e Williamson. Per prima cosa, però, doveva avvertire i suoi concittadini, potenziali giurati.

Benché in teoria i particolari dell'esumazione dovessero essere tenuti sotto silenzio, Peterson parlò con i giornalisti del"l'Ada Evening News". «Abbiamo trovato nuovi elementi che confermano i nostri sospetti. Stiamo svolgendo ulteriori controlli» dichiarò. Quali nuovi elementi? Peterson non entrò nei particolari, ma indicò una "fonte" disponibile a sbottonarsi di più. Tale "fonte" rivelò che il corpo era stato esumato in maniera da poter procedere a un ulteriore confronto con l'impronta insanguinata. Disse inoltre: «Eliminare la possibilità che fosse stata lasciata da qualcun altro era di fondamentale importanza per le indagini». «Mi sento molto più ottimista» concluse Peterson. Aveva appena ottenuto un mandato di arresto per Ron Williamson e Dennis Fritz. La mattina di venerdì 8 maggio, Rick Carson vide Ron che spingeva la falciatrice con tre ruote lungo una strada nella parte occidentale della città e scambiò due parole con lui. Ron aveva i capelli lunghi, un paio di jeans sdruciti e scarpe da ginnastica. Era a torso nudo e sembrava piuttosto malridotto. Gli disse che stava cercando lavoro e Rick gli promise di prendergli un modulo per fare domanda in comune e di portarglielo a casa quella sera. Poi comunicò ai suoi superiori che l'indagato sarebbe stato nel suo appartamento di West Twelfth Street e l'arresto venne pianificato. Rick chiese di far parte della squadra, per impedire che qualcuno si facesse del male nel caso Ron avesse avuto un accesso d'ira. Tuttavia, la richiesta non venne accolta e ad arrestare Ron furono mandati altri quattro uomini, fra cui l'ispettore Mike Baskin. Lo portarono in centrale senza incidenti. Era ancora a torso nudo, con gli stessi jeans e le stesse scarpe da ginnastica di quella mattina. Mike Baskin gli lesse i suoi diritti e gli chiese se era disposto a parlare. «Certo, perché no?» rispose Ron. Al colloquio presenziò l'ispettore James Fox. Ron disse ripetutamente che non conosceva Debbie Carter, non era mai stato a casa sua e non gli pareva di averla nemmeno mai vista. Nonostante le provocazioni dei poliziotti, i quali continuavano a ripetergli di sapere che era stato lui ad ammazzarla, non si contraddisse neppure una volta. Lo sistemarono in una cella del carcere di contea. Era da almeno un mese che non prendeva farmaci.

Dennis Fritz viveva con la madre e la zia a Kansas City e lavorava come imbianchino. Era andato via da Ada alcuni mesi prima. La sua amicizia con Ron Williamson era ormai un ricordo. Non parlava con gli ispettori da quattro anni e si era quasi dimenticato la storia di Debbie Carter. La sera dell'8 maggio stava guardando la televisione. Aveva lavorato tutto il giorno e indossava ancora la tuta sporca di pittura. Faceva caldo e aveva le finestre aperte. Squillò il telefono e una voce di donna chiese: «Pronto? Parlo con Dennis Fritz?». «Sì, sono io.» Ma la comunicazione si interruppe. Forse era qualcuno che aveva sbagliato numero. Dennis si risedette davanti alla TV. Erano quasi le undici e mezzo, e sua madre e sua zia erano già andate a dormire. Un quarto d'ora dopo sentì sbattere alcune portiere fuori, in strada. Si alzò e, scalzo, andò a vedere che cosa era successo. Un piccolo esercito di soldati vestiti di nero e armati fino ai denti stava entrando nel suo giardino. Ma perché? Per una frazione di secondo pensò di chiamare la polizia. Suonarono alla porta. Aprì e venne subito afferrato da due agenti in borghese, che lo strattonarono chiedendogli se era Dennis Fritz. «Sì, sono io.» «Lei è in arresto per omicidio di primo grado» gli urlò uno, mentre l'altro gli faceva scattare le manette intorno ai polsi. «Quale omicidio?» domandò Dennis. Poi gli venne in mente che forse a Kansas City c'erano diversi Dennis Fritz: doveva esserci stato uno scambio di persona. Arrivò la zia, vide gli agenti speciali vestiti di nero che puntavano le mitragliette contro suo nipote ed ebbe una crisi isterica. Arrivò anche la madre, quando ormai gli agenti erano entrati per "mettere sotto sequestro la casa", anche se non si capiva bene che cosa intendessero con questo, visto che Dennis non possedeva armi da fuoco, né era sospettato di dare asilo a delinquenti accertati o presunti. Ma la procedura è la procedura. Dennis temeva di finire crivellato di proiettili sulla porta di casa. Alzò gli occhi e vide una Stetson bianca accostare vicino al marciapiede. Due incubi del suo passato erano tornati a tormentarlo: Dennis Smith e Gary Rogers. I due ispettori sorridevano contenti. Fu allora che Dennis capì di quale omicidio lo stavano accusando. Gli ispettori di Ada avevano contattato la Fugitive Apprehension Unit di Kansas City, incoraggiandola a fare quell'inutile raid. «Posso mettermi le scarpe, almeno?» chiese Dennis. Persino questo gli venne concesso a fatica.

Lo fecero salire sul sedile posteriore di un'auto della polizia. Dennis Smith gli si sedette accanto, soddisfatto. Alla guida c'era un ispettore di Kansas City. Mentre l'auto si allontanava, Fritz guardò gli uomini delle squadre speciali nel suo giardino. "Che esagerazione!" pensò. Perché non avevano mandato un agente qualunque ad arrestarlo? Nonostante lo spavento, si accorse che anche gli uomini della Fugitive Apprehension Unit erano seccati con gli ispettori di Ada per quell'inutile spiegamento di forze. Sua madre, sulla porta, lo guardò andare via tappandosi la bocca per non piangere. Lo condussero in una delle salette adibite agli interrogatori della stazione di polizia di Kansas City. Smith e Rogers gli lessero i suoi diritti e quindi gli intimarono di confessare. Dennis, pensando a Ward e Fontenot, decise di non lasciarsi intimorire. Smith faceva il poliziotto buono, quello seriamente intenzionato a dare una mano, e Rogers quello cattivo, che imprecava, minacciava e alzava le mani. Erano passati quattro anni dal loro ultimo colloquio nel giugno del 1983, quando gli avevano fatto il secondo test con la macchina della verità, a loro dire andato "molto male". Quella volta Smith, Rogers e Featherstone l'avevano tenuto nel seminterrato del dipartimento di polizia di Ada per tre ore e non erano riusciti a farsi dire niente. Non ci sarebbero riusciti neanche questa. Rogers era furibondo. Erano anni che lui e Smith sapevano che Debbie Carter era stata stuprata e uccisa da Fritz e Williamson. Il caso era risolto, ci voleva solo una confessione. «Non ho niente da confessare» ripeteva invece Fritz. «Che prove avete? Fatemi vedere le prove.» Rogers disse diverse volte: «Questo è un insulto alla mia intelligenza». E, ogni volta, a Fritz veniva da rispondergli: "Quale intelligenza?". Ma non voleva farsi prendere a sberle. Dopo due ore di abusi, disse: «Okay, confesso». Gli ispettori tirarono un sospiro di sollievo: non avendo altre prove, la confessione era indispensabile. Smith corse a prendere un registratore, Rogers predispose carta e penna. «Okay, possiamo cominciare.» Quando furono tutti pronti, Fritz guardò il registratore e disse: «Giuro di dire la verità: non ho ucciso Debbie Carter e non so nulla del suo omicidio». Smith e Rogers andarono su tutte le furie e fecero ricorso a ulteriori insulti e minacce. Fritz era terrorizzato, ma non cedette. Era innocente, non doveva tentennare. E non lo fece. Dopo un po', l'interrogatorio fu sospeso.

Fritz fu trattenuto in carcere e rifiutò l'estradizione in Oklahoma. Il sabato, Ron venne trasferito in centrale per un altro interrogatorio. Lo aspettavano Smith e Rogers, reduci dall'arresto di Fritz e intenzionati a farlo parlare. Quell'interrogatorio era in programma dal giorno precedente l'arresto. Era appena uscito in libreria The Dreams of Ada, in cui i due ispettori venivano aspramente criticati. Fu pertanto deciso che Smith, il quale abitava a Ada, fosse sostituito da Rusty Featherstone, che viveva a Oklahoma City. Fu deciso anche di non effettuare riprese video. Dennis Smith era lì, ma evitò di entrare nella sala dell'interrogatorio. Era il responsabile delle indagini da oltre quattro anni, si diceva convinto che l'assassino fosse Williamson, ma non prese parte all'interrogatorio più cruciale. Il dipartimento di polizia di Ada aveva diverse attrezzature audio e video, che venivano usate di frequente. Tutti gli interrogatori, e specialmente le confessioni, venivano ripresi. La polizia conosceva l'impatto di una confessione filmata sui giurati: bastava vedere com'era andata nel caso di Ward e Fontenot. Quattro anni prima, anche il secondo test di Ron con la macchina della verità era stato ripreso da Featherstone. Quando non si usava la videocamera, si utilizzava comunque un registratore. La polizia ne aveva diversi. Nelle rare occasioni in cui non venivano usate attrezzature né audio né video, l'autore della deposizione, purché non analfabeta, era tenuto a metterla per iscritto. Nel caso non fosse in grado di farlo, a redigere il verbale pensava un agente, che poi glielo leggeva ad alta voce prima di farglielo firmare. Ma il 9 maggio non venne seguita nessuna di queste procedure. Ron Williamson, che era tutt'altro che analfabeta e anzi aveva un vocabolario più vasto dei due ispettori, stette a guardare mentre Featherstone scriveva. Dichiarò di aver compreso i propri diritti e di essere disposto a parlare. Il verbale recita: Williamson dichiara: «Okay, l'8 dicembre 1982, io andavo spesso al Coachlight, e una sera volevo cercarmi una ragazza, una bella ragazza, da seguire fino a casa». Si interrompe e mormora fra i denti qualcosa che suona come un improperio, poi riprende: «Pensavo che poteva succedere di tutto,

quella sera. E l'ho seguita». Williamson si interrompe nuovamente e parla di uno stereo rubato. Poi riprende: «Eravamo io e Dennis. Siamo andati all'Holiday Inn, abbiamo preso una e le abbiamo detto che avevamo un sacco da bere, in macchina. Lei è venuta, ma poi è scappata». Williamson parla a mezze frasi. L'agente Rogers lo invita a concentrarsi e a tornare sul discorso Carter. Williamson dichiara: «Ho sognato di ammazzarla. Ero sopra di lei, le stringevo una corda intorno al collo e la pugnalavo ripetutamente e intanto le stringevo la corda intorno al collo». Williamson continua: «Ho paura per la mia famiglia». Poi aggiunge: «Mia madre è morta». L'agente Rogers chiede a Williamson se lui e Dennis erano a casa della Carter la sera dell'omicidio e Williamson risponde: «Sì». L'agente Featherstone gli domanda: «Siete saliti in casa sua con l'intenzione di ucciderla?». Williamson risponde: «Probabilmente». L'agente Featherstone gliene chiede il motivo. Williamson risponde: «Quella ragazza mi faceva impazzire». «In che senso? Sessualmente?» domanda Featherstone. Williamson risponde: «No». Dopo una breve pausa, riprende: «Mio Dio, non vi aspetterete mica che confessi. Ho una famiglia, ho un nipotino da proteggere. Mia sorella ci rimarrebbe malissimo. Mia madre, buonanima, ormai ha finito di soffrire. Da quando è successo, ci penso sempre». Alle 19.38 Williamson dichiara: «Se mi fate un processo per questa cosa, voglio Tanner, di Tulsa. Anzi, no, voglio David Morris». L'accenno a un avvocato impaurì i due ispettori, che sospesero l'interrogatorio e chiamarono Morris. L'avvocato li invitò a smettere immediatamente di interrogare Ron. Ron non firmò quel verbale. Non gli venne mai neppure mostrato. Armati di un'altra confessione di un sogno, polizia e procura si sentivano più tranquilli. Ward e Fontenot erano la dimostrazione vivente che si poteva celebrare un processo anche senza prove. Persino il fatto che Debbie Carter non fosse stata pugnalata era irrilevante. Bastava scioccare adeguatamente la giuria per avere un verdetto di colpevolezza.

Se la confessione di un sogno poteva essere compromettente per Williamson, per inchiodarlo sarebbe stato meglio avere anche un testimone. Pochi giorni dopo, una guardia carceraria che si chiamava John Christian si fermò davanti alla cella di Ron. Lui e Ron erano cresciuti assieme. I Christian avevano tanti figli, uno aveva la stessa età di Ron e lo invitava spesso a casa, anche a mangiare. Erano compagni di scuola alla Byng, giocavano a baseball per strada e andavano alle partite insieme. Ron non si stava curando ed era tutt'altro che un detenuto modello. Il carcere della contea di Pontotoc era un bunker di cemento senza finestre, con i soffitti bassi. Puzzava costantemente di chiuso e se qualcuno urlava lo sentivano tutti. Ron urlava spesso. Quando non urlava, cantava, piangeva, gemeva, si lamentava, protestava la propria innocenza e blaterava di Debbie Carter. Fu messo in una delle due celle di isolamento, il più lontano possibile dagli altri, ma la struttura era talmente piccola che Ron disturbava tutti ovunque fosse. Solo John Christian riusciva a farlo calmare. I detenuti erano contenti quando era di turno lui, perché stava vicino a Ron e lo tranquillizzava. Parlavano dei vecchi tempi, del baseball, di gente che frequentavano da ragazzi. Parlavano anche del caso Carter, dell'ingiustizia subita da Ron. Ron stava tranquillo, se c'era Christian. La sua cella era minuscola, ma riusciva a dormire e a leggere. Prima di timbrare il cartellino, Christian andava a vedere come stava e invariabilmente lo trovava che fumava, passeggiava nervosamente e si agitava, pronto a mettersi a strepitare all'arrivo dell'altra guardia. La sera del 22 maggio, Ron era sveglio e sapeva che Christian era di turno. Lo chiamò per parlargli dell'omicidio. Aveva una copia di The Dreams of Ada e diceva di aver confessato un sogno pure lui. Secondo Christian, Ron disse: «Immagina per un momento che quello che ho sognato sia successo veramente. Immagina che io fossi a Tulsa, che avessi bevuto e sparato cazzate tutto il giorno e che poi fossi andato al club, avessi bevuto ancora e mi fossi ubriacato del tutto. E che poi mi fossi ritrovato davanti alla porta di Debbie Carter, a bussare e a sentirmi dire di aspettare, che era al telefono. E che allora io avessi buttato giù la porta, l'avessi violentata e uccisa». Williamson disse anche: «Non credi che se fossi stato io ad ammazzarla mi sarei fatto prestare dei soldi dai miei amici e me ne sarei andato via da Ada?». Christian non badò particolarmente a quel racconto, ma lo riferì a un col-

lega. La storia passò di bocca in bocca e alla fine giunse alle orecchie di Gary Rogers, che colse al volo l'occasione di raccogliere nuove prove. Due mesi dopo chiese a Christian di ripetergli il racconto di Ron, scrisse un verbale, cambiò la punteggiatura qua e là e si ritrovò in mano la seconda confessione di un sogno. Al fatto che Ron continuasse a negare qualsiasi coinvolgimento nell'omicidio non si faceva cenno. Come al solito, che i fatti non confermassero la testimonianza fu ritenuto poco importante. Eppure Ron, all'epoca dell'omicidio, non abitava a Tulsa, non aveva la macchina e neppure la patente. 7 Per Annette Hudson e Renee Simmons sapere che il fratello era stato arrestato con l'accusa di omicidio fu devastante. Da quando era uscito di prigione a ottobre, erano preoccupate per la sua salute mentale e fisica, ma non avrebbero mai immaginato una cosa del genere. Sapevano che era stato indagato, ma dopo tanto tempo davano per scontato che la polizia avesse cambiato idea e stesse seguendo altre piste. Prima di morire, due anni prima, Juanita Williamson era convinta di aver fornito a Dennis Smith prove inconfutabili dell'innocenza di Ron. E aveva convinto anche le figlie. Vivevano entrambe in maniera frugale, si occupavano della famiglia, lavoravano saltuariamente e cercavano di risparmiare il più possibile, ma non avevano il denaro per ingaggiare un avvocato che difendesse Ron. Annette andò a parlare con David Morris, il quale però non era interessato al caso. John Tanner stava a Tulsa, a parecchi chilometri, e in ogni caso era troppo caro. Benché a causa di Ron avessero avuto abbastanza a che fare con avvocati e tribunali, erano totalmente impreparate di fronte all'arresto del fratello per omicidio. Gli amici scomparvero, le voci ripresero a girare. Una conoscente disse ad Annette: «Non è colpa vostra. Voi non potete farci niente, se vostro fratello fa certe cose». «Mio fratello non ha fatto proprio niente!» ribatté Annette. Protestavano continuamente l'innocenza di Ron, ma a crederci erano pochi. Avevano un bel dire che un cittadino è presunto innocente fino a prova contraria: perché la polizia avrebbe arrestato Ron, se non fosse stato colpevole? Il figlio di Annette, Michael, che aveva quindici anni, dovette partecipare a una discussione in classe sull'arresto di Ron Williamson e Dennis

Fritz. Siccome il suo cognome era Hudson, pochi sapevano che era il nipote di uno degli arrestati e si espressero senza ritegno. I più erano convinti che i due imputati fossero colpevoli. Annette si recò a scuola il giorno dopo e spiegò la situazione all'insegnante, il quale si profuse in mille scuse. Renee e Gary Simmons vivevano a Chickasha, a circa un'ora da Ada, e quindi furono meno coinvolti. Annette invece era sempre stata a Ada. A volte le veniva voglia di andar via, ma si sentiva in dovere di restare accanto al fratello. Domenica 10 maggio sulla prima pagina "dell'Ada Evening News" apparvero una foto di Debbie Carter e la notizia dei due arresti. A fornire il materiale per l'articolo era stato soprattutto Bill Peterson, il quale confermava che il cadavere era stato esumato e che l'impronta sul muro della camera da letto risultava essere della vittima. Peterson affermava che Fritz e Williamson erano indagati ormai da un anno, ma non spiegava perché. Diceva, sibillino: «Le indagini sono giunte al capolinea circa sei mesi fa e da allora abbiamo cercato di capire come affrontare il problema». Rivelava che alle indagini aveva partecipato anche l'FBI: la polizia di Ada aveva richiesto la sua assistenza due anni prima. Dopo un attento esame delle prove, il Federal Bureau of Investigation aveva fornito il profilo psicologico dell'assassino, ma questo Peterson ai giornali non lo disse. Il giorno seguente apparve un altro articolo in prima pagina sull'arresto dei due presunti assassini di Debbie Carter, questa volta con le facce di Ron e di Dennis. Le foto segnaletiche sono spesso spaventose, ma quelle lo erano in maniera particolare: i due arrestati sembravano davvero efferati criminali. L'articolo riportava molti dei particolari già pubblicati il giorno prima. Ripeteva che Williamson e Fritz erano stati arrestati con l'accusa di violenza carnale e di omicidio di primo grado. Stranamente, i responsabili delle indagini si rifiutavano di rivelare se i due uomini avessero ammesso o negato gli addebiti. Ma forse a Ada le confessioni erano così comuni da indurre i giornalisti a dare per scontato che anche Williamson e Fritz ne avessero resa una. La polizia non fornì alla stampa la confessione del sogno di Ron, ma la dichiarazione che era stata usata per ottenere il mandato di arresto. Secondo l'"Ada Evening News", tale dichiarazione faceva riferimento al fatto che dalle analisi i peli e i capelli ritrovati sul cadavere e sulle lenzuola risultavano "compatibili con quelli di Ron Williamson e Dennis Fritz".

Oltretutto, i due arrestati avevano una lunga serie di precedenti penali. Ron ne contava ben quindici di lieve entità - guida in stato di ebbrezza e simili - e uno più grave - falsificazione di assegni - che gli era costato un periodo di detenzione. Fritz aveva avuto dei problemi per guida in stato di ebbrezza ed era stato condannato per possesso di marijuana. Bill Peterson confermava che era stata effettuata l'esumazione del cadavere per un'ulteriore verifica delle impronte, da cui era emerso che l'impronta della mano lasciata con il sangue sulla parete della camera da letto della vittima apparteneva a Debbie Carter. Aggiungeva che Williamson e Fritz erano "indagati da oltre un anno". L'articolo si concludeva ricordando che Debbie Carter era morta "per asfissia, causata dall'introduzione di uno straccio nella cavità orale durante lo stupro". Il lunedì Ron venne accompagnato dal carcere al palazzo di giustizia, che era a pochi metri di distanza, per la prima udienza davanti al giudice John David Miller. Dichiarò di non avere un avvocato e di non poterselo permettere. Dopo di che, venne riportato in cella. Qualche ora dopo un detenuto che si chiamava Mickey Wayne Harrell disse di aver sentito Ron piangere dicendo: «Scusami, Debbie». Lo riferì alla guardia. Secondo Harrell, Ron gli aveva chiesto anche di tatuargli su un braccio RON LOVES DEBBIE. In carcere le voci cominciarono a girare e molti pensarono di aver trovato l'occasione buona per avere un trattamento di favore: il modo migliore per ottenere uno sconto di pena, se non addirittura la libertà, era dire di aver sentito un indagato in attesa di giudizio confessare la propria colpevolezza. In genere, i detenuti ci pensavano due volte prima di parlare, perché temevano che il detenuto si vendicasse, ma a Ada erano in molti a fare la spia: lì, il gioco valeva sempre la candela. Ron tornò in tribunale a distanza di due giorni per discutere il problema del suo avvocato. Comparve davanti al giudice John David Miller e le cose non andarono molto bene. Ron non si stava curando ed era aggressivo e agitato. Esordì dicendo: «Non ho ammazzato nessuno, io! Sono stufo e arcistufo di queste accuse! Mi dispiace per Debbie Carter e la sua famiglia, però...». Il giudice cercò di fermarlo, ma Ron non volle sentire ragioni: «Non sono stato io a farla fuori! Non so chi sia stato. Mia madre era ancora viva,

all'epoca: l'ha detto mille volte che quella sera io ero con lei». Miller cercò di spiegargli che quell'udienza non aveva lo scopo di sentire le sue argomentazioni, ma Ron era inarrestabile. «Dovete lasciarmi andare» continuava a dire. «È assurdo che mi teniate qui.» Il giudice Miller gli domandò se gli erano chiari i capi di imputazione che lo riguardavano. Ron rispose: «Sono innocente. Non ho mai visto Debbie Carter, non sono mai stato in macchina con lei!». Gli vennero letti i suoi diritti, ma Ron continuava imperterrito: «Sono stato dentro tre volte, e tutte e tre le volte è saltato fuori qualcuno che diceva che l'assassino ero io». Appena sentì nominare Dennis Fritz, esclamò: «Non c'entra niente neanche lui. Lo vedevo spesso, allora. Non andava al Coachlight». Alla fine il giudice mise a verbale che l'imputato si dichiarava non colpevole. Ron venne portato via imprecando. Annette pianse tutto il tempo. Andava a trovarlo tutti i giorni, anche due volte al giorno, se le guardie glielo permettevano. Le conosceva tutte e loro, conoscendo Ron, spesso facevano una piccola eccezione al regolamento. Ron continuava a non prendere farmaci, era disturbato e aveva disperatamente bisogno di cure. Era arrabbiato e amareggiato per l'ingiustizia subita. Era umiliato dall'accusa di omicidio. Erano quattro anni e mezzo che lo sospettavano di aver commesso un orribile delitto. Già questo era insopportabile, visto che Ada era la sua città, dove vivevano tutti i suoi amici, i fedeli della congregazione, i fan che lo ricordavano come un grande atleta. Sussurri e occhiate gli facevano male. Le aveva sopportate per anni, adesso basta: bisognava che la verità saltasse fuori. Era innocente e la sua reputazione doveva essere ristabilita. Era stato arrestato e mandato in prigione, la sua foto era apparsa su tutti i giornali, ma lui non aveva fatto niente. Non era sicuro nemmeno di conoscere Debbie Carter. Mentre era in carcere a Kansas City in attesa che venisse deciso se estradarlo o meno a Ada, Dennis Fritz rifletté a lungo. Per ironia della sorte, quattro anni prima aveva perso la moglie in un efferato omicidio e adesso era accusato di averne commesso uno lui stesso. Lui, che per anni si era sentito una vittima, che non aveva mai fatto niente a nessuno? Era basso, mingherlino, mite e contrario alla violenza. Se in qualcuno dei bar malfamati che frequentava scoppiava una rissa, lui si defilava sempre. Ron ci si buttava a pesce, quando non attaccava briga lui per

primo, ma Dennis no. Mai. E adesso, solo perché era amico di Ron, era in carcere con l'accusa di omicidio. Scrisse una lunga lettera "all'Ada Evening News", spiegando i motivi per cui era contrario all'estradizione. Non voleva finire nuovamente fra le grinfie di Smith e Rogers e non riusciva ancora a credere di dover rispondere dell'accusa di omicidio. Era innocente, non aveva nulla a che fare con la morte della Carter e voleva dimostrarlo. A tal fine stava cercando un bravo avvocato, nella speranza che i suoi familiari riuscissero a mettere insieme abbastanza soldi per pagarlo. Riferì come era finito nei guai: non avendo nulla da nascondere ed essendo disponibile a collaborare, aveva fatto tutto quello che la polizia gli aveva chiesto. Aveva fornito impronte digitali, campioni biologici e grafologici. Si era persino sottoposto a due prove con la macchina della verità che l'ispettore Smith gli aveva detto essere andate "molto male", quando invece non erano andate male per niente. A proposito delle indagini, scriveva: "La polizia aveva le mie impronte digitali, i miei campioni biologici e grafologici da tre anni e mezzo. Se ci fosse stata corrispondenza con quelli repertati durante il sopralluogo sulla scena del crimine, mi avrebbero arrestato molto tempo prima. Invece il vostro giornale ha scritto che sei mesi fa le indagini erano "giunte al capolinea" e che la polizia doveva decidere come affrontare il problema. So bene che non ci sono voluti tre anni e mezzo per analizzare i campioni biologici che ho volontariamente fornito alla polizia all'epoca dell'omicidio". Ex professore di scienze, aveva fatto qualche ricerca sulle analisi tricologiche, dopo aver fornito peli e capelli alla polizia. Nella sua lettera scriveva: "Come posso essere imputato di stupro e omicidio sulla base di un esame che al massimo può stabilire l'etnia di appartenenza del donatore, ma non consente di risalire a caratteristiche individuali più specifiche? Qualsiasi esperto in materia sa che la corrispondenza di un capello o di un pelo può riguardare oltre mezzo milione di persone". Concludeva proclamandosi innocente, con la domanda: "Sono innocente finché non verrò dichiarato colpevole o colpevole finché non verrò dichiarato innocente?". Nella contea di Pontotoc non c'erano avvocati d'ufficio a tempo pieno. Quando un imputato si dichiarava nullatenente, il giudice ne affidava la difesa a uno dei legali della città, per un compenso molto modesto.

Non sono molti i benestanti che finiscono nei guai per certi reati. La maggior parte degli imputati chiamati a rispondere di rapina, spaccio o aggressione a mano armata era nullatenente, e in genere anche colpevole, per cui gli avvocati nominati d'ufficio a rappresentarli svolgevano qualche indagine, chiedevano il patteggiamento e chiudevano la pratica il prima possibile. Il compenso era talmente basso che cercavano tutti di evitare quel genere di incarico. Il sistema che assicurava la difesa a tutti i cittadini non funzionava molto bene e aveva budget limitatissimi. Non c'erano fondi per perizie e indagini e spesso i giudici nominavano avvocati con scarsissima esperienza. Quando poi il reato era grave, punibile con la pena di morte, il fuggifuggi era generale: il difensore si ritrovava addosso gli occhi di tutti e doveva lavorare più ore dell'orologio. Se il suo era uno studio piccolo, rischiava addirittura di dover respingere i clienti. Il compenso era sproporzionato rispetto alla mole di lavoro, e la procedura di appello andava avanti per anni. Se nessuno accettava l'incarico, il giudice era costretto a obbligare qualcuno. Così, quando un imputato accusato di omicidio di primo grado si dichiarava nullatenente, i corridoi del palazzo di giustizia improvvisamente si svuotavano. Tutti gli avvocati scappavano nei loro studi, chiudevano la porta a chiave e staccavano il telefono. Uno dei personaggi più pittoreschi del tribunale di Ada era l'avvocato Barney Ward. Non vedente, era noto per il suo abbigliamento raffinato, per le sue storie grandiose e per i pettegolezzi: Ward amava infatti essere sempre al corrente di tutto quello che succedeva in tribunale. Aveva perso la vista alle superiori, nel corso di un esperimento di chimica, ma non si era scoraggiato e aveva finito il liceo. Si era poi iscritto all'East Central University e si era laureato con l'aiuto di sua madre, che gli leggeva i libri di testo. Era quindi andato a Norman e si era specializzato alla University of Oklahoma, di nuovo con l'aiuto della madre. Passato l'esame di Stato, era tornato a Ada e aveva fatto il concorso per diventare procuratore di contea. L'aveva vinto e per diversi anni aveva lavorato in procura. Verso la metà degli anni Cinquanta, aveva aperto uno studio privato e nel giro di poco tempo si era guadagnato la reputazione di ottimo penalista. Intuiva sempre i punti deboli dell'avversario ed era molto bravo negli interrogatori, in cui sapeva essere feroce.

Si diceva che in un'occasione avesse addirittura tentato di dare un pugno all'avvocato della controparte. Stavano discutendo sul materiale probatorio ed erano tutti e due molto nervosi. A un certo punto David Morris aveva commesso l'errore di dire: «Senta, lo vedrebbe anche un cieco» e Barney Ward gli aveva sferrato un pugno, mancandolo per un pelo. Si era calmato subito e Morris si era scusato. Ma da lì in poi si era tenuto a distanza. Barney era conosciuto da tutti e girava spesso per il palazzo di giustizia con la sua fida assistente Linda, che gli leggeva gli atti e prendeva appunti in sua vece. Ogni tanto lo si vedeva con un cane guida, ma in genere preferiva farsi accompagnare da una bella signorina. Socievole e cordiale, non dimenticava mai una voce. Era stato presidente dell'ordine degli avvocati locale, e non era stato eletto per compassione. Era molto amato e veniva persino invitato a giocare a poker. Pare che la prima volta si fosse portato un mazzo di carte in braille, avesse detto che poteva servire soltanto lui e avesse vinto una partita via l'altra. A un certo punto gli altri giocatori si erano ribellati e avevano preteso di servire a turno. Le vincite di Barney erano diminuite. Barney partecipava ogni anno a una battuta di caccia, una settimana fra soli uomini a base di bourbon, poker, barzellette sporche e mangiate luculliane, in cui ogni tanto si andava anche a caccia. Il suo sogno era abbattere un cervo. I suoi amici gliene trovarono uno in un bosco e gli misero silenziosamente il fucile in mano, prendendo la mira per lui e suggerendogli quando premere il grilletto. Barney sparò e lo mancò clamorosamente, ma i suoi amici gli assicurarono che la bestia era scappata per un pelo. Barney lo raccontava a tutti. Come molti forti bevitori, a un certo punto dovette smettere. Girava voce che, quando aveva smesso di bere, avesse dovuto cambiare cane guida perché quello che aveva lo portava sempre in una certa enoteca. E che l'enoteca fosse ben presto fallita, avendo perso lui come cliente. Si diceva che fosse molto attaccato ai soldi e che si spazientisse presto con chi saldava in ritardo le sue parcelle. Il suo motto era: «Colpevoli o innocenti, l'importante è che paghino». A metà degli anni Ottanta, era in netto declino. A volte si addormentava in aula. Usava grossi occhiali neri che gli coprivano mezza faccia e nessuno si accorgeva se sonnecchiava. I suoi avversari cominciarono ad approfittarne. Sapendo che dopo mangiato a Barney veniva sonno, cercavano di tirarla per le lunghe: dopo le tre del pomeriggio, le chance di batterlo erano molto più alte.

Due anni prima era stato contattato dalla famiglia di Tommy Ward, con cui non aveva rapporti di parentela, ma aveva cortesem*nte rifiutato. Era convinto che Ward e Fontenot fossero innocenti, ma evitava per principio i reati punibili con la pena di morte. C'era troppo da scrivere, e scrivere non era certo il suo forte. Fu di nuovo contattato per difendere Ron Williamson, questa volta dal giudice John David Miller. Barney era il penalista più esperto della contea e quello era un caso che richiedeva grande esperienza. Dopo una breve riflessione, accettò. Conosceva molto bene la Costituzione e credeva che tutti i cittadini, anche i più odiati e malvisti, avessero diritto a una difesa adeguata. Così, il 1° giugno 1987 venne nominato dal tribunale legale rappresentante di Ron Williamson. Era la prima volta che difendeva un imputato che rischiava la pena capitale. Annette e Renee erano contente: conoscevano Ward e sapevano che aveva fama di essere uno dei più bravi penalisti della città. I rapporti fra lui e Ron furono difficili da subito. Ron era stufo del carcere e il carcere era stufo di Ron. Le visite si tenevano in una stanzetta vicino all'ingresso, che Barney Ward trovava un po' troppo piccola, data l'agitazione del suo nuovo cliente. Gli mandò uno psichiatra e Ron ricominciò a prendere il Thorazine, per la gioia del suo avvocato e di tutto il carcere di contea. Quel farmaco funzionava talmente bene che le guardie ne approfittarono. Per stare tranquille, gli aumentavano lievemente la dose e lo facevano dormire come un bambino. Una volta, però, Barney non riuscì a parlare con Ron da quanto era intontito. Andò a dirne quattro alle guardie, il dosaggio venne cambiato e Ron si risvegliò dal torpore. Tendeva a non collaborare con il suo avvocato e gli diceva poco o niente, a parte che era innocente. Sosteneva di essere vittima di un'ingiustizia, come Tommy Ward e Karl Fontenot. Barney era tutt'altro che contento, ma continuò a occuparsi del caso. Glen Gore era in carcere per sequestro di persona e atti di violenza. Il suo avvocato d'ufficio era Greg Saunders, che aveva appena aperto uno studio a Ada. Durante un colloquio, lui e Gore erano quasi arrivati alle mani. Saunders allora era andato dal giudice Miller a chiedergli di essere sostituito. Miller aveva detto di no e Saunders si era impegnato ad accettare la difesa di un indigente imputato di un reato punibile con la pena capi-

tale, pur di non aver più a che fare con Gore. Così Miller gli aveva affidato la difesa di Dennis Fritz. Saunders era preoccupato per l'importanza del processo, ma anche emozionato all'idea di lavorare fianco a fianco con Barney Ward. Quando studiava alla East Central University, sognava di fare il penalista e spesso saltava le lezioni per andare a vedere Barney Ward all'opera. Lo aveva visto mettere in soggezione testimoni e pubblici ministeri. Barney Ward rispettava i giudici ma non li temeva e sapeva farsi ascoltare dai giurati. Non accennava quasi mai al proprio handicap, ma quando serviva per ispirare compassione non aveva scrupoli a farlo. Insomma, Greg Saunders lo trovava un grande avvocato. I due, lavorando indipendentemente ma a stretto contatto, presentarono una serie infinita di mozioni e in breve sommersero di carte la procura distrettuale. L'11 giugno, il giudice Miller presenziò un'udienza per dirimere le questioni sollevate da accusa e difesa. Barney Ward voleva l'elenco dei testimoni dell'accusa. La legge dell'Oklahoma prevedeva che i testimoni fossero noti alla controparte, ma Bill Peterson evidentemente lo ignorava, perché si rifiutava di accontentarlo. Barney insisteva, ma il pubblico ministero voleva dargli solo i nomi dei testimoni che intendeva convocare all'udienza preliminare. Miller non glielo concesse: Peterson doveva notificare tempestivamente alla difesa i nominativi di tutti i testimoni. Barney era determinato, tanto che si vide accordare quasi tutte le istanze presentate. Ma era anche assai frustrato. Fu sentito dire a mezza voce che non voleva perdere troppo tempo su quel caso. Gli era stato affidato d'ufficio e lui si era impegnato a svolgere un buon lavoro, ma non voleva farsi assorbire eccessivamente. Il giorno dopo presentò una mozione in cui richiedeva un assistente nella difesa di Ron. Il pubblico ministero non obiettò e il 16 giugno il giudice Miller gli affiancò Frank Barber. E così le parti si prepararono all'udienza preliminare. Dennis Fritz venne sistemato in una cella non lontana da quella di Ron Williamson. Non lo vedeva, ma di sicuro lo sentiva. Se non prendeva una dose massiccia di farmaci, Ron urlava e strepitava costantemente. Stava ore attaccato alle sbarre a urlare che era innocente. La sua voce profonda e rauca rimbombava per l'angusto edificio. Era come un leone in gabbia, ferito, disperatamente bisognoso di aiuto. I detenuti erano stressati già di per sé e le urla di Ron li mandavano in paranoia.

Spesso gli rispondevano, oppure lo provocavano, chiedendogli di Debbie Carter. A volte quegli scambi erano divertenti, ma il più delle volte facevano venire il nervoso e basta. Le guardie provarono a spostare Ron dall'isolamento a una cella comune, ma i risultati furono disastrosi. La privacy era minima, i detenuti erano praticamente spalla a spalla e Ron non rispettava gli spazi. I suoi compagni firmarono una petizione chiedendo che venisse rimesso in isolamento. Per evitare che scoppiasse una rissa o che qualcuno ci rimettesse la pelle, le guardie acconsentirono. C'erano anche lunghi periodi di silenzio in cui tutti, sia i detenuti sia le guardie, respiravano tranquilli. Tutto il carcere allora capiva che era di turno John Christian o che le guardie avevano dato a Ron una pillola in più di Thorazine. Il Thorazine lo faceva stare zitto, ma gli provocava anche una serie di effetti collaterali, per esempio prurito e agitazione psicomotoria. Ron stava ore in piedi davanti alle sbarre, agitatissimo. Dennis cercava invano di parlargli e di calmarlo. Le grida di innocenza di Ron erano penose da sentire, specie per lui che lo conosceva bene. Era evidente che Ron aveva bisogno di qualcosa di più di un paio di pillole. I neurolettici sono tranquillanti e antipsicotici, e vengono somministrati soprattutto ai malati di schizofrenia. Il Thorazine è un neurolettico potente che riduce drasticamente l'interesse e la consapevolezza di sé. Cominciò a diffondersi negli ospedali psichiatrici statali negli anni Cinquanta. Alcuni psichiatri sostengono che abbia effetti curativi, in quanto agisce a livello chimico sul cervello, ma i più riferiscono un elenco spaventoso di effetti collaterali come torpore, sonnolenza, difficoltà di concentrazione, incubi notturni, difficoltà emotive, depressione, disperazione, assenza di interesse verso l'ambiente circostante, perdita di consapevolezza di sé e riduzione del controllo psicomotorio. Il Thorazine ha inoltre un'azione tossica e provoca il deterioramento di molte funzioni cerebrali. È stato addirittura definito "una lobotomia chimica", utile solo a rendere più facilmente gestibili i malati rinchiusi in istituti mentali e carceri, e quindi a risparmiare fondi. A Ron veniva somministrato dalle guardie carcerarie, spesso su indicazione del suo avvocato, senza alcuna supervisione. Tutte le volte che si metteva a urlare, gliene davano uno. Sebbene Dennis Fritz fosse sempre rimasto a Ada nei quattro anni segui-

ti alla morte di Debbie Carter, venne considerato soggetto ad alto rischio di fuga e gli venne fissata una cauzione esorbitante, come a Ron. Benché il sistema giudiziario americano preveda che i cittadini vadano considerati innocenti finché non è stata dimostrata la loro colpevolezza, Ron Williamson e Dennis Fritz rimasero in carcere quasi un anno in attesa di giudizio, per evitare che si dessero alla macchia o commettessero altri delitti. Pochi giorni dopo l'arrivo di Dennis Fritz, fuori della sua cella si materializzò un certo Mike Tenney. Grasso, pelato, ignorante e dotato di scarsa eloquenza, Tenney aveva però un sorriso aperto, era simpatico e trattava Dennis come se fossero amici da sempre. Cercava di farlo parlare dell'omicidio Carter. Dennis sapeva che le carceri pullulavano di spie, bugiardi e tagliagola, e che ogni parola che usciva dalla sua bocca rischiava di essere distorta e usata contro di lui al processo. Tutti i detenuti, le guardie carcerarie, e persino i cuochi e gli inservienti erano dei potenziali informatori, ansiosi di farsi dire qualcosa e fare la spia. Tenney disse di essere un secondino, ma in realtà non era ancora stato assunto. Gli dava molti consigli, non richiesti e soprattutto infondati. Sosteneva che Dennis era in grave pericolo e rischiava l'iniezione letale: gli conveniva parlare, dire tutto, confessare e cercare di patteggiare la pena, anche a costo di dare tutta la colpa a Ron Williamson. Peterson ne avrebbe tenuto conto. Dennis ascoltava e taceva. Tenney insisteva. Andava da lui tutti i giorni, scuoteva la testa preoccupato e dispensava consigli non richiesti. Dennis ascoltava e taceva. L'udienza preliminare era fissata il 20 luglio. Il giudice era John David Miller. Come in molte altre giurisdizioni, anche in Oklahoma le udienze preliminari avevano importanza cruciale in quanto il pubblico ministero doveva mostrare le carte, dichiarare quali testimoni intendeva convocare e per quali motivi. Naturalmente, cercava sempre di scoprirsi il meno possibile, presentando il numero di prove sufficienti a ottenere il rinvio a giudizio e non una di più. Ma era una strategia che comportava un certo rischio. Non molto, per la verità, visto che i giudici che archiviavano troppe cau-

se tendevano a non essere rieletti. Tuttavia, le prove contro Fritz e Williamson erano davvero esigue e Bill Peterson non poteva fare a meno di scoprirsi: aveva talmente poco che non poteva tenersi assi nella manica per il processo. All'udienza preliminare sarebbero stati presenti anche i giornalisti, ansiosi di riportare ogni sua parola. A tre mesi dalla pubblicazione, The Dreams of Ada era ancora ampiamente dibattuto. L'udienza del 20 luglio sarebbe stata la prima apparizione di Peterson in un processo di rilievo dopo l'uscita del libro. Quel giorno, l'aula era gremita. C'erano la madre di Dennis Fritz, Annette Hudson e Renee Simmons, ma anche Peggy Stillwell, Charlie Carter e le due sorelle di Debbie. C'erano inoltre molti curiosi, avvocati annoiati, impiegati sfaccendati, pettegoli di vario genere, pensionati senza altro da fare: tutti volevano vedere i due assassini. Anche se era solo un'udienza preliminare, valeva la pena di sentire che cosa avevano da dire. Appena prima dell'inizio, per puro divertimento, la polizia disse a Ron che Fritz aveva confessato che erano stati loro due a stuprare e uccidere la Carter. La notizia gettò Ron nello sconforto più assoluto. Dennis era seduto al tavolo della difesa con Greg Saunders a guardare alcuni documenti in attesa dell'inizio dell'udienza. Ron era seduto lì accanto, catene ai polsi e alle caviglie, e lo guardava come se avesse voluto strangolarlo. Improvvisamente si alzò in piedi e cominciò a urlargli di tutto, rovesciando il tavolo addosso all'assistente di Barney. Dennis arretrò verso il banco dei testimoni. Intervennero le guardie. «Brutto figlio di buona donna!» gridava Ron. «Ce la dobbiamo vedere, io e te!» La sua voce profonda e rauca riecheggiava spaventosa nell'aula. Barney cadde dalla sedia e si fece male. Ron si dibatteva e scalciava come un ossesso mentre le guardie cercavano di bloccarlo. Dennis, Greg Saunders e tutti gli altri osservavano a distanza di sicurezza, sgomenti. Ci vollero parecchi minuti prima che finalmente le guardie riuscissero a calmarlo, anche perché Ron era più grosso di loro ed era fuori di sé. Mentre lo trascinavano via, continuò a vomitare insulti e minacce. Quando tavoli e sedie vennero rimessi a posto e fu ristabilito l'ordine, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Barney non aveva visto niente, ma aveva sentito tutto. Si alzò in piedi e dichiarò: Chiedo alla Corte il permesso di ritirarmi dalla difesa e desidero che venga messo a verbale. L'imputato non collabora. Non lo rappresente-

rei neppure se non mi fosse stato affidato d'ufficio. Non posso difenderlo, è un'impresa superiore alle mie possibilità. Non so se esista qualcuno in grado di farlo, ma di certo io no. Qualora la Corte si rifiutasse di concedermi l'esonero, lo chiederò alla Corte d'appello. Non intendo andare avanti così. Sono troppo vecchio per queste cose. Non voglio avere più nulla a che fare con Williamson. Non ho idea se sia o meno colpevole, non è questo. Il fatto è che quell'uomo è capace di tutto, ed è incontrollabile. È un problema suo, d'accordo, ma è anche mio. Il giudice Miller non accolse la sua richiesta. Per Annette e Renee era doloroso vedere il fratello dare in escandescenze in tribunale e farsi portare via in catene. Ron era malato, aveva bisogno di assistenza, di un lungo ricovero in qualche casa di cura dove potesse ricevere cure adeguate. Come potevano processarlo, quando era evidente che stava male? Peggy Stillwell, poco lontano, rabbrividiva al pensiero della violenza che quel pazzo doveva aver inflitto alla sua povera figlia. Dopo una breve pausa, il giudice Miller ordinò che Williamson venisse riaccompagnato in aula. Fuori, le guardie gli avevano spiegato che non ci si poteva comportare così in tribunale e che, se avesse continuato, il giudice avrebbe preso severi provvedimenti. Ma appena lo riportarono dentro e vide Dennis Fritz, Ron ricominciò a insultarlo. Il giudice allora lo spedì in cella, mandò via tutti gli spettatori e decretò un'ora di pausa. Le guardie ripeterono i loro ammonimenti. Ron non li stette nemmeno a sentire. Le confessioni fasulle erano fin troppo frequenti nella contea di Pontotoc, ma lui non riusciva a credere che la polizia fosse riuscita a estorcerne una anche a Dennis Fritz. Era innocente, non voleva fare la fine di Ward e Fontenot. Se fosse riuscito a mettere le mani al collo di Dennis, gli avrebbe fatto dire la verità. La sua terza entrée fu identica alle prime due. Appena ebbe messo piede in aula, Ron urlò: «Fritz, adesso chiariamo questa faccenda, io e te». Il giudice lo interruppe, ma Ron non lo stette neanche a sentire: «Dobbiamo chiarirla una volta per tutte» gridò a Dennis. «Io non ho ucciso nessuno!» «Trattenetelo» ordinò Miller alle guardie. «Signor Williamson, o la

smette di gridare, oppure l'udienza si svolgerà senza di lei.» «Non me ne frega niente» fu la sua risposta. «Lei capisce che...» «Anzi, preferisco, se la fate senza di me. Fatemi tornare in cella.» «Rinuncia al suo diritto di presenziare a questa udienza preliminare?» «Sì.» «È una sua scelta, nessuno l'ha costretta o minacciata...» «Sono io a minacciare!» interruppe Ron, lanciando un'occhiataccia a Dennis. «Dunque lei non è stato minacciato e sceglie liberamente di rinunciare al diritto di...» «Ho detto che sono io quello che minaccia!» «D'accordo. Lei non vuole prendere parte a questa udienza, dico bene?» «Dice bene.» «Okay, potete riportarlo nel carcere di contea. Sia messo a verbale che il signor Ronald K. Williamson rinuncia liberamente a presenziare all'udienza e che la Corte ritiene opportuno procedere senza di lui a causa della sua intemperanza e dei suoi accessi di collera.» Ron tornò in cella e l'udienza preliminare cominciò in contumacia. Nel 1956 la Corte suprema degli Stati Uniti, nella causa "Bishop contro gli Stati Uniti d'America", deliberò che la condanna di un cittadino mentalmente incapace costituisce violazione del diritto costituzionale. Ove sussista un dubbio circa le capacità mentali dell'imputato, perché il processo sia giusto occorre procedere a un accertamento. Ron era in carcere da due mesi e nessuno - né dell'accusa né della difesa - aveva mai messo in dubbio le sue capacità mentali. Eppure era evidente che aveva dei problemi. Esistevano cartelle cliniche e referti medici che lo dimostravano e la sua condotta in carcere, benché migliorata con la somministrazione selvaggia di psicofarmaci, era in sé prova sufficiente di un disagio mentale. Inoltre, a Ada tutti sapevano che era "strano", polizia compresa. E non era la prima volta che dava in escandescenze in tribunale. Nel procedimento a suo carico per la sospensione degli arresti domiciliari, due anni prima, si era lasciato andare al punto che il giudice aveva ordinato una perizia psichiatrica. Peraltro, era lo stesso che adesso presiedeva l'udienza preliminare: John David Miller. All'epoca, Miller aveva dichiarato Ron mentalmente incapace. Adesso

non sentiva il bisogno di valutare il suo stato di salute mentale, benché rischiasse la pena capitale. La legge dell'Oklahoma consente ai magistrati di sospendere il procedimento qualora le capacità mentali dell'imputato siano dubbie, anche senza che la difesa ne faccia richiesta. In genere è il difensore che si appella ai problemi mentali del suo assistito e chiede la perizia psichiatrica, ma anche ove questo non accada il giudice ha il dovere di tutelare i diritti costituzionali dell'imputato. Barney Ward avrebbe dovuto segnalare al giudice le condizioni del suo assistito. Avrebbe dovuto chiedere una perizia psichiatrica e un accertamento delle sue capacità mentali, come aveva fatto David Morris due anni prima. Avrebbe potuto basare la sua difesa sull'infermità mentale. Invece l'udienza preliminare si svolse in contumacia. Andò avanti diversi giorni, senza Ron e senza che a nessuno venisse in mente di chiedersi se fosse mentalmente in grado di difendersi o meno. Il primo teste fu il dottor Fred Jordan, che riferì i risultati dell'esame autoptico. Debbie Carter era morta per asfissia, provocata dallo straccio che le era stato infilato in bocca e/o dalla cintura che le era stata stretta intorno al collo. Le menzogne cominciarono con il secondo teste, Glen Gore, il quale dichiarò di aver trascorso la sera del 7 dicembre al Coachlight in compagnia di alcuni amici, fra cui Debbie Carter, che conosceva da una vita e che era stata sua compagna di scuola alle superiori. A un certo punto, la ragazza gli aveva chiesto di "salvarla" da Ron Williamson, anche lui presente nel locale, che le stava dando fastidio. Non aveva visto Dennis Fritz al Coachlight quella sera. Nel corso del controinterrogatorio, Gore disse di aver dichiarato tutto questo alla polizia il giorno 8 dicembre. Il relativo verbale, tuttavia, non nomina neppure Ron Williamson. Purtroppo, benché la procedura lo esigesse, non era stato consegnato alla difesa. La testimonianza di Glen Gore era l'unica prova diretta contro Ron Williamson: lo metteva vicino alla vittima, in conflitto con lei, a poche ore dalla sua morte. Tutte le altre prove erano solo indiziarie. Solo un procuratore determinato come Bill Peterson poteva avere la faccia tosta di fare affidamento su un criminale come Gore, che venne accompagnato in aula in catene, essendo stato condannato a quarant'anni di

reclusione per effrazione, sequestro di persona e tentato omicidio ai danni di un pubblico ufficiale. Cinque mesi prima, infatti, si era introdotto abusivamente nell'abitazione della sua ex moglie, Gwen, e aveva preso in ostaggio lei e la figlia. Ubriaco, le aveva minacciate per cinque ore consecutive con la pistola in pugno e quando un poliziotto, Rick Carson, si era avvicinato alla finestra per sbirciare dal vetro, aveva preso la mira e gli aveva sparato in faccia. Fortunatamente, Carson se l'era cavata con lesioni non gravi. Prima di arrendersi, Gore aveva sparato a un altro poliziotto. Non era la prima volta che litigava furiosamente con Gwen. Nel 1986, quando il loro tormentato matrimonio era appena finito, Gore si era introdotto di soppiatto in casa sua e l'aveva ripetutamente colpita con un coltello da macellaio. Era stato accusato di effrazione, aggressione e atti di violenza. La moglie l'aveva denunciato per atti di violenza anche due mesi prima: Gore aveva tentato di strangolarla. Nel 1981 c'era stata un'altra denuncia per effrazione e ai tempi dell'esercito diverse condanne per aggressione e atti di violenza. Insomma, la fedina penale di Gore era tutt'altro che pulita. Una settimana dopo essere stato incluso nell'elenco dei testimoni contro Ron Williamson, Gore chiese di patteggiare la pena. L'accusa di sequestro di persona e atti di violenza gli vennero derubricate quasi subito. I genitori della sua ex moglie scrissero al giudice per protestare: Vogliamo che la Corte sappia che quest'uomo secondo noi è estremamente pericoloso. E determinato a uccidere nostra figlia, nostra nipote e noi. Ce l'ha detto e ripetuto. Abbiamo installato numerosi dispositivi di sicurezza in casa di nostra figlia, ma non è servito. Elencare tutte le volte che l'ha aggredita sarebbe troppo lungo. Preghiamo pertanto la Corte di concedere a nostra nipote abbastanza tempo da poter crescere tranquilla, prima che suo padre esca di nuovo di prigione e rovini la vita a tutti quanti. Barney Ward sospettava da anni che fosse stato Glen Gore a uccidere Debbie Carter. Gore era un criminale, era violento con le donne ed era l'ultima persona a essere stata vista assieme alla vittima. Non si capiva perché la polizia non si fosse concentrata su di lui. Le sue impronte non erano mai state mandate all'OSBI. I laboratori avevano ricevuto le impronte digitali di quarantaquattro persone, ma non le

sue. A un certo punto Gore aveva accettato di sottoporsi a un test con la macchina della verità, che però non era mai stato effettuato. La polizia di Ada aveva perso i campioni biologici da lui forniti due anni dopo l'omicidio. Gli era stato chiesto di fornirne altri in un'occasione, o forse due, nessuno lo ricordava con esattezza. Barney, con la sua straordinaria abilità di ascoltare e ricordare tutto ciò che si mormorava per i corridoi del palazzo di giustizia, era fermamente convinto che la polizia avrebbe dovuto indagare più a fondo su Glen Gore. E sapeva anche che il suo assistito, Ron Williamson, non era colpevole. Il mistero fu parzialmente spiegato quattordici anni dopo. Gore, ancora in carcere, dichiarò per iscritto che all'inizio degli anni Ottanta aveva spacciato sostanze stupefacenti a Ada, soprattutto metamfetamina. Nel suo giro figuravano alcuni esponenti delle forze dell'ordine cittadine, e specificamente un tal Dennis Corvin, che Gore definiva "uno dei suoi principali fornitori". Corvin andava spesso all'Harold's Club, dove Gore lavorava. Quando Gore era troppo in ritardo con i pagamenti, lo arrestavano con dei pretesti, ma in genere lo lasciavano in pace. Nella sua dichiarazione giurata, Gore scriveva: "All'inizio degli anni Ottanta mi rendevo conto di ricevere un trattamento di favore dalla polizia di Ada per via dei traffici che avevo con alcuni suoi esponenti". E poi: "Il trattamento di favore finì quando smisi di trafficare con la polizia". Gore imputava la sua condanna a quarant'anni di detenzione al fatto di non avere più "traffici con i poliziotti di Ada". Nella stessa dichiarazione, Gore affermava inoltre di non sapere se Ron Williamson fosse o meno al Coachlight la sera dell'omicidio di Debbie Carter. La polizia gli aveva fatto vedere alcune foto, gli aveva indicato quella di Ron e gli aveva spiegato che era l'uomo che cercava. "Mi chiesero senza troppi giri di parole di identificare il signor Williamson." E ancora: "A tutt'oggi non so se Ron Williamson fosse o meno in quel locale la sera della scomparsa di Debbie Carter. Ho detto che c'era perché sapevo che questo voleva da me la polizia". La dichiarazione giurata venne rivista dal legale rappresentante di Gore prima che questi la firmasse. Il testimone successivo fu Tommy Glover, cliente abituale del Coachlight e una delle ultime persone ad aver visto viva Debbie Carter. All'i-

nizio aveva dichiarato di averla notata parlare con Glen Gore nel parcheggio e spingerlo via prima di andarsene con la propria vettura. Quattro anni e sette mesi dopo, però, ricordava le cose in maniera diversa. All'udienza preliminare, Glover dichiarò infatti di aver visto Gore parlare con la Carter e poi questa salire in macchina e allontanarsi. Allo spintone non fece cenno. Il teste successivo, Charlie Carter, raccontò il ritrovamento del cadavere della figlia la mattina dell'8 dicembre 1982. Jerry Peters, il perito dell'OSBI, si trovò in difficoltà poco dopo essere salito sul banco dei testimoni. Barney Ward gli chiese come mai aveva cambiato idea riguardo all'impronta della mano sulla parete della camera da letto. Nel marzo del 1983 aveva espresso un'opinione con grande sicurezza, nel maggio del 1987 se l'era rimangiata: che cosa l'aveva spinto a rivedere la sua posizione? Il fatto che se l'impronta non fosse appartenuta né a Debbie Carter, né a Ron Williamson, né a Dennis Fritz il pubblico ministero avrebbe avuto le mani legate? Peters ammise che, dopo quattro anni di silenzio, all'inizio del 1987 Bill Peterson gli aveva telefonato chiedendogli se era proprio sicuro dell'opinione che aveva espresso. Dopo l'esumazione del cadavere e la raccolta di nuove impronte, lui l'aveva effettivamente cambiata e aveva stilato un nuovo rapporto. Proprio come il pubblico ministero desiderava. Greg Saunders continuò il martellamento del teste per conto di Dennis Fritz e alla fine la manomissione delle prove risultò evidente. Ma si trattava solo di un'udienza preliminare, non di un processo che richiedeva prove al di là di ogni ragionevole dubbio. Peters dichiarò inoltre che delle ventuno impronte digitali rilevate nell'appartamento della Carter e sulla sua auto diciannove erano della vittima, una di Mike Carpenter, una di Dennis Smith e nessuna di Fritz e Williamson. La star dell'accusa fu l'incredibile Terri Holland. Dall'ottobre del 1984 al gennaio del 1985 la Holland era stata nel carcere della contea di Pontotoc per falsificazione di assegni. Il suo era stato un soggiorno molto produttivo, dal punto di vista della risoluzione di casi difficili. La Holland diceva infatti di aver sentito Karl Fontenot ammettere di essere stato lui a sequestrare e uccidere Denice Haraway. Testimoniò al primo processo a carico di Tommy Ward e Karl Fontenot nel settembre del 1985 e riferì alla giuria i sanguinosi dettagli che Smith e Rogers avevano

suggerito a Tommy nel corso della confessione del suo sogno. Poco dopo, ottenne uno sconto di pena. Tommy Ward e Karl Fontenot finirono nel braccio della morte, Terri Holland scappò senza nemmeno finire di pagare le spese legali. Era poca cosa e in genere le autorità per cifre del genere non si muovono nemmeno, invece, chissà perché, la andarono a cercare. Di fronte all'eventualità di una nuova condanna, Terri ricordò improvvisamente alcuni particolari molto importanti per le indagini. Più o meno nello stesso periodo in cui aveva sentito la confessione di Karl Fontenot, aveva sentito anche quella di Ron Williamson. Che colpo di fortuna per la polizia! Non soltanto avevano ottenuto la confessione di un sogno - la loro specialità -, ma avevano anche un informatore che la confermava. Quando le fu chiesto come mai non avesse detto a nessuno della confessione di Ron fino alla primavera del 1987, Terri Holland si tenne sul vago. Perché aveva aspettato due anni, visto che invece con Fontenot aveva fatto la spia immediatamente? All'udienza preliminare, la Holland si comportò da grande attrice. Siccome Ron non c'era, fu libera di infarcire il proprio racconto con ogni genere di amenità. Dichiarò perfino di averlo sentito urlare alla madre al telefono: «Guarda che ti ammazzo come ho ammazzato Debbie Carter!». Peccato che l'unico telefono del carcere fosse nell'ufficio all'entrata, fissato al muro, e che, nelle rare occasioni in cui veniva loro concesso di usarlo, i detenuti dovessero parlare in presenza della guardia di turno, vicino alla sua scrivania. Che un altro detenuto potesse ascoltare una telefonata era altissimamente improbabile, se non del tutto impossibile. Terri Holland dichiarò inoltre che Ron una volta aveva telefonato a una chiesa per farsi portare delle sigarette e aveva minacciato di bruciarla, se non lo avessero accontentato. Nessuno fu in grado di confermare niente di ciò che la Holland dichiarò. Non le vennero fatte domande sulla disposizione delle celle e degli uffici nel carcere, non vennero espressi dubbi sul fatto che le donne potessero incontrare liberamente i detenuti maschi. Peterson la imbeccava: «Sentì mai Williamson accennare a ciò che aveva fatto a Debbie Carter?». «Sì, una volta che era nella cella comune» rispose la Holland. «Poco dopo l'arrivo di Tommy Ward e Karl Fontenot.» «E che cosa disse esattamente Williamson a proposito di ciò che aveva

fatto a Debbie Carter?» «Solo che... mah, non so come dirlo. Disse che lei si credeva migliore di lui e lui le aveva dimostrato che non era vero.» «Nient'altro?» «Disse che l'aveva costretta a fare l'amore con lui, anche se naturalmente non fu così che si espresse. Non mi ricordo le parole precise. Disse che le aveva ficcato una bottiglietta di Coca-Cola su per il culo - cioè, di ketchup - e le aveva infilato le mutande in gola.» Bill Peterson andò avanti senza batter ciglio. «Non disse nulla a proposito del fatto che Debbie doveva smetterla di darsi tante arie o qualcosa del genere?» «Sì, be', disse che lui ci voleva uscire assieme, ma lei non ci stava. Allora lui le aveva detto di smetterla di fare la gran donna e di dargliela.» «Perché altrimenti lui che cosa avrebbe fatto?» la imbeccò Peterson. «L'avrebbe ammazzata» concluse la Holland. È straordinario come Bill Peterson, uomo di legge votato a scoprire la verità e fare giustizia, abbia potuto dare corda a una persona del genere. Gli informatori avevano tutto da guadagnare a fare la spia. Terri Holland ottenne il proscioglimento immediato e un piano di rateizzazione per la somma dovuta che, fra parentesi, non finì mai di pagare. All'epoca erano in pochi a sapere che Terri Holland aveva il dente avvelenato con Ron Williamson. Alcuni anni prima, quando faceva il venditore porta a porta per la Rawleigh, Ron una volta fu invitato a entrare in casa da una donna che gli si parò di fronte completamente nuda. Siccome in casa non c'era nessuno a parte lei, da cosa nacque cosa e in breve i due finirono a letto. La donna si chiamava Marlene Keutel ed era squilibrata. La settimana dopo l'avventura con Ron si tolse la vita. Ron tornò spesso a casa sua per cercare di venderle altri prodotti, ma trovò sempre la porta chiusa. Non sapeva che fosse morta. Terri Holland era sua sorella. Marlene le aveva detto che Ron l'aveva violentata. Non era stata sporta denuncia, anche perché sarebbe stato impossibile, ma ferri, pur consapevole dello squilibrio mentale della sorella, era convinta che Ron fosse responsabile della sua morte. Ron, invece, si era dimenticato tutto e non sapeva chi fosse Terri Holland. Il primo giorno dell'udienza preliminare si trascinò con la lunga deposi-

zione di Dennis Smith, il quale descrisse nei minimi dettagli la scena del crimine e le indagini effettuate. L'unica sorpresa arrivò quando Smith parlò delle scritte lasciate dagli assassini, quella fatta sul muro con lo smalto per unghie, le parole impiastricciate con il ketchup sul tavolo della cucina e quelle quasi illeggibili sul ventre e sulla schiena di Debbie. Lui e Rogers erano convinti di poter arrivare al colpevole attraverso una perizia grafologica e quindi, quattro anni prima, avevano chiesto a Dennis Fritz e a Ron Williamson di fornire un esempio della loro grafia. Pur non avendo alcuna nozione di grafologia, i due ispettori avevano avuto subito la netta impressione che la scrittura fosse identica. Le lettere vergate a penna su un cartoncino bianco da Fritz e Williamson somigliavano in maniera assolutamente sospetta a quelle impiastricciate sul muro con lo smalto per unghie e con il ketchup sul tavolo della cucina. Ne avevano parlato a un non meglio identificato agente dell'OSBI, che secondo Smith si era dichiarato d'accordo con loro e "verbalmente" aveva confermato la loro supposizione. Interrogato da Greg Saunders, Smith dichiarò: «Insomma, la grafia, secondo questo esperto con cui abbiamo parlato, era molto simile a quella sul muro». «E a quella sul tavolo?» «Anche. Erano praticamente uguali.» Pochi minuti dopo, Barney Ward lo mise in grave difficoltà. Gli domandò se era mai stata fatta una perizia grafologica a Ron. «No, non abbiamo mai mandato all'OSBI il campione di Williamson.» Barney era perplesso. Perché non si erano rivolti a un perito? Temevano forse che l'esame grafologico escludesse gli imputati? Smith era sulla difensiva. «Le grafie erano molto simili, però. Lei capisce, erano osservazioni nostre, niente di veramente scientifico. Cioè, la somiglianza era chiarissima, noi l'abbiamo vista subito. Però, cioè, una perizia con tutte queste variabili è praticamente impossibile. Scrivere con un pennello è diverso rispetto a scrivere con una matita, e poi c'erano le due mani diverse.» Barney replicò: «Non starà dicendo alla Corte che c'è la possibilità che gli imputati abbiano scritto a turno con un pennellino da smalto, una lettera per uno, alternandosi?». «No, ma credo che la nostra opinione fosse che avessero preso parte tutti e due alla scrittura, non necessariamente tutti e due alla stessa scritta, però... Voglio dire, le scritte erano più di una.»

Di grafologia si parlò in udienza preliminare per ottenere il rinvio a giudizio, ma non al processo: le prove erano talmente campate per aria che neppure Peterson osò riproporle in sede dibattimentale. Al termine del primo giorno, il giudice Miller espresse preoccupazione per l'assenza di Ron. «Ho letto la normativa e ho deciso che Williamson dovrà essere in aula alle nove meno un quarto affinché io possa domandargli se desidera rinunciare nuovamente al proprio diritto di presenziare all'udienza. Se così sarà, tornerà in cella.» A quel punto Barney Ward gli chiese: «Vuole che gli faccia dare cento milligrammi di...?». «Non sta a me dirle cosa fare o non fare» lo interruppe Miller. Alle otto e quarantacinque dell'indomani mattina, Ron venne scortato in aula. Il giudice Miller gli disse: «Signor Williamson, ieri lei ha espresso il desiderio di non essere presente all'udienza preliminare». «Non volevo venire neanche ora» replicò Ron. «Non c'entro niente con quell'omicidio. Io non ho mai... non so chi sia stato ad ammazzarla. Non so niente di niente.» «Va bene. Ma la sua condotta è stata distruttiva e poco consona... Senta, presenziare a quest'udienza è nei suoi diritti, ma mi deve promettere che si comporterà in maniera più educata e tranquilla di ieri. Se vuole rimanere, deve assumere un altro atteggiamento. Desidera presenziare all'udienza?» «No.» «Lei è consapevole del suo diritto di restare e ascoltare le deposizioni dei testimoni?» «Non voglio. Tanto voi fate tutto quello che vi pare e io non ci posso fare niente. Sto diventando matto, con questa cosa. Sto male da morire. Non voglio rimanere qui.» «Come preferisce. La scelta è sua. Dunque non desidera essere presente?» «Giusto.» «E rinuncia al diritto di confutare le deposizioni dei testimoni?» «Sì. Potete accusarmi di una cosa che non ho fatto, potete fare tutto quello che volete.» Lanciò un'occhiata a Gary Rogers e disse: «Sa, ispettore, lei mi fa paura. Mi può arrestare dopo quattro anni e mezzo di rotture di scatole, perché ha il coltello dalla parte del manico e io non conto niente». Venne riaccompagnato in carcere e l'udienza riprese con la deposizione di Dennis Smith. Toccò poi a Gary Rogers, che ricapitolò il corso delle

indagini, e agli agenti dell'OSBI Melvin Hett e Mary Long, i quali illustrarono i risultati delle analisi dattiloscopiche, tricologiche, ematologiche e sulla saliva. Terminati i testimoni dell'accusa, Barney Ward chiamò a deporre dieci persone, fra carcerati ed ex detenuti. Nessuno ricordava nulla di simile a ciò che Terri Holland dichiarava di aver sentito. Quindi Barney Ward e Greg Saunders chiesero alla Corte di cancellare i capi di imputazioni relativi a stupro e atti di libidine violenta, per decorrenza dei termini di legge fissati dalla legge dell'Oklahoma, ovvero tre anni. L'omicidio non cade in prescrizione, ma tutti gli altri reati sì. Miller replicò che si sarebbe espresso in merito dopo attenta riflessione. Il ruolo di Dennis Fritz sembrava sempre più vago. Il pubblico ministero era evidentemente concentrato su Williamson e i suoi testimoni più importanti - Glen Gore, Terri Holland e Gary Rogers - avevano tutti puntato il dito contro di lui. L'unico elemento che collegava lontanamente Fritz all'assassinio era la perizia tricologica di Melvin Hett. Greg Saunders spiegò con dovizia di particolari che l'onere della prova non era stato soddisfatto. Il giudice Miller ne prese atto e rimandò la propria pronuncia. Anche Barney Ward chiese il non luogo a procedere per mancanza di prove. Vedendo che il giudice Miller non si pronunciava immediatamente e che aveva intenzione di riflettere sulle istanze della difesa, Peterson si rese conto di aver bisogno di più prove. I giurati tendono a fidarsi molto dei periti e a prendere per oro colato le loro opinioni, specie quando si tratta di dipendenti statali interpellati dalla procura. Barney Ward e Greg Saunders sapevano che le perizie dattiloscopiche e tricologiche dell'OSBI erano quantomeno dubbie, ma tra un avvocato difensore e un esperto i giurati tendono a credere più a quest'ultimo e spesso nelle questioni tecniche perdono il filo. Per giocare alla pari, bisogna fare affidamento su un perito di parte. Barney Ward e Greg Saunders presentarono una mozione richiedendo l'assistenza di un consulente tecnico, ma tali mozioni, sebbene frequenti, raramente vengono accolte. I periti costano e molti giudici preferiscono non costringere i contribuenti a pagare costi troppo elevati per difendere gli indigenti. Infatti la mozione non venne accolta. Eppure Barney Ward era cieco: se

c'era qualcuno che aveva davvero bisogno di aiuto per analizzare formazioni pilifere e impronte digitali era proprio lui. 8 Carte e documenti si moltiplicavano. La procura modificò i capi di imputazione, cancellando le accuse di violenza carnale. Gli avvocati difensori contestarono e si rese necessaria una nuova udienza. Il giudice era Ronald Jones, della Corte distrettuale della contea di Pontotoc, che insieme a quelle di Seminoie e Hughes faceva parte del ventiduesimo distretto giudiziario. Il giudice Jones era stato eletto nel 1982 ed era noto per essere severo e intransigente nei confronti degli imputati, oltre che acceso sostenitore della pena di morte. Molto credente, era diacono battista. Fra i nomignoli che gli erano stati affibbiati c'erano quello di Ron the Baptist e By-the-Book Jones. Si diceva che fosse più indulgente verso chi una volta in carcere trovava la fede e si vociferava inoltre che alcuni avvocati, saputo che il giudice era Jones, avessero consigliato ai loro assistiti una conversione dell'ultim'ora. Il 20 agosto Ron venne accompagnato in aula per la formalizzazione dell'accusa. Era la prima volta che lui e Jones si vedevano. Il giudice gli chiese come stava. «Devo dirle una cosa, signor giudice» rispose lui a gran voce. «Io provo grande compassione per i Carter.» Il giudice Jones chiese silenzio. Ron continuò: «Senta, io lo so che lei non vuole... Cioè, io non ho fatto niente, capisce?». Le guardie lo bloccarono e lui si zittì. La seduta venne sospesa perché il giudice voleva leggere i verbali dell'udienza preliminare. Due settimane dopo Ron tornò in tribunale. I suoi avvocati avevano presentato un'altra serie di mozioni. Le guardie carcerarie gli avevano cambiato il dosaggio del Thorazine. Quando urlava e strepitava, gli davano una pastiglia in più e così tutti stavano in pace. Quando però doveva presentarsi in tribunale, gli riducevano le dosi, in maniera che desse in escandescenze. Norma Walker, del centro di igiene mentale, sospettava che le guardie gli cambiassero i dosaggi e scrisse un appunto in proposito sulla cartella clinica. La seconda udienza davanti al giudice Jones non andò granché bene. Ron parlava, protestava la propria innocenza, diceva che erano tutti dei

bugiardi. A un certo punto dichiarò: «La mamma lo sapeva, che io quella sera ero a casa». Alla fine venne riaccompagnato in cella e l'udienza continuò senza di lui. Barney Ward e Greg Saunders avevano richiesto due procedimenti separati ed erano intenzionati a ottenerli. Specialmente Saunders, che voleva una giuria solo per Fritz, senza l'onere di un coimputato come Ron Williamson. Il giudice Jones accolse la loro mozione e autorizzò che venissero celebrati due processi distinti. Accennò anche alla possibilità che Ron non avesse le capacità mentali per affrontare un procedimento penale e disse a Barney Ward che la questione andava approfondita prima dell'inizio del processo. Ron venne rinviato a giudizio, si dichiarò non colpevole e tornò in cella. Il caso Fritz procedeva ormai su binari separati. Il giudice Jones aveva ordinato un'altra udienza preliminare giudicando troppo esigue le prove a suo carico. Il pubblico ministero non aveva abbastanza testimoni. In genere la polizia si preoccupava se il materiale probatorio era scarso. Non a Ada, però. Inutile lasciarsi prendere dal panico: il carcere della contea era pieno di potenziali spie. La prima che trovarono contro Dennis Fritz fu una piccola delinquente, Cindy McIntosh. Dennis era stato strategicamente spostato in una cella più vicina a quella di Ron, in maniera che i due potessero parlarsi. Ormai avevano fatto la pace: Dennis era riuscito a convincere Ron di non aver confessato nulla. Cindy McIntosh sostenne di essersi avvicinata alle celle dei due detenuti e di averli sentiti parlare di certe fotografie presentate alla prima udienza preliminare. Siccome Ron non c'era e non le aveva viste, secondo la McIntosh era curioso di farsele descrivere da Dennis. Gli aveva chiesto: «Lei era sul letto o per terra?». «Per terra» avrebbe risposto Dennis. Per la polizia, questo dimostrava chiaramente che i due uomini erano stati in casa di Debbie Carter, l'avevano stuprata e uccisa. Bill Peterson ne era convinto. Il 22 settembre presentò una mozione perché Cindy McIntosh fosse aggiunta all'elenco dei testimoni. Un altro informatore fu James Riggins. Riggins disse che, tornando in carcere dopo essere stato in tribunale, era passato davanti alla cella di un detenuto, forse Ron Williamson, che stava dicendo di aver ucciso Debbie

Carter, di aver già subito due processi per stupro a Tulsa e di sperare di passarla di nuovo liscia. Riggins non aveva chiaro a chi Ron stesse confessando tutto questo, ma le spie non fanno caso a certi particolari. Un mese dopo, però, Riggins cambiò idea. Nel corso di un interrogatorio, disse alla polizia che aveva sbagliato sul conto di Ron Williamson e che in realtà l'uomo che aveva sentito confessare l'omicidio era Glen Gore. Le confessioni erano contagiose, a Ada. Il 23 settembre un giovane tossicodipendente di nome Ricky Joe Simmons si presentò alla polizia, disse di aver ucciso Debbie Carter e di volersi costituire. Dennis Smith e Gary Rogers andarono a cercare una telecamera e registrarono la sua confessione. Simmons dichiarò di aver abusato di sostanze per anni, in special modo di una miscela fatta in casa con acido da batteria. Disse di aver smesso e di aver riscoperto la fede. Una sera di dicembre del 1982 - credeva fosse il 1982, ma non ne era del tutto sicuro -, mentre leggeva la Bibbia, aveva avuto l'impulso di uscire. Girando a piedi per Ada, aveva incontrato una ragazza, che forse era Debbie Carter - ma anche di questo non era del tutto sicuro - e aveva cominciato a parlare con lei. Su come fossero andate le cose in seguito era poco chiaro. Forse l'aveva violentata, forse no. Di averla strozzata con le sue stesse mani era abbastanza sicuro. E anche di essersi messo a pregare e poi a vomitare. Sentiva delle voci che gli ordinavano di fare certe cose. Ricordava i fatti come avvolti in una nebbia, "come in un sogno". Smith e Rogers non si scomposero, di fronte all'ennesima confessione di un sogno. Chiesero a Simmons come mai avesse aspettato quasi cinque anni prima di costituirsi e lui spiegò che erano stati i pettegolezzi che circolavano in città a fargli tornare in mente quella fatale notte del 1982, che forse invece era del 1981. Non ricordava più come fosse entrato in casa della Carter, di quanti vani fosse il suo appartamento e in quale stanza si fosse consumato l'omicidio. Tutto a un tratto gli vennero in mente il ketchup e le scritte sul muro. In seguito disse che un collega gli aveva raccontato alcuni particolari dell'omicidio. Simmons sosteneva di essere sobrio e di non aver fatto uso di sostanze, ma in ogni caso l'acido da batteria doveva avergli distrutto parecchi neuroni. Smith e Rogers liquidarono la sua confessione come fasulla, benché avesse più o meno le stesse incongruenze di quella di Tommy Ward. A un certo punto Smith si stufò di ascoltare le baggianate di Simmons e disse:

«Secondo me, non sei stato tu a uccidere Debbie Carter». E gli consigliò di farsi visitare da uno psichiatra. Simmons, sempre più confuso, insisteva che invece era stato lui. E i due ispettori continuavano a ripetergli che no, non era vero. Alla fine lo ringraziarono e lo mandarono via. In carcere le buone notizie erano rare, ma all'inizio di novembre Ron ne ricevette una: gli era stato riconosciuto un assegno di invalidità ai sensi del Social Security Act. L'aveva richiesto un anno prima Annette, sostenendo che Ron non era più in grado di lavorare dal 1979. Il giudice che aveva esaminato la pratica, Howard O'Bryan, aveva studiato la documentazione medica e fissato un'udienza il 26 ottobre 1987. Ron vi era stato accompagnato dal carcere. Nella sua pronuncia, il giudice O'Bryan scrisse: "Dalla documentazione medica presentata risulta un quadro di alcolismo, depressione stabilizzata con litio, disturbo bipolare atipico complicato da un disturbo della personalità atipico, tendenze paranoiche e antisociali borderline. Quando non assume farmaci, il soggetto è aggressivo, violento sul piano fisico e verbale, ha manie religiose e pensieri disturbati". O'Bryan scriveva anche: "Sono riferiti ripetuti episodi di disorientamento temporale, limitata capacità di attenzione, disturbo del pensiero astratto e della percezione di sé". Il giudice giungeva alla conclusione che Ron Williamson soffriva di "disturbo bipolare e della personalità, legato anche all'abuso di sostanze". Pertanto, le sue condizioni erano sufficientemente gravi da impedirgli un lavoro stabile. L'invalidità di Ron decorreva dal 31 marzo 1985. Il compito di O'Bryan era essenzialmente di giudicare se le richieste di invalidità erano giustificate da un effettivo handicap fisico o mentale. Era un compito delicato, ma non si trattava di una questione di vita o di morte. I giudici Miller e Jones, invece, avevano il preciso dovere di assicurare all'imputato un giusto processo, specie se il reato ascrittogli era punibile con la pena capitale. Il fatto che il giudice O'Bryan si fosse accorto dei problemi di Ron e loro no non può che lasciare perplessi. Barney Ward era abbastanza preoccupato da richiedere il parere di un medico e prese appuntamento presso lo Health Department della contea di Pontotoc. La direttrice, Claudette Ray, somministrò a Ron una serie di test

psicologici e alla fine scrisse un referto che concludeva così: "Il soggetto soffre di ansia dovuta a stress situazionale. Si sente impotente nei confronti della propria situazione e incapace di migliorarla. I suoi comportamenti impropri e autolesionisti, quali non presenziare all'udienza preliminare, sono dovuti a panico e confusione. Una persona lucida vuole essere messa al corrente di ciò che può influenzare il suo futuro". Il referto rimase nel fascicolo di Barney Ward. Richiedere una perizia psichiatrica per i propri assistiti era una procedura normale, che certo non gli era nuova. Ron stava in un carcere a pochi metri dal palazzo di giustizia dove lui andava tutti i giorni. Tuttavia, non sollevò il problema dell'infermità mentale. Il castello accusatorio nei confronti di Dennis Fritz si fece molto più solido dopo la testimonianza di un indiano semianalfabeta che si chiamava James C. Harjo. Harjo aveva ventidue anni ed era detenuto per furto, essendo stato sorpreso a rubare per la seconda volta nella stessa casa. Fra settembre e ottobre, in attesa del trasferimento nel carcere statale, aveva diviso la cella con Dennis Fritz. I due avevano fatto amicizia. Dennis provava pena per Harjo e gli aveva scritto alcune lettere, soprattutto alla moglie. Aveva capito subito che cosa aveva in mente la polizia: un giorno sì e uno no Harjo usciva senza alcun motivo apparente, visto che non aveva udienze in tribunale, e quando tornava in cella gli chiedeva di Debbie Carter. Fra tutte le spie e gli informatori di quel carcere, Harjo doveva essere il peggiore. Il suo piano era talmente ovvio che tutte le volte che Harjo usciva di cella, Dennis gli faceva firmare una breve dichiarazione. Il senso più o meno era questo: "Dennis Fritz dice di essere innocente". Dennis si rifiutava di parlare con lui di Debbie Carter. Ma questo non fermò Harjo, che il 19 novembre venne iscritto nell'elenco dei testimoni dell'accusa. In quella stessa data era fissata la nuova udienza preliminare davanti al giudice John David Miller. Quando Peterson annunciò che fra i testimoni c'era anche Harjo, a Dennis venne la pelle d'oca. Che cosa avrebbe detto quel deficiente? Harjo mentì malamente sotto giuramento, spiegando che era compagno di cella di Fritz e che era andato d'accordo con lui fino a una brutta discussione la sera di Halloween. Harjo aveva chiesto a Fritz di raccontargli di Debbie Carter e, siccome lui si contraddiceva continuamente, aveva avuto la netta sensazione che fosse colpevole e glielo aveva detto. Allora Dennis

si era alterato e aveva cominciato a passeggiare nervosamente per la cella, in preda a evidenti sensi di colpa. Dopo un po' era tornato da Harjo e, con le lacrime agli occhi, gli aveva detto: «Non volevamo farle del male». Dennis non riuscì a stare a sentire certe assurdità senza intervenire. Gridò: «Bugiardo! Bugiardo!». Miller ristabilì l'ordine e Harjo continuò il suo racconto. Disse che Dennis era preoccupato per la figlia e gli aveva confidato: «Che cosa penserà di me, sapendo che sono un assassino?». Poi gli aveva raccontato di essere andato a casa di Debbie Carter con Ron, portando delle birre, di aver stuprato e ucciso la ragazza, raccolto le lattine, pulito dappertutto per eliminare le impronte ed essersene andato. Nel corso del controinterrogatorio, Greg Saunders chiese a Harjo se Dennis gli aveva spiegato come avessero fatto lui e Ron a cancellare le loro invisibili impronte lasciandone decine di altre. Harjo non lo sapeva. Ammise che la sera di Halloween, quando Dennis gli aveva confessato l'omicidio, erano in compagnia di altri sei detenuti, ma nessun altro aveva sentito nulla. Saunders presentò copia delle dichiarazioni scritte da Dennis e firmate dal teste. Harjo era stato poco credibile sin dall'inizio, ma il controinterrogatorio lo screditò del tutto. Ciononostante, il giudice Miller rinviò a giudizio Dennis Fritz. Non poteva fare altro: ai sensi della legge dell'Oklahoma, in sede di udienza preliminare non è consentito al magistrato valutare la credibilità dei testimoni. Il processo venne fissato e poi rimandato. Passò l'inverno e Ron e Dennis rimanevano detenuti in attesa di un giudizio che non arrivava mai. Dopo tutti quei mesi dietro le sbarre, aspettavano con ansia la possibilità di ristabilire verità e giustizia. Ci credevano ancora. Nelle schermaglie precedenti il processo, l'unica vittoria significativa per la difesa fu la pronuncia del giudice Jones a favore dei due processi separati. Benché Bill Peterson si fosse opposto, era una soluzione che presentava numerosi vantaggi per lui. Se Fritz fosse stato processato per primo, i giornalisti avrebbero fornito tutti i dettagli della vicenda ai cittadini di Ada, che erano curiosi e in grande ansia. La polizia aveva pensato da subito che gli assassini fossero due e i primi - e gli ultimi - su cui aveva indagato erano Dennis Fritz e Ron Williamson. Tutto era andato di pari passo sin dal primo giorno: sospetti, indagini, accuse, arresto, formalizzazione dei capi di imputazione e rinvio a giudizio.

Le loro foto comparivano sempre in coppia sui giornali. I titoli recitavano i due nomi come indissolubilmente legati l'uno all'altro. Se Peterson fosse riuscito a ottenere un verdetto di colpevolezza per Fritz, il processo Williamson si sarebbe rivelato una passeggiata. Nella città di Ada tutto era possibile: anche processare Fritz e Williamson uno di seguito all'altro nella stessa aula, con lo stesso giudice e gli stessi testimoni. E con lo stesso quotidiano a riferire i fatti. Il 1° aprile 1988, a tre settimane dall'inizio del processo di Ron, Frank Barber, l'avvocato che affiancava Barney Ward, chiese di essere esonerato dal caso: era stato accettato nella procura di un altro distretto. Il giudice Jones accolse la sua richiesta, Barber se ne andò e Barney Ward rimase solo, senza occhi per leggere gli atti, osservare le prove, guardare le foto e i diagrammi che l'accusa avrebbe presentato contro il suo assistito. Il 6 aprile 1988, cinque anni e mezzo dopo l'omicidio di Debbie Carter, Dennis Fritz venne accompagnato in un'aula gremita al primo piano del palazzo di giustizia della contea di Pontotoc. Era rasato, si era appena tagliato i capelli e indossava l'unico completo che possedeva, acquistatogli dalla madre per l'occasione. Wanda Fritz era seduta in prima fila, il più vicina possibile al figlio. Accanto a lei c'era sua sorella, Wilma Foss. Non si sarebbero perse una parola di tutto il processo. Appena gli vennero tolte le manette, Dennis si guardò in giro pensando a quali dei circa cento possibili giurati sarebbero stati selezionati. Dodici persone fra gli iscritti ai registri elettorali presenti in aula avrebbero deciso il suo destino. La lunga attesa era finita: dopo undici mesi di carcere, era finalmente in tribunale. Aveva un bravo avvocato, dava per scontato che il giudice fosse imparziale, dodici suoi pari avrebbero soppesato gli indizi con attenzione e avrebbero rapidamente capito che Peterson non aveva prove. Era sollevato, ma aveva anche paura. Dopo tutto erano nella contea di Pontotoc, dove si sapeva che erano stati mandati in prigione degli innocenti. Dennis aveva brevemente diviso la cella con Karl Fontenot, un ragazzo semplice e confuso che era finito nel braccio della morte per un crimine che non aveva commesso. Il giudice Jones entrò e salutò i presenti. Dopo le formalità di rito, iniziò la selezione della giuria, che fu lunga e tediosa. Vennero scartati i troppo

anziani, i troppo sordi e i troppo malati. Poi cominciarono le domande, quasi tutte del giudice, e Greg Saunders e Bill Peterson si concentrarono per capire quali giurati tenere e quali ricusare. A un certo punto, il giudice Jones fece la seguente domanda a un possibile giurato di nome Cecil Smith: «Dove ha lavorato?». «Nella Oklahoma Corporation Commission.» Nessun'altra domanda da parte di Jones o degli avvocati. Cecil Smith, nella sua concisa risposta, omise di specificare che era stato a lungo nelle forze dell'ordine. Poco dopo Jones gli chiese se era legato all'ispettore Smith da rapporti di parentela o di amicizia. Cecil Smith rispose: «Non siamo imparentati». Jones: «Ma vi conoscete?». Cecil Smith: «Sì, lo conosco di fama e forse in un paio di occasioni ci siamo anche visti e parlati». Qualche ora dopo la giuria era formata. Fritz era preoccupato dalla presenza di Cecil Smith fra i dodici giurati. Quando aveva preso posto, gli aveva lanciato un'occhiataccia. Sarebbe stata la prima di una lunga serie. Il processo ebbe inizio il giorno dopo. Nancy Shew, sostituto procuratore distrettuale, spiegò alla giuria le prove che l'accusa avrebbe presentato. Greg Saunders replicò che il materiale probatorio era scarso e inconsistente. Il primo teste chiamato a deporre fu Glen Gore, accompagnato in tribunale dal carcere. Nel corso dell'interrogatorio di Peterson, Gore offrì una testimonianza quanto mai singolare: non aveva visto Dennis Fritz con Debbie Carter la sera della sua morte. Spesso l'accusa comincia con i testimoni più importanti, i quali dichiarano che l'imputato era insieme alla vittima poco prima dell'omicidio. Peterson usò una strategia diversa. Gore disse che forse aveva visto Dennis Fritz al Coachlight prima della sera dell'omicidio, o forse mai. La strategia dell'accusa fu chiara sin dal primo teste: Gore parlò più di Ron Williamson che di Dennis Fritz e Peterson gli fece più domande su Ron che su Dennis. Il suo scopo era arrivare a un verdetto di colpevolezza per associazione. Per non dare a Greg Saunders la possibilità di screditare il teste in virtù della sua fedina penale, procedette lui stesso a interrogare Gore sui suoi numerosi precedenti. Il testimone elencò le numerose condanne ricevute per sequestro di persona, atti di violenza e tentato omicidio.

Non soltanto Gore non disse nulla di compromettente per Dennis Fritz, ma si presentò anche come un criminale incallito costretto a scontare quarant'anni di galera. Fu un inizio un po' tentennante per Peterson, il quale subito dopo chiamò a deporre un altro testimone che non sapeva niente. Tommy Glover disse infatti alla giuria di aver visto Debbie Carter parlare con Glen Gore prima di tornare a casa dal Coachlight e non nominò neppure una volta Dennis Fritz. Gina Vietta raccontò delle strane telefonate ricevute da Debbie la notte fra il 7 e l'8 dicembre. Dichiarò anche di aver visto Fritz al Coachlight in diverse occasioni, ma non la sera dell'omicidio. Fu poi la volta di Charlie Carter, che riferì l'angoscioso ritrovamento del cadavere della figlia, quindi al banco dei testimoni prese posto Dennis Smith. L'ispettore descrisse nei particolari la scena del crimine, aiutandosi con una serie di fotografie. Ricapitolò le varie fasi delle indagini e la raccolta dei campioni biologici. La prima domanda di Nancy Shew a proposito dei principali indagati non riguardava Dennis Fritz. Ma, dato il contesto, non c'era da sorprendersi. «Interrogaste Ron Keith Williamson?» domandò. «Sì.» Senza che nessuno obiettasse o intervenisse per impedirglielo, Smith raccontò per filo e per segno le indagini condotte sul conto di Ron e spiegò come e perché si erano concentrati su di lui. Alla fine Nancy Shew si ricordò che il processo riguardava Dennis Fritz e chiese all'ispettore i risultati delle analisi sul suo campione di saliva. Smith spiegò come era stato effettuato il prelievo e riferì di aver inviato il campione al laboratorio dell'OSBI a Oklahoma City. A quel punto la Shew dichiarò di aver concluso e lasciò il teste alla controparte. L'accusa terminò l'interrogatorio dell'ispettore Smith senza aver chiarito come e perché avesse indagato su Dennis Fritz, che non aveva alcun legame con la vittima, non era stato visto assieme a lei prima dell'omicidio e non aveva l'ombra di un movente. L'unica cosa che Smith aveva sottolineato era che Fritz "abitava nei pressi della casa della vittima". Il collegamento tra Fritz e Debbie Carter venne fuori soltanto nella testimonianza di Gary Rogers, il quale dichiarò: «Mentre indagavamo su Ron Williamson è emerso il nome di Dennis Fritz, suo conoscente». Spiegò alla giuria i motivi per cui lui e Dennis Smith avevano astutamente capito che gli assassini erano due. Prima di tutto, si trattava di un omicidio troppo brutale per un uomo solo, e poi gli assassini si erano tradi-

ti scrivendo NON VENITECI A CERCARE. L'utilizzo della prima persona plurale presupponeva la presenza di più di una persona. Si erano dati da fare e avevano scoperto che Williamson e Fritz erano amici. Evidentemente questo per loro voleva dire che avevano ucciso insieme Debbie Carter. Greg Saunders aveva raccomandato a Dennis di non guardare i giurati, ma lui non ci riusciva. Il suo destino era nelle mani di quelle dodici persone, che avrebbero potuto decidere anche della sua morte, e lui non riusciva a ignorarle. Cecil Smith era seduto in prima fila e, ogni volta che Dennis si voltava, incontrava il suo sguardo accusatore. "Ce l'ha con me?" pensava. "Ma perché?" L'avrebbe scoperto presto. Mentre entrava nel palazzo di giustizia dopo una pausa, Greg Saunders venne avvicinato da un vecchio collega di Ada che gli chiese: «Chi è il furbastro che ha ammesso Cecil Smith nella giuria?». Greg rispose: «Io, suppongo. Perché?». «È stato il capo della polizia qui a Ada.» Saunders rimase di stucco. Andò a parlare con il giudice Jones e chiese che il processo venisse invalidato per vizio di forma: il giurato non era stato sincero nel processo di selezione ed era palesem*nte parziale. La mozione non venne accolta. Il dottor Fred Jordan spiegò ai giurati di aver condotto l'esame autoptico e ne rivelò alcuni dettagli raccapriccianti. Vennero distribuite fotografie del cadavere, che naturalmente provocarono shock e orrore. Alcuni giurati rivolsero all'imputato occhiate disgustate. Dopo la solida e impeccabile deposizione del dottor Jordan, l'accusa decise di inserire alcuni dei testimoni meno importanti. Gary Allen prestò giuramento e si preparò a rispondere alle domande. Il suo coinvolgimento nei fatti era piuttosto vago: disse che abitava vicino a Dennis Fritz e che una notte, all'inizio di dicembre del 1982, verso le tre e mezzo, aveva sentito due uomini far baccano nel cortile della sua abitazione. Non era certo della data esatta, ma per qualche ragione sapeva che era prima del 10 dicembre. I due uomini, che lui non aveva visto abbastanza bene da poterli identificare, ridevano e imprecavano, spruzzandosi a vicenda con una manichetta dell'acqua. Faceva freddo, ma i due erano a torso nudo. Conosceva abbastanza bene Dennis Fritz ed era in grado di riconoscerlo dalla voce, ma non era sicuro che si trattasse proprio di lui. Era rimasto lì a guardare la

scena una decina di minuti e poi se ne era tornato a letto. Quando Allen fu congedato, i presenti in aula si scambiarono alcune occhiate sconcertate. A che cosa serviva quella testimonianza? La confusione aumentò con il teste successivo, Tony Vick. Vick abitava nell'appartamento sotto a quello di Gary Allen e conosceva Dennis Fritz. Conosceva anche Ron Williamson. Dichiarò di aver visto Ron davanti al portone di Dennis e di sapere per certo che i due erano stati insieme in Texas nell'estate del 1982. Che cosa poteva volere di più la giuria? Le "prove" continuarono ad accumularsi con Donna Walker, dipendente di un negozio aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, che identificò Dennis Fritz in aula e dichiarò di conoscerlo piuttosto bene. Nel 1982 Fritz infatti era un cliente abituale del negozio in cui lavorava, ci andava a prendere il caffè la mattina presto e chiacchierava con lei. Anche Ron frequentava il negozio e lei sapeva per certo che lui e Dennis erano amici. Improvvisamente, dopo l'omicidio non erano più andati a prendere il caffè lì. Sembravano spariti. Invece, dopo alcune settimane, erano riapparsi come se niente fosse. Però, erano molto cambiati. «In che senso?» «Nel carattere, nel modo di vestire. Prima erano sempre ben vestiti, si facevano la barba. Invece dopo erano sciatti, trasandati, con gli abiti sporchi e i capelli lunghi. Anche nel carattere erano molto diversi: sempre agitati, un po' paranoici.» Pressata dalle domande di Greg Saunders, la Walker non seppe spiegare come mai avesse tenuto nascoste alla polizia considerazioni tanto rilevanti per ben cinque anni. Ammise tuttavia che in agosto, dopo l'arresto di Williamson e Fritz, la polizia era stata da lei. La farsa continuò con Letha Caldwell, divorziata, che era stata compagna di scuola di Ron alla Byng. Disse alla giuria che Dennis Fritz e Ron Williamson la andavano spesso a trovare la sera tardi, a ore anche inconsuete, sempre ubriachi, tanto che a un certo punto si era spaventata e aveva chiesto loro di stare alla larga. Siccome però quelli non demordevano, lei si era comprata una pistola e gliel'aveva fatta vedere. A quel punto i due avevano capito che la donna faceva sul serio. La sua testimonianza non aveva nulla a che vedere con l'omicidio di Debbie Carter e in molte aule di tribunale avrebbe scatenato obiezioni e sarebbe stata dichiarata irrilevante. Le obiezioni, per fortuna, arrivarono con la deposizione dell'agente

dell'OSBI Rusty Featherstone. Peterson lo chiamò al banco dei testimoni per dimostrare - inutilmente - che avevano fatto baldoria. Featherstone aveva sottoposto Dennis a due test con la macchina della verità nel 1983, ma i risultati non erano ammissibili come prova, per una quantità di ottime ragioni. Nel corso dei due test, Dennis aveva raccontato di una sera in cui lui e Ron avevano sbevazzato a Norman. Quando Peterson cercò di farsi riferire l'episodio da Featherstone, Greg Saunders obiettò e il giudice Jones dichiarò irrilevante il fatto. Peterson si avvicinò allo scranno per protestare: «Featherstone può testimoniare che Williamson e Fritz uscivano insieme nell'agosto del 1982». «E dov'è la rilevanza del fatto?» chiese Jones. Peterson non fu in grado di spiegarglielo e Featherstone lasciò l'aula subito dopo. Era l'ennesimo testimone che non sapeva nulla dell'omicidio di Debbie Carter. Anche il teste successivo si rivelò inutile, benché la sua deposizione contenesse alcuni punti interessanti. William Martin era il preside della scuola in cui Dennis insegnava nel 1982. Dichiarò che la mattina dell'8 dicembre 1982, un mercoledì, Dennis aveva chiamato per dire che era malato e aveva chiesto di affidare le proprie lezioni a un supplente. Secondo i registri che Martin portò in tribunale, Dennis era stato assente sette volte in nove mesi di corso. Dopo dodici testimonianze, l'accusa non aveva ancora portato una sola prova che incriminasse Dennis Fritz. Aveva dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che Fritz consumava alcolici, che si accompagnava a persone sgradevoli (Ron Williamson), che abitava con la madre e la figlia nello stesso quartiere di Debbie Carter e che non era andato a lavorare il giorno successivo all'omicidio. Peterson era un uomo metodico e credeva nella necessità di costruire il castello accusatorio pezzo per pezzo, teste dopo teste, senza colpi di scena. Il suo stile era accumulare prove ed eliminare ogni dubbio dalla mente dei giurati. Con Fritz però era un problema, visto che le prove non esistevano. Ci volevano degli informatori. Il primo fu James Harjo, che venne accompagnato in aula direttamente dal carcere, come Gore. Lento e un po' ottuso, Harjo aveva rapinato la stessa casa due volte passando esattamente dalla stessa finestra della stessa camera. L'avevano preso e interrogato. Con carta e penna, articoli che Harjo utilizzava molto di rado, la polizia lo aveva aiutato a esporre i fatti ed

era arrivata alla verità, grazie a una serie di diagrammi. Questo evidentemente aveva fatto molta impressione a Harjo, perché quando era in cella con Dennis aveva deciso di risolvere a suon di scarabocchi anche il caso Carter. Spiegò ai giurati la sua acuta strategia: nella cella comune del carcere, insieme ad altri detenuti, aveva posto a Dennis alcune domande. Aiutandosi con dei disegnini, aveva concluso che Dennis doveva essere colpevole. «Sembra proprio che sei stato tu» gli aveva detto. A quel punto Dennis, vinto dalla sua logica stringente, era crollato e aveva dichiarato singhiozzando: «Non volevamo farle del male». Quando Harjo aveva raccontato questa storia all'udienza preliminare, Dennis gli aveva dato pubblicamente del bugiardo, ma davanti alla giuria cercò di sopportare in silenzio. Non era facile, ma fu incoraggiato dalle risatine sommesse di alcuni dei giurati di fronte alle evidenti panzane di Harjo. Nel corso del controinterrogatorio, Greg Saunders stabilì che Dennis e Harjo erano in una delle due celle comuni del carcere, che comunicavano con quattro celle da due letti ciascuna. Progettate per otto persone, spesso ospitavano un numero maggiore di detenuti, che si alitavano praticamente sul collo. Sorprendentemente, nessuno aveva sentito la drammatica confessione di Fritz. Harjo dichiarò inoltre che si divertiva a raccontare a Ron storie non vere a proposito di Dennis e viceversa. Greg Saunders gli domandò: «Perché? Che cosa la spingeva a mentire a Williamson e Fritz?». «Mi divertivo a sentire cosa dicevano. Si sarebbero tagliati la gola a vicenda, se avessero potuto.» «Lei mentiva a Williamson a proposito di Fritz e a Fritz a proposito di Williamson perché si tagliassero la gola a vicenda?» «Sì, be'. Per vedere che cosa dicevano...» Harjo in seguito dichiarò di non conoscere il significato di "falsa testimonianza". L'informatore successivo era Mike Tenney, l'aspirante secondino utilizzato dalla polizia per far parlare Fritz. Privo di adeguata formazione e di esperienza, ansioso di fare buona impressione su quelli che potevano diventare i suoi datori di lavoro, aveva trascorso molto tempo fuori della cella di Dennis Fritz a chiacchierare, specie a proposito di Debbie Carter, e a dispensare consigli. A suo parere, la situazione di Dennis era grave e la

cosa migliore sarebbe stata patteggiare, collaborare per avere un trattamento di favore, a costo di inchiodare Ron Williamson. Peterson era un uomo giusto, corretto, ne avrebbe tenuto conto. Dennis stava al gioco ma non diceva niente, sapendo che sarebbe stato usato contro di lui. Tenney era giovane e inesperto, era salito poche volte al banco dei testimoni e non si era preparato molto bene la lezione. Cominciò riferendo di una volta in cui Dennis e Ron avevano fatto il giro dei bar a Oklahoma City, un racconto riferitogli da Fritz che non c'entrava niente con l'omicidio Carter. Saunders obiettò e il giudice Jones accolse l'obiezione. Tenney parlò allora di quando lui e Fritz avevano discusso della possibilità di un patteggiamento. Lo nominò due volte, fatto grave perché il patteggiamento presuppone un'ammissione di responsabilità. Greg Saunders obiettò e chiese l'invalidazione per vizio di forma. Il giudice Jones non accolse l'obiezione. Alla fine Tenney riuscì a proseguire senza essere costantemente interrotto dalle obiezioni. Spiegò ai giurati di aver parlato spesso con Dennis e di aver scritto un resoconto dettagliato di tutto quello che si dicevano al termine di ogni conversazione. Il suo capo, Gary Rogers, gli aveva detto che bisognava fare così, che era la procedura. Durante uno di questi colloqui, Dennis avrebbe detto: «Diciamo che potrebbe essere andata così: Ron le è entrato in casa e ci ha provato. Lei non c'è stata, lui si è arrabbiato e alla fine lei ci ha lasciato le penne. Supponiamo che sia andata proprio così. Io però non l'ho visto. Come faccio a dire che è successa una cosa che non ho visto?». Dopo la deposizione di Tenney l'udienza fu tolta e Dennis venne riaccompagnato in carcere, dove si tolse il completo, lo appese con cura su una gruccia e lo consegnò alla guardia. Poi si coricò sulla branda, chiuse gli occhi e si domandò come sarebbe andato a finire quell'incubo. Lui sapeva che i testimoni mentivano, ma alla giuria sarebbe apparso altrettanto chiaro? Il mattino dopo Bill Peterson chiamò a deporre Cindy McIntosh, che dichiarò di aver incontrato Dennis Fritz e Ron Williamson mentre era in carcere per emissione di assegni scoperti. Disse di averli sentiti mentre parlavano. Ron chiedeva a Dennis ragguagli sulle foto dell'omicidio Carter. «Era sul letto o per terra?» aveva chiesto a Fritz. Non vi era stata risposta.

Cindy McIntosh ammise di essere stata poi prosciolta. «Ho pagato gli scoperti e mi hanno lasciato libera.» Finite le spie, Peterson tornò a prove un tantino più credibili. Chiamò a deporre quattro tecnici dei laboratori forensi di Stato che, come spesso succede, ebbero un profondo impatto sulla giuria. Erano colti, istruiti, qualificati, esperti e lavoravano per lo Stato dell'Oklahoma. Erano periti, uomini di scienza! Ed erano lì per testimoniare contro l'imputato, per dimostrare la sua colpevolezza. Il primo a deporre fu Jerry Peters, del laboratorio di dattiloscopia. Spiegò ai giurati di aver analizzato ventidue impronte rilevate nell'appartamento e nella vettura della vittima, diciannove delle quali appartenevano a lei, una all'ispettore Dennis Smith, una a Mike Carpenter e nessuna a Ron Williamson o Dennis Fritz. Non capita spesso che il perito al banco dei testimoni dichiari che sul luogo del delitto c'erano molte impronte, ma non quelle dell'imputato. Larry Mullins riferì di aver prelevato nuovamente le impronte della Carter il maggio precedente, quando il corpo era stato esumato, e di averle consegnate a Jerry Peters, il quale aveva notato alcune cose che quattro anni e mezzo prima dovevano essergli sfuggite. La teoria del pubblico ministero, la stessa che venne poi esposta anche al processo contro Ron Williamson, era che nel corso della violenta e prolungata colluttazione, Debbie Carter si fosse ferita e sporcata di sangue la mano sinistra, con cui aveva sfiorato il rivestimento della parete di camera sua. Poiché l'impronta di quel palmo non corrispondeva né a quella di Ron né a quella di Dennis, e non poteva essere del vero assassino, doveva per forza essere di Debbie. Mary Long era un tecnico che si occupava prevalentemente di identificazioni attraverso i liquidi corporei. Spiegò alla giuria che il venti per cento della popolazione appartiene alla categoria dei cosiddetti "non secretori", in cui è impossibile risalire al gruppo sanguigno da liquidi corporei quali saliva, liquido seminale e sudore. Le analisi su sangue e saliva evidenziavano che Williamson e Fritz appartenevano entrambi a questa categoria. Il liquido seminale prelevato sulla scena del crimine apparteneva probabilmente a un non secretore, sebbene la Long non potesse determinarlo con certezza perché la quantità era insufficiente. L'ottanta per cento della popolazione era quindi escluso dalla rosa dei

sospetti. Naturalmente, era una percentuale approssimativa, però adesso Fritz e Williamson si ritrovavano addosso la minacciosa etichetta di "non secretori". I dati statistici citati della Long risultarono del tutto inutili quando Greg Saunders la costrinse ad ammettere che quasi tutti i campioni di sangue e saliva analizzati in relazione al caso Carter appartenevano a "non secretori". Fra i venti esaminati, infatti, dodici erano di non secretori, fra cui Fritz e Williamson. Se in media i non secretori rappresentano solo il venti per cento della popolazione, nel caso specifico erano il sessanta per cento. Ma di questo non si tenne conto. L'importante era che la testimonianza di Mary Long escludeva molti indagati e aumentava i sospetti nei confronti di Dennis Fritz. L'ultimo teste chiamato a deporre dall'accusa fu di gran lunga il più efficace. Peterson se l'era lasciato per ultimo a ragion veduta: quando Melvin Hett concluse la sua deposizione, i giurati erano convinti. Hett era il tricologo dell'OSBI, che aveva già deposto in tribunale molte volte nel corso della sua carriera mandando in galera un gran numero di persone. L'esame delle formazioni pilifere a scopi forensi risale alla fine dell'Ottocento. Nel 1882 in un caso del Wisconsin un "perito" confrontò un capello "di provenienza nota" con uno ritrovato sul luogo del delitto e dichiarò che derivavano entrambi dalla medesima fonte. Il verdetto fu di condanna, ma in appello la Corte suprema del Wisconsin ribaltò la sentenza e dichiarò "pericolosa" l'adozione di esami poco attendibili. Migliaia di innocenti si sarebbero risparmiati un sacco di tribolazioni, se di quell'opinione si fosse tenuto più conto. Invece polizia, investigatori, tecnici di laboratorio e pubblici ministeri continuarono a dare troppo peso alle analisi delle formazioni pilifere, forse perché spesso peli e capelli erano gli unici indizi rinvenuti sulla scena del crimine. Tali analisi divennero così comuni e controverse che furono oggetto di numerosi studi nel corso del ventesimo secolo. Siccome molti di questi sottolineavano l'elevata percentuale di errori, nel 1978 la Law Enforcement Assistance Administration finanziò un progetto di ricerca cui parteciparono i duecentoquaranta migliori laboratori forensi del paese. I risultati di diverse analisi su materiale biologico, formazioni pilifere comprese, effettuati dai vari laboratori vennero quindi confrontati.

Nel caso delle formazioni pilifere l'esito della ricerca fu disastroso: la maggioranza dei laboratori perveniva a conclusioni scorrette in quattro casi su cinque. Non fu l'unico studio a mettere in dubbio l'affidabilità delle analisi tricologiche. Stando ad altre ricerche, l'esame risultava più attendibile quando il tecnico che lo effettuava non conosceva il nome del principale indagato. Si eliminava così qualsiasi pregiudizio, anche non intenzionale. Se il tecnico sapeva di chi sospettava la polizia, l'accuratezza del test calava drammaticamente. Il desiderio anche inconscio di pervenire a una determinata conclusione influenzava l'interpretazione dei risultati. Le analisi tricologiche sono tutt'altro che affidabili e spesso i risultati sono espressi come segue: "Il capello di provenienza nota e quello di provenienza ignota risultano compatibili all'esame al microscopio e potrebbero derivare dalla medesima fonte". Le probabilità che invece non derivino dalla medesima fonte spesso sono altrettanto alte, ma in genere questo il perito non lo specifica, a meno che l'avvocato difensore non lo costringa. Le centinaia di peli e capelli raccolti da Dennis Smith nell'appartamento di Debbie Carter seguirono un percorso lungo e tortuoso, passando per le mani di tre tecnici dell'OSBI insieme a decine e decine di peli e capelli "di provenienza nota", prelevati ai conoscenti della vittima. Mary Long divise i campioni e li sistemò nel suo laboratorio, ma li passò a Susan Land nel marzo del 1983, quando Dennis Smith e Gary Rogers erano ormai convinti che gli assassini fossero Fritz e Williamson. Per lo sgomento degli investigatori, tuttavia, il rapporto della Land dichiarava che le formazioni pilifere da lei esaminate al microscopio risultavano compatibili soltanto con quelle di Debbie Carter. Per un breve periodo di tempo, quindi, Fritz e Williamson furono esclusi dalla rosa degli indagati, anche se non lo sapevano. Non lo sapevano neppure i loro avvocati, che non ebbero la possibilità di leggere il rapporto. L'accusa aveva bisogno di un'altra perizia. Nel settembre del 1983, ufficialmente perché il carico di lavoro della Land era troppo elevato, il caso venne "trasferito" a Melvin Hett. Era una cosa alquanto insolita, tanto più che la Land e Hett lavoravano non solo in laboratori diversi, ma anche in regioni diverse: lei nel laboratorio forense centrale di Oklahoma City, lui nella sede distaccata di Enid, competente per diciotto contee, ma non quella di Pontotoc.

Hett fu a dir poco metodico. Impiegò ventisette mesi per effettuare le analisi. Un tempo lunghissimo, tenuto conto che riguardavano solo le formazioni pilifere di Dennis Fritz, Ron Williamson e Debbie Carter, perché le altre ventuno non erano altrettanto importanti e potevano aspettare. Dal momento che la polizia sapeva chi aveva ucciso Debbie Carter, informò Melvin Hett: il perito, quando ricevette i campioni da Susan Land, trovò la scritta INDAGATO su quelli di Fritz e Williamson. A Glen Gore non era ancora stato prelevato alcun campione biologico. Il 13 dicembre 1985, tre anni dopo l'omicidio, Melvin Hett firmò il proprio rapporto, in cui dichiarava che all'esame al microscopio le formazioni pilifere in questione risultavano compatibili con i campioni "di provenienza nota" appartenenti a Fritz e Williamson. Dopo aver impiegato oltre due anni e più di duecento ore per compiere le prime analisi, evidentemente trovò il ritmo giusto e completò le altre ventuno in meno di un mese. Il 9 gennaio 1986 scrisse infatti il secondo rapporto, in cui attestava che i rimanenti campioni forniti dalla polizia non erano compatibili con il materiale biologico ritrovato nell'appartamento della vittima. Quelli di Glen Gore non c'erano. Il compito di Hett era tedioso e non privo di incertezze, tanto che il perito cambiò idea diverse volte. Dapprima disse che un certo pelo era di Debbie Carter, poi che era di Dennis Fritz. Le analisi tricologiche sono così, danno risultati discordanti. I risultati degli esami di Hett erano diversi da quelli della Land e persino da altri da lui condotti in precedenza. Inizialmente, infatti, Hett aveva stabilito che tredici peli pubici erano di Fritz e solo due di Williamson. Poi però cambiò idea: quelli di Williamson erano sempre due, ma quelli di Fritz dodici. Quindi i peli di Fritz diventarono undici, ma saltarono fuori anche due suoi capelli. I campioni di Gore arrivarono ai laboratori solo nel luglio del 1986. Evidentemente qualcuno al dipartimento di polizia di Ada si svegliò e decise che era meglio prelevarli anche a lui. Dennis Smith mandò per posta a Melvin Hett i capelli e i peli pubici di Glen Gore e di Ricky Joe Simmons, l'autore della confessione. Ma Hett doveva essere molto occupato, perché non si fece sentire per un anno. Nel luglio 1987 a Gore venne richiesto di fornire altri campioni. «Perché?» domandò lui. «Quelli precedenti sono andati persi» gli fu risposto.

Passarono i mesi, e da Hett nessuna notizia. Nella primavera del 1988 i due processi erano ormai vicini e Hett continuava a non aver scritto alcun rapporto sui campioni di Gore e Simmons. Lo presentò il 7 aprile 1988, quando il processo Fritz era già in corso: i campioni di Gore non risultavano compatibili con quelli raccolti sulla scena del crimine. Hett aveva impiegato due anni per giungere a questa conclusione. Anche solo la tempistica risulta sospetta. Se non altro, fa pensare che l'accusa fosse talmente convinta che Fritz e Williamson erano colpevoli da non ritenere necessario attendere i risultati di tutte le analisi per processarli. Melvin Hett credeva molto nelle analisi tricologiche, indipendentemente dai loro limiti. Divenne amico di Peterson e prima del processo gli passò una serie di articoli scientifici che sostenevano l'affidabilità di prove notoriamente inaffidabili. Non gli passò invece i numerosi articoli che mettevano in dubbio l'opportunità di usare a scopi forensi un esame così poco attendibile. Due mesi prima del processo Fritz, Hett andò a Chicago e consegnò i referti delle proprie analisi a un laboratorio privato, il McCrone, dove un suo conoscente, tale Richard Bisbing, riesaminò il suo lavoro. Bisbing era stato ingaggiato da Wanda Fritz come perito di parte. Per pagarlo, aveva dovuto vendere la macchina del figlio. Bisbing si dimostrò molto più rapido ed efficiente di Hett, ma i risultati delle sue analisi erano altrettanto controversi. Impiegò meno di sei ore a esaminare i campioni e si dichiarò in disaccordo con Hett su tutto o quasi. Degli undici peli pubici che Hett dichiarava essere compatibili con quelli di Fritz, dichiarò che soltanto tre "potevano" essere veramente i suoi. Sugli altri otto, Hett si era sbagliato. Ma il tecnico dell'OSBI non si scompose e tornò nell'Oklahoma per deporre in tribunale. Senza modificare la propria posizione. Hett salì al banco dei testimoni il pomeriggio di venerdì 8 e si lanciò subito in una pseudoconferenza infarcita di termini tecnici e scientifici volta più a impressionare i giurati che a fornire loro informazioni. Dennis Fritz, che pure era laureato e aveva insegnato scienze, non riusciva a stargli dietro. Di sicuro, se non ce la faceva lui, non potevano farcela nemmeno i giurati. Dennis li osservò: sembravano persi, ma anche favorevolmente impressionati dalla preparazione del teste. Si vedeva che era un esperto!

Hett parlò di "morfologia", "cortex", "protrusione scalare", "restringimenti a fuso", "cuticola strutturata" e "macrofibrille cheratiniche", come se tutti in aula sapessero che cos'erano. Ogni tanto si fermava a dare qualche piccola spiegazione. Con la sua aura di affidabilità, esperienza e sicurezza, si rivelò il testimone chiave. Parlava in maniera dotta e si dichiarava sicuro che alcuni dei campioni forniti dall'imputato fossero compatibili con quelli ritrovati sul cadavere. Nel corso della sua deposizione disse ben sei volte che le formazioni pilifere di Fritz risultavano compatibili con quelle raccolte sulla scena del crimine e potevano provenire dalla medesima fonte, ma nemmeno una che le probabilità che provenissero invece da una fonte diversa erano altrettanto alte. Bill Peterson continuava a dire "l'imputato Ron Williamson e l'imputato Dennis Fritz". Ron era nella sua cella, in isolamento, a strimpellare la chitarra, ignaro del fatto che lo stavano processando in contumacia e che le cose non stavano andando molto bene per lui. Hett concluse ricapitolando i risultati delle sue analisi: undici peli pubici e due capelli potevano essere di Fritz. I peli erano gli stessi che aveva portato a Chicago per farli vedere a Richard Bisbing. Nel controinterrogatorio, Greg Saunders ottenne poco o nulla. Hett fu costretto ad ammettere che le analisi tricologiche sono troppo poco affidabili per poter essere utilizzate come strumenti di identificazione certa, ma aggirò le domande più difficili facendo uso di paroloni e tenendosi sul vago. Con lui, finirono i testimoni convocati dall'accusa. Il primo teste della difesa fu Dennis Fritz. Parlò del proprio passato, dell'amicizia con Ron Williamson, ammise di aver avuto una condanna nel 1973 perché coltivava marijuana e di non averlo specificato nella domanda di assunzione alla scuola di Konawa sette anni prima. Il motivo era semplice: aveva bisogno di lavorare. Negò ripetutamente di aver mai incontrato Debbie Carter e di sapere alcunché sulla sua morte. Arrivò il momento del controinterrogatorio di Bill Peterson. Si dice che gli avvocati, quando strepitano, è perché non hanno niente da dire. Bill Peterson si avvicinò al teste, lo guardò male e cominciò a strepitare. Il giudice lo richiamò dopo pochi minuti. «Non discuto sul fatto che l'imputato possa anche esserle antipatico, ma la prego di non usare toni

collerici con lui in questa sede» gli disse sottovoce, dopo averlo fatto avvicinare allo scranno. «Non uso toni collerici» ribatté rabbioso Peterson. «Lo sta facendo» insistette Jones. «Ha alzato la voce anche con me.» «Mi scusi.» Peterson era scandalizzato dal fatto che Fritz avesse dichiarato il falso nella domanda di assunzione della scuola. Se aveva mentito in quell'occasione, voleva dire che era un bugiardo patentato. E infatti quella non era stata l'unica volta che aveva mentito: con gesto teatrale Peterson tirò fuori un modulo firmato da Fritz a un banco pegni di Durant, Oklahoma, dove aveva impegnato una pistola. Anche in quell'occasione Fritz aveva omesso la condanna del 1973. Erano due chiari segni di una marcata tendenza alla falsità. Nessuno dei due aveva a che fare con l'omicidio Carter, ma questo poco importava. Peterson insistette più che poté sulle menzogne, peraltro ammesse, di Fritz. Ci sarebbe stato da ridere, se la situazione non fosse stata così grave: Peterson si indignava perché l'imputato era un bugiardo quando il suo castello accusatorio si basava sulle menzogne di criminali e spie. Il pubblico ministero in realtà non poteva parlare di altro, perché non c'era altro di cui parlare. Ripercorse gli incredibili resoconti dei suoi testimoni, ma Dennis riuscì a tenergli testa. Dopo un'ora di domande e risposte cariche di tensione, il controinterrogatorio finì. L'unico altro testimone convocato da Greg Saunders era Richard Bisbing, il quale spiegò alla giuria di non essere d'accordo con Melvin Hett su molti punti. Era venerdì pomeriggio, si era fatto tardi e il giudice Jones aggiornò la seduta al lunedì. Dennis tornò in prigione, si cambiò e cercò di rilassarsi nella sua cella. Era convinto che Peterson non fosse riuscito a dimostrare la sua colpevolezza, ma era lungi dal sentirsi tranquillo: aveva visto gli sguardi dei giurati quando avevano osservato le foto del cadavere e aveva notato come pendevano dalle labbra di Melvin Hett. Fu un lungo weekend, per lui. Il lunedì mattina cominciò con la requisitoria del pubblico ministero. Nancy Shew ricapitolò le deposizioni di tutti i testimoni dell'accusa. Greg Saunders rispose che l'accusa aveva addotto scarso materiale probatorio, non aveva soddisfatto l'onere della prova dimostrando che Fritz era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, e lo incolpava solo per asso-

ciazione: pertanto, la giuria doveva esprimere un verdetto di non colpevolezza. L'ultimo a parlare fu Bill Peterson. Blaterò quasi un'ora, citando i punti principali delle testimonianze e cercando disperatamente di convincere i giurati che dovevano credere a un'accozzaglia di spie e delinquenti. A mezzogiorno i giurati entrarono in camera di consiglio e ne uscirono sei ore dopo dichiarando di essere divisi undici contro uno. Il giudice Jones li rimandò dentro, promettendo loro di portare la cena. Intorno alle otto i giurati emisero un verdetto di colpevolezza. Dennis ascoltava con la pelle d'oca, sbigottito perché era innocente e scioccato perché la sua condanna si basava su prove assolutamente incredibili. Avrebbe voluto mettere le mani addosso ai giurati, ai poliziotti e a tutti i presenti in aula, ma si trattenne: il processo non era ancora finito. Peraltro, in fondo non era nemmeno troppo sorpreso: aveva intuito che i giurati erano contro di lui. Quei dodici cittadini rappresentavano Ada e la città di Ada voleva i colpevoli. Se la polizia e Bill Peterson erano così convinti che l'assassino fosse Dennis Fritz, un motivo dovevano pur avercelo, no? Chiuse gli occhi e pensò alla figlia Elizabeth, che ormai aveva quattordici anni ed era abbastanza grande da conoscere la differenza fra innocenza e colpevolezza. Ora che era stato condannato, sarebbe mai riuscito a convincerla di essere innocente? Mentre la folla sfilava fuori del palazzo di giustizia, Peggy Stillwell svenne. Era esausta, travolta dalle emozioni e dal dolore. Venne portata in ospedale, dove però fu subito dimessa. Emesso il verdetto di condanna, restava soltanto da decidere la pena: la giuria doveva decidere se comminare o meno la pena di morte, sulla base delle aggravanti presentate dall'accusa e delle attenuanti presentate dalla difesa. Nel caso Fritz fu un processo molto rapido: Peterson convocò Rusty Featherstone, il quale finalmente ebbe l'opportunità di spiegare alla giuria che Dennis Fritz aveva ammesso in sua presenza di aver fatto il giro dei bar di Norman con Ron Williamson quattro mesi prima della morte di Debbie Carter. A questo si riduceva la testimonianza di Featherstone: Fritz e Williamson erano andati in automobile fino a Norman e avevano passato la serata a girare da un bar all'altro. Il teste successivo, che era anche l'ultimo, aggiunse un tocco di colore a quella notte di bagordi. Si chiamava Lavita Brewer e aveva conosciuto

Fritz e Williamson nel bar dell'Holiday Inn di Norman. Avevano bevuto un paio di drink assieme e poi erano andati via con la macchina di Fritz. La Brewer era salita dietro, Williamson davanti. Pioveva. Fritz andava forte, passava con il rosso e commetteva un sacco di infrazioni, la Brewer aveva paura e a un certo punto aveva avuto una crisi isterica e aveva chiesto di scendere. Né Fritz né Williamson l'avevano minacciata o toccata, ma lei non voleva più stare in macchina con loro. Fritz però rifiutava di fermarsi e, dopo un quarto d'ora o venti minuti di battibecchi, lei aveva aspettato che Fritz rallentasse per scendere dalla macchina in corsa. Poi aveva cercato un telefono e aveva chiamato la polizia. Non erano stati commessi reati, non erano state sporte denunce. Non era successo niente di niente. Ma per Bill Peterson quell'episodio dimostrava chiaramente che Dennis Fritz era un individuo pericoloso per la società e andava messo a morte, così che nessun'altra ragazza dovesse soffrire per colpa sua. Lavita Brewer era la migliore - l'unica - testimone che fu in grado di convocare. Mentre cercava di convincere i giurati a condannarlo a morte, Peterson si voltò verso Fritz, gli puntò contro l'indice con fare accusatorio e disse: «Dennis Fritz merita di morire per ciò che ha fatto a Debra Sue Carter assieme a Ron Williamson». Al che Dennis lo interruppe e disse ai giurati: «Non l'ho uccisa io!». Due ore dopo, la giuria decise per l'ergastolo. Dennis ascoltò il verdetto, si alzò in piedi e si rivolse ai giurati: «Signore e signori della giuria, vorrei dire soltanto...». «Mi scusi!» intervenne il giudice Jones. «Dennis, non puoi!» lo ammonì Greg Saunders. Ma Dennis continuò imperterrito: «Dio sa che non sono stato io a uccidere Debbie Carter. Voglio solo che sappiate che vi perdono e che pregherò per voi». Tornato nella sua cella buia e asfittica, non riusciva a provare sollievo per il fatto di essere scampato alla pena di morte. Aveva trentotto anni, era innocente, non era mai stato un violento e si ritrovava a dover passare il resto della propria vita dietro le sbarre. Era una prospettiva molto deprimente. 9 Annette Hudson aveva seguito attentamente il processo Fritz, leggendo

tutti i giorni "l'Ada Evening News". Martedì 12 aprile il titolo di testa recitava: Fritz condannato per l'omicidio Carter. Come al solito, l'articolo parlava anche di suo fratello. "Ron Williamson, accusato dello stesso omicidio, verrà processato il 21 aprile." In effetti tutti i sei articoli che parlavano del processo Fritz nominavano almeno una volta suo fratello e il processo che lo aspettava. Come si poteva pensare di avere una giuria imparziale? Annette se lo chiedeva in continuazione. Se chi è imputato del tuo stesso omicidio viene condannato, come fai ad avere un processo giusto e imparziale nella stessa città? Comprò un completo grigio, un paio di pantaloni scuri, due camicie bianche e un paio di scarpe per suo fratello. Il 20 aprile, il giorno prima dell'inizio del processo, Ron venne accompagnato nel palazzo di giustizia per parlare con il giudice. Jones era preoccupato: aveva paura che l'imputato si comportasse in maniera distruttiva. Era una paura ragionevole, dati i trascorsi di Ron. Gli disse: «Vorrei capire che intenzioni ha riguardo alla sua presenza domani e accertarmi che non vi siano problemi in aula. Lei capisce le mie preoccupazioni?». Al che Ron rispose: «Basta che non mi diciate che ho ammazzato qualcuno». Il giudice cercò di farlo riflettere. «Ma è proprio di questo che si parlerà al processo.» «Sì, però non è giusto.» Jones sapeva che Ron era stato un grande atleta e quindi ricorse a una metafora sportiva: «È una specie di gara, di partita. Le due squadre possono sia attaccare sia difendersi e non si può prendersela con gli avversari perché ci attaccano o si difendono: fa parte del gioco». La risposta di Ron fu: «Sì, ma in questo gioco io sono il pallone che tutti pigliano a calci». Per l'accusa il processo Fritz era stato un utile riscaldamento in vista dell'appuntamento più importante. I testimoni convocati erano più o meno gli stessi, più o meno nello stesso ordine. Ma nel processo Williamson il pubblico ministero aveva due vantaggi in più. In primo luogo, l'imputato non era mentalmente in grado di difendersi in maniera adeguata e aveva anzi la tendenza a rovesciare i tavoli e urlare improperi in aula, mettendosi in cattiva luce da solo. Ron Williamson sapeva essere inquietante, a volte

faceva davvero paura. Il secondo vantaggio era che a difenderlo sarebbe stato un non vedente, e per giunta da solo. Barber, nominato dal tribunale per assistere Barney Ward, aveva ottenuto l'esonero in marzo e non era più stato sostituito. Barney Ward era un bravo avvocato, attento e competente, ma si rivelava inevitabilmente poco efficace quando c'erano di mezzo impronte digitali, peli, capelli e fotografie. Barney non vedeva l'ora che il processo cominciasse: non ne poteva più di Ron Williamson ed era stufo di passare ore e ore sul suo caso, trascurando i clienti che lo pagavano. E poi aveva paura che Ron lo aggredisse fisicamente. Chiese pertanto a suo figlio, che non era avvocato, di sedersi dietro l'imputato durante le udienze. Barney intendeva mettersi il più lontano possibile dal suo assistito, ma visto che questo voleva dire comunque pochi centimetri aveva bisogno che il figlio fosse pronto a intervenire, nel caso Ron avesse compiuto gesti inconsulti. Questo era il livello di fiducia fra l'imputato e il suo difensore. Pochi dei presenti in aula il 21 aprile, tuttavia, si resero conto che il figlio di Barney Ward aveva il compito di proteggere il padre. La maggior parte di loro era lì in quanto potenziale giurato e non aveva alcuna familiarità con il sistema. C'erano anche giornalisti, avvocati curiosi e i soliti pettegoli di provincia. In fondo, stava per essere celebrato un processo per omicidio. Annette Hudson e Renee Simmons si sedettero in prima fila, il più vicino possibile al fratello. Alcune amiche avevano offerto ad Annette sostegno e vicinanza durante il processo, ma lei aveva rifiutato: Ron era malato e imprevedibile, e le dispiaceva che le sue amiche lo vedessero in catene. Inoltre, non voleva che sentissero i particolari più raccapriccianti delle testimonianze. Lei e Renee avevano assistito all'udienza preliminare e si erano fatte un'idea di ciò che sarebbe avvenuto al processo. Ron non aveva amici in aula. Dalla parte opposta dell'ala riservata al pubblico, la prima fila era occupata dalla famiglia Carter, come nel processo Fritz. I Carter e le sorelle di Ron evitavano di incrociare gli sguardi. Era un giovedì ed era passato quasi un anno dall'esumazione del cadavere di Debbie e dall'arresto di Ron e Dennis. L'ultima volta che Ron era stato seguito da un medico risaliva a tredici mesi prima, quando era andato al centro di igiene mentale. Su richiesta di Barney Ward era stato visitato da Norma Walker, che però lo aveva visto una sola volta e brevemente. Da un anno a quella parte a dargli le medicine erano le guardie carcerarie, che

gliele somministravano in maniera quantomeno arbitraria, e il tempo trascorso in isolamento non aveva certo contribuito a migliorare la sua salute mentale. Eppure l'infermità di Ron sembrava interessare soltanto ai suoi familiari. Accusa, difesa e giudici non sollevarono nemmeno il problema. Il processo doveva essere celebrato. L'eccitazione della prima udienza svanì molto presto con la lunga e tediosa selezione della giuria. Gli avvocati rivolgevano le loro domande ai potenziali giurati e il giudice li congedava metodicamente, uno dopo l'altro. Ron si comportò bene. Si era tagliato i capelli, fatto la barba e messo degli abiti nuovi. Prese paginate e paginate di appunti, sotto gli occhi vigili del figlio di Barney, che pure era annoiatissimo. Ron non sapeva come mai fosse lì. Alla fine della giornata la selezione terminò: i dodici giurati erano tutti bianchi, sette maschi e cinque femmine. Il giudice Jones li istruì su quello che dovevano fare e li autorizzò a tornare a casa. Annette e Renee erano speranzose: uno dei giurati era il genero di una vicina di Annette, un altro era parente di un predicatore pentecostale che sicuramente aveva sentito parlare di Juanita Williamson e della sua devozione, un altro ancora era cugino alla lontana di un loro parente acquisito. Erano quasi tutte facce familiari, che Annette e Renee avevano già visto in giro per la città. Ada, in fondo, era un paesone. I giurati tornarono in tribunale la mattina dopo alle nove. Fu Nancy Shew a pronunciare l'arringa iniziale, che sembrava la fotocopia di quella che aveva fatto al processo Fritz. Barney Ward scelse di parlare dopo le deposizioni dei testimoni convocati dall'accusa. Il primo teste chiamato a deporre fu di nuovo Glen Gore, ma le cose non andarono come previsto. Dopo aver declinato le proprie generalità, Gore si zittì, rifiutandosi di parlare. Se il giudice Jones voleva prendere provvedimenti contro di lui, che facesse pure: tanto, doveva scontare comunque quarant'anni. Il motivo di quella presa di posizione non era chiaro, ma è possibile che avesse a che fare con il fatto che in quel periodo Gore era nel carcere di Stato, dove spie e informatori erano molto più malvisti che nel carcere di contea. Dopo un primo momento di confusione, il giudice Jones decise di legge-

re alla giuria la testimonianza resa da Gore all'udienza preliminare del luglio precedente. Così la giuria ascoltò comunque le invenzioni di Gore riguardo alla presenza di Ron al Coachlight la sera dell'omicidio. L'impatto fu certamente minore, ma Barney Ward fu privato della possibilità di controinterrogare il teste e di costringerlo per esempio ad ammettere i propri numerosi precedenti penali, specie quelli legati ad atti di violenza, e soprattutto a svelare che cosa avesse fatto la sera dell'omicidio. Dopo Gore, l'accusa chiamò a deporre Tommy Glover, Gina Vietta e Charlie Carter, che ripeterono la loro storia per la terza volta. Anche Gary Allen ripeté il suo bizzarro racconto a proposito di due uomini che si spruzzavano con la manichetta dell'acqua alle tre e mezzo del mattino all'inizio di dicembre 1982. Allen dichiarò esplicitamente di non aver riconosciuto Ron Williamson in nessuno dei due uomini. Era incerto anche del fatto che l'altro fosse Dennis Fritz. La verità era che Gary Allen non era in grado di riconoscere nessuno e non ricordava neppure se la sera dell'incidente fosse quella giusta. Era un tossicodipendente ben noto alla polizia. Conosceva Dennis Smith perché erano andati al college nello stesso periodo. Poco dopo l'omicidio, Dennis Smith lo aveva contattato e gli aveva chiesto se avesse visto o sentito qualcosa di sospetto nella notte fra il 7 e l'8 dicembre. Allen gli aveva riferito di aver sentito due uomini che si spruzzavano con la manichetta dell'acqua nel cortile della casa vicina, ma non era sicuro che fosse proprio quella notte lì. Dennis Smith e Gary Rogers stabilirono che doveva aver visto Fritz e Williamson che si ripulivano dal sangue dopo l'omicidio. Insistettero perché Allen fornisse loro più particolari e gli mostrarono persino una foto della scena del crimine. Gli chiesero se secondo lui i due uomini erano Fritz e Williamson, ma Allen rispose che non era in grado di affermarlo. Poco prima del processo, Gary Rogers andò a trovare Allen a casa e di nuovo cercò di dargli l'imbeccata. Sicuro che non fossero proprio Fritz e Williamson i due uomini che aveva visto nel cortile quella notte di dicembre? No, Allen non era in grado di identificarli. Rogers gli fece vedere la pistola d'ordinanza dicendo che, se non gli fosse tornata la memoria, avrebbe rischiato un bell'avvelenamento da piombo. E così Allen era andato a testimoniare, ma la memoria non gli era tornata del tutto.

Dennis Smith spiegò dettagliatamente il sopralluogo effettuato in casa Carter, le foto scattate, la raccolta di impronte digitali e di materiale biologico. Fece passare alcune fotografie fra i giurati, che alla vista del cadavere ebbero la prevedibile reazione di shock. Il fotografo della polizia aveva scattato alcune foto aeree della casa, usando la scala del camion dei pompieri. Peterson ne usò una per chiedere a Smith dove si trovasse l'abitazione di Williamson rispetto a quella della vittima. Smith la fece vedere: era a pochi isolati di distanza. Barney Ward disse: «Posso vedere le foto?». Gli vennero passate. Come volevano le regole non scritte di Ada, lui le prese e uscì dall'aula con la sua assistente Linda, che gliele descrisse una per una nei minimi dettagli. L'interrogatorio condotto da Peterson fu senza sorprese, ma Barney Ward mise a dura prova il teste. Trovava molto strano che i due presunti assassini potessero aver lottato con la vittima per tutta la casa senza lasciare neppure un'impronta. Chiese all'ispettore quali fossero le superfici migliori da cui rilevare impronte digitali. «Quelle lisce e dure, come vetri, specchi, plastica rigida, legno verniciato e così via» rispose Smith. Barney Ward gli fece allora ricostruire da quali superfici avessero rilevato impronte nell'appartamento della vittima, costringendolo ad ammettere di averne tralasciato molte, come per esempio gli elettrodomestici della cucina, la finestra aperta in camera da letto, i sanitari, i rivestimenti delle porte e gli specchi. Era un lungo elenco e l'impressione generale fu che l'ispettore avesse fatto un lavoro poco accurato. Smith ormai era nervoso e Barney Ward ne approfittò. Quando diventava troppo aggressivo, Bill Peterson o Nancy Shew obiettavano, e lui replicava aspramente. Il teste successivo fu Gary Rogers, che continuò il resoconto delle indagini. Il suo contributo più importante fu il racconto della confessione di un sogno da parte di Ron il giorno dopo l'arresto. Nel corso dell'interrogatorio risultò abbastanza plausibile, ma Barney Ward ne mise in luce le lacune. Prima di tutto, chiese a Rogers come mai la confessione di Ron non fosse stata registrata. Rogers ammise che la polizia disponeva di una videocamera che veniva usata di frequente e, incalzato da Barney, ammise che a volte, se non sapevano che cosa avrebbe detto il teste, gli ispettori preferivano non utilizzarla. Perché correre il rischio di registrare qualcosa che potesse mettere i bastoni fra le ruote dell'accusa e agevolare l'imputato? Rogers ammise che nella stazione di polizia c'era anche un registratore, che lui sapeva usare. Si giustificò dicendo che l'interrogatorio di Ron non

era stato registrato perché la procedura non lo prevedeva. Ma Barney Ward non se la bevve. Rogers ammise che nella stazione di polizia c'era anche abbondanza di carta e penne e si impappinò quando gli venne chiesto di spiegare come mai lui e Rusty Featherstone non avessero consentito a Ron di scrivere la propria dichiarazione. Non riuscì a dare spiegazioni credibili neppure del motivo per cui non gli era stata fatta leggere. La faccenda si faceva sempre più sospetta. Poi, mentre Barney insisteva per farsi dire come mai fosse stata seguita questa inconsueta procedura, Rogers commise un grosso errore. Parlò dell'interrogatorio del 1983, questa volta filmato, in cui Ron negava recisamente qualsiasi implicazione nell'omicidio Carter. Barney rimase sbigottito. Perché nessuno aveva mai fatto cenno a quel filmato? La legge prevede che prima del processo l'accusa presenti tutte le prove a discolpa dell'imputato. Barney Ward aveva redatto la documentazione necessaria per ottenerle mesi prima e a settembre la Corte aveva imposto all'accusa di fornire alla controparte tutte le dichiarazioni rese dall'imputato in relazione all'omicidio. Come avevano potuto tenergli nascosto quel video per quattro anni e mezzo? Barney aveva pochi testimoni a sua disposizione perché il castello accusatorio si basava su una serie di testimonianze, più o meno raffazzonate, secondo cui Ron aveva ammesso il reato, in diversi momenti e con varie modalità. L'unica difesa possibile era pertanto negare e confutare tali testimonianze, e a farlo poteva essere solo Ron. Barney aveva infatti intenzione di chiamarlo a deporre, sebbene quella prospettiva lo terrorizzasse. Mostrare alla giuria il filmato dell'interrogatorio del 1983 sarebbe stato importantissimo: quattro anni e mezzo prima, quando l'accusa non aveva ancora messo insieme l'accozzaglia di testimoni che avrebbe chiamato a deporre e l'imputato non aveva ancora il lungo elenco di precedenti penali che aveva adesso, Ron si era seduto davanti a una telecamera e aveva negato di aver mai avuto a che fare con l'omicidio Carter. Nella famosa pronuncia del 1963 relativa alla causa "Brady contro lo Stato del Maryland", la Corte suprema degli Stati Uniti stabilì che "la soppressione di prove favorevoli all'accusato da parte del pubblico ministero costituisce violazione ove tale materiale probatorio sia rilevante ai fini della colpevolezza o della pena, indipendentemente dalla buona o cattiva fede di colui che la attua".

I responsabili delle indagini hanno risorse di ogni genere e spesso scoprono testimoni o prove favorevoli all'indagato. Prima di quella pronuncia, avevano la possibilità di ignorare tali elementi a discolpa e non renderli pubblici. Dopo, la situazione cambiò radicalmente. Barney Ward si rivolse al giudice Jones, mentre Rogers era ancora seduto al banco dei testimoni e Peterson teneva gli occhi bassi, e chiese che il processo venisse dichiarato nullo per violazione ai sensi della "Brady". Il giudice respinse la mozione, ma promise di valutare la questione e a questo scopo fissò un'udienza. Purtroppo, in data posteriore alla fine del processo. Era venerdì sera e tutti erano stanchi. Jones aggiornò la seduta alle otto e trenta del lunedì mattina. Ron venne ammanettato e scortato fuori dell'aula da un manipolo di guardie. Fino a quel punto si era comportato bene e la cosa non era passata inosservata. La prima pagina dell'"Ada Evening News" la domenica titolava: Comincia il processo e Williamson si controlla. Il lunedì mattina il primo testimone a deporre fu il dottor Fred Jordan, che riferì nuovamente i particolari dell'autopsia effettuata sul cadavere di Debbie Carter. Era la terza volta che Peggy Stillwell sentiva la descrizione dettagliata delle violenze subite da sua figlia. Fortunatamente non poteva vedere le foto che i giurati si passavano. Le bastava vedere le loro reazioni. Dopo il dottor Jordan, fu la volta di Tony Vick, il vicino di casa, quindi di Donna Walker, la commessa del negozio aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, e poi di Letha Caldwell, la conoscente compagna di bevute. Testimonianze inutili, come al processo di Fritz. I fuochi d'artificio ebbero inizio quando al banco dei testimoni salì Terri Holland. All'udienza preliminare la Holland era riuscita a mentire impunemente, ma in presenza di Ron inventare le riuscì molto più difficile. Appena cominciò a riferire i discorsi che sosteneva le avesse fatto Ron a proposito di Debbie Carter, tutti si accorsero che l'imputato era sul punto di esplodere. Scuoteva la testa, stringeva i denti, guardava la teste come se avesse voluto ucciderla lì su due piedi. A un certo punto la donna riferì: «Mi disse che, se Debbie ci fosse stata, adesso sarebbe ancora viva». Ron esclamò a gran voce: «Oh!». Nancy Shew chiese alla teste: «Lei sentì mai Williamson fare riferimento alla Carter mentre era al telefono?».

Terri Holland rispose: «Io avevo il permesso di lavorare nella lavanderia. Ron era al telefono con sua madre e le diceva che voleva le sigarette, che gli doveva mandare qualcuno con le sigarette. Non so, forse lei non voleva, perché lui alzò la voce. E a un certo punto le urlò che, se non faceva come diceva lui, la ammazzava come aveva ammazzato Debbie Carter». Ron gridò: «Non è vero! È una bugiarda!». Nancy Shew continuò: «Signorina Holland, lei sentì mai l'imputato descrivere o comunque fornire dettagli circa la morte della Carter?». Terri Holland rispose: «Diceva che... Mi pare fosse nella cella comune, con degli altri. Raccontò che... le aveva ficcato una bottiglietta di CocaCola nel sedere e le mutande in bocca». Ron si alzò in piedi e urlò: «Non è vero e tu lo sai benissimo! Io non ho mai detto una cosa del genere! Non l'ho ammazzata io. Sei una bugiarda!». Barney lo invitò a calmarsi. E Ron: «Non ti conosco nemmeno! Ti avverto: me la paghi». Ci fu un attimo di silenzio in cui tutti trattennero il respiro e Barney Ward si alzò lentamente in piedi. Sapeva che adesso la Shew avrebbe cercato di rimediare ai danni: la sua teste chiave aveva commesso due errori madornali, la bottiglietta di Coca e le mutande. Del resto, chi mente prima o poi si tradisce. La tensione in aula era alle stelle: la teste era stata scoperta a mentire, Barney Ward era sul piede di guerra e Nancy Shew in difficoltà. Nancy Shew: «Signorina Holland, vorrei approfondire un momento alcuni particolari che lei ha appena riferito. È sicura di ricordare che si trattasse proprio degli oggetti che ha nominato? La bottiglietta di Coca-Cola, per esempio». Barney Ward: «Obiezione! La teste ha riferito i fatti in maniera molto chiara e non è corretto che l'accusa modifichi la sua deposizione in alcun modo». Terri Holland: «Coca-Cola, ketchup, non ricordo più bene...». Barney Ward: «Visto? Non si può...». Terri Holland: «È stato quattro anni fa». Ron Williamson: «Sì, certo, e tu sei una...». Barney Ward: «Sst!». Nancy Shew: «Signorina Holland, non riesce a ricordare se... So che ha sentito molte cose, però...». Barney Ward: «Signor giudice!».

Nancy Shew: «Non le viene in mente se...». Barney Ward: «Obietto a queste domande allusive, volte a imbeccare il teste». Corte: «Il pubblico ministero formuli domande più dirette, senza suggerire la risposta». Nancy Shew: «Le disse mai perché... Lei ha dichiarato che Williamson le disse di aver ucciso...». Terri Holland: «Voleva andarci a letto assieme». Ron: «Bugiarda!». Barney Ward: «Zitto». Ron Williamson (in piedi): «Questa donna è una bugiarda. Non posso starmene zitto a sentire certe cose! Non ho ammazzato Debbie Carter! Questa donna è una bugiarda!». Barney Ward: «Ronnie, per favore, siediti». Bill Peterson: «Possiamo conferire un momento con lei, signor giudice? Barney, non va bene che difensore e imputato si scambino commenti durante il procedimento». Barney Ward: «Non si tratta di commenti. Io devo...». Corte: «Un momento, per favore». Barney Ward: «Io devo parlare con un imputato così». Corte: «Un momento, un momento. Riprendiamo l'interrogatorio. Signor Williamson, le ricordo che in questa fase del procedimento non le è consentito parlare». Nancy Shew: «Signorina Holland, lei ricorda se Williamson le disse mai perché aveva fatto ciò che aveva fatto?». Terri Holland: «Perché lei non ci stava». Ron Williamson: «Non è vero! Sei una bugiarda! Io non ho mai ammazzato nessuno in vita mia!». Barney Ward: «Signor giudice, possiamo sospendere l'udienza per qualche minuto?». Corte: «Va bene. Ricordate le istruzioni che avete ricevuto. La giuria può uscire». Ron Williamson: «Posso parlare un attimo con questa donna? Mi ci fate parlare un momento solo? Io non so perché dice 'ste cose...». La breve pausa allentò un pochino la tensione. In assenza della giuria, il giudice Jones parlò con calma a Ron, il quale assicurò di essere in grado di controllarsi. Quando i giurati rientrarono, il giudice spiegò loro che per

esprimere il verdetto avrebbero dovuto basarsi solo sulle prove e non sui commenti di avvocati e pubblici ministeri o sulle parole e le azioni dell'imputato. Ma la freddezza con cui Ron aveva minacciato Terri Holland di fargliela pagare sarebbe rimasta impressa nei giurati. Ron li aveva spaventati. Nancy Shew non fu in grado di rimediare interamente al danno. Con le sue domande tendenziose era riuscita a trasformare la Coca-Cola in ketchup, ma il particolare delle mutande non era stato corretto. Terri Holland non menzionò neppure una volta lo straccio insanguinato. La teste successiva, convocata dall'accusa allo scopo di far luce sulla verità, era Cindy McIntosh. Ma la ragazza era talmente confusa che non riusciva nemmeno a ricordare quello che doveva dire. Andò subito nel pallone e venne congedata prima di concludere la sua deposizione. Mike Tenney e John Christian riferirono le loro chiacchierate notturne con Ron nella sua cella e alcune delle strane cose che aveva detto. Nessuno dei due si premurò di osservare che Ron ripeteva continuamente di non aver mai avuto a che fare con Debbie Carter e con la sua morte, e che urlava per ore protestando la propria innocenza. Dopo una breve pausa per il pranzo, Peterson presentò i tecnici dell'OSBI nell'ordine in cui li aveva fatti deporre al processo Fritz. Jerry Peters riferì di aver rilevato nuove impronte dopo l'esumazione del cadavere perché incerto riguardo a una piccola parte del palmo sinistro. Barney Ward cercò di farsi dire come mai questa piccola parte era diventata tanto importante a quattro anni e mezzo di distanza dall'autopsia, ma Peters fu evasivo. Aveva continuato a pensarci tutto quel tempo o gli aveva telefonato Peterson all'inizio del 1987 per chiedergliene ragione? Peters si tenne sul vago. Larry Mullins disse più o meno le stesse cose di Peters: l'impronta insanguinata sul rivestimento della parete della camera da letto apparteneva a Debbie Carter e non a un misterioso assassino. Mary Long dichiarò che Ron Williamson era un "non secretore" e lo piazzò in una minoranza di individui che comprendeva solo il venti per cento della popolazione. L'uomo che aveva stuprato Debbie apparteneva probabilmente a questa categoria. Con un certo sforzo, Barney Ward riuscì a farle ammettere che gli individui su cui aveva effettuato le analisi erano esattamente venti, compresa la vittima, e che di questi venti i "non secretori" erano dodici, ovvero il sessanta per cento. E si divertì a fare un po' di calcoli.

La deposizione di Susan Land fu breve. Aveva cominciato lei le analisi sulle formazioni pilifere raccolte per il caso Carter, ma poi l'aveva sostituita Melvin Hett. Quando Barney Ward gliene chiese il motivo, rispose: «In quel periodo lavoravo a parecchi casi di omicidio ed ero molto stressata, perciò avevo paura di non essere abbastanza obiettiva. Non volevo fare sbagli, insomma». Melvin Hett prestò giuramento e si lanciò in una disquisizione tecnica praticamente uguale a quella pronunciata al processo Fritz. Descrisse il procedimento con cui venivano raffrontate al microscopio le formazioni pilifere di provenienza nota e ignota, dando l'impressione che si trattasse di una prova attendibile. Non poteva essere altrimenti, vista la frequenza con cui veniva utilizzata in tribunale. Hett disse alla giuria di aver svolto perizie tricologiche in "migliaia" di casi. Mostrò diagrammi di diversi tipi di strutture pilifere e ne spiegò le venticinque-trenta caratteristiche distintive. Quando finalmente arrivò a Ron Williamson, dichiarò che due peli pubici raccolti dal letto della vittima risultavano al microscopio compatibili con i suoi e presumibilmente provenienti dalla stessa fonte. Anche due capelli ritrovati sullo straccio insanguinato risultavano al microscopio compatibili con quelli di Williamson e presumibilmente provenienti dalla stessa fonte. Quelle quattro formazioni pilifere avrebbero potuto altrettanto probabilmente provenire da una fonte diversa, ma Melvin Hett questo non lo disse. A un certo punto, però, fece una gaffe. A proposito dei due capelli disse: «Erano gli unici capelli che corrispondevano a Ron Williamson, o che comunque erano compatibili con i suoi». Nelle analisi tricologiche parlare di "corrispondenza" è improprio e terribilmente fuorviante. Un giurato che non conosce la materia forse non capisce appieno il concetto di "compatibilità" tra formazioni pilifere, ma quello di "corrispondenza" gli è chiarissimo: è più comprensibile, semplice, immediato. Come nelle impronte digitali, la corrispondenza elimina ogni dubbio. Quando Hett usò per la seconda volta il termine "corrispondenza", Barney Ward obiettò, ma il giudice Jones respinse l'obiezione, invitandolo a chiarire il punto nel corso del controinterrogatorio. È incredibile che a Hett fosse concesso tenere quell'atteggiamento ed esprimere una serie di opinioni personali, anziché dare ai giurati spiegazioni scientifiche. Per aiutarli a valutare le prove, in genere i periti si servono di foto e accostano ingrandimenti dei campioni di provenienza nota e ignota sottoline-

andone somiglianze e differenze. Come disse Hett, le caratteristiche distintive sono circa venticinque e un buon perito vuole che i giurati le comprendano bene. Hett no. Dopo aver lavorato a quel caso quasi cinque anni, dedicandoci un numero spropositato di ore, redigendo tre rapporti, non mostrò alla giuria nemmeno una foto, non confrontò nemmeno uno dei campioni prelevati da Ron Williamson con uno dei campioni raccolti sul luogo del delitto. Si limitò a chiedere alla giuria di credergli sulla parola, senza supportare le proprie opinioni con lo straccio di una prova. La chiara implicazione della testimonianza di Hett era che due peli e due capelli ritrovati sul luogo dell'omicidio erano di Ron Williamson. La sua deposizione era mirata a questo. La sua presenza e la sua testimonianza esemplificavano l'impossibilità di garantire un giusto processo agli imputati nullatenenti che non potevano permettersi una perizia di parte. Barney Ward l'aveva richiesta per tempo, ma il giudice Jones non gliel'aveva concessa. Era stata una leggerezza, da parte sua. Tre anni prima alla Corte suprema era arrivato un caso, proprio dall'Oklahoma, che aveva fatto tremare le corti di giustizia di tutto il paese. Nella sentenza relativa al caso "Ake contro lo Stato dell'Oklahoma", la Corte scrisse infatti: "Quando lo Stato si avvale del proprio potere di processare un individuo nullatenente deve assicurarsi che questi abbia la possibilità di difendersi adeguatamente... La legge non è più uguale per tutti ove per motivi economici all'imputato sia preclusa una partecipazione significativa a un procedimento giudiziario in cui rischia di perdere la libertà". Questa sentenza imponeva all'amministrazione statale di fornire agli indigenti gli strumenti indispensabili per potersi difendere, ma fu ignorata dal giudice Jones sia nel processo Fritz sia nel processo Williamson. Le prove scientifiche costituivano il nucleo fondamentale del castello accusatorio. Il pubblico ministero poté avvalersi di Jerry Peters, Larry Mullins, Mary Long, Susan Land e Melvin Hett, tutti periti. Ron soltanto di Barney Ward, un avvocato in gamba e preparato, ma purtroppo non vedente. Melvin Hett era l'ultimo testimone convocato dall'accusa. Barney Ward aveva preferito non pronunciare la propria arringa in apertura del processo, rimandandola a quel momento. Era una mossa rischiosa: la maggioranza dei difensori non vede l'ora di cominciare a instillare dubbi su dubbi nei

giurati e a contestare le prove addotte dall'accusa. L'arringa iniziale e quella finale sono gli unici momenti in cui l'avvocato può rivolgersi direttamente alla giuria e sono quindi troppo importanti per potervi rinunciare. Invece Barney Ward vi rinunciò nuovamente, sorprendendo tutti. Non spiegò il motivo di questa scelta - non era tenuto a farlo -, ma si trattò di una tattica alquanto inusuale. Chiamò a deporre sette detenuti, che negarono, uno dopo l'altro, che Ron Williamson avesse mai ammesso qualsiasi implicazione nell'omicidio di Debbie Carter. Il cancelliere della contea di Pontotoc era Wayne Joplin. Barney lo chiamò al banco dei testimoni per ricapitolare con lui i precedenti di Terri Holland. Arrestata nell'ottobre 1984 nel New Mexico, era stata trasferita nel carcere di Ada, dove aveva prontamente aiutato a risolvere due misteriosi omicidi, sebbene nel caso di Ron avesse aspettato due anni a denunciare alla polizia la sua drammatica confessione. Si era dichiarata colpevole di emissione di assegni scoperti ed era stata condannata a cinque anni di reclusione - di cui tre le erano poi stati abbuonati -, oltre al pagamento di 70 dollari per le spese legali, più 527,09 dollari a copertura degli assegni emessi, più 225 dollari per la parcella dell'avvocato, da pagarsi all'avvocato in rate da 50 dollari al mese, al Department of Corrections in rate da 10 dollari al mese e al Crime Victims Compensation Fund in rate da 50 dollari al mese. Aveva effettuato un pagamento di 50 dollari nel maggio 1986, poi nessuno le aveva più chiesto niente. Barney Ward era arrivato all'ultimo teste, il più importante: Ron. Farlo testimoniare era rischioso, perché Ron era lunatico, capace di esplodere come aveva fatto con Terri Holland e di spaventare ulteriormente la giuria. Aveva anche precedenti penali sui quali Peterson poteva battere per attaccare la sua credibilità. Non si sapeva quante e quali medicine stesse prendendo. Era rabbioso, imprevedibile e, soprattutto, non era stato sufficientemente preparato. Barney Ward chiese di parlare con il giudice, si avvicinò allo scranno e disse: «Vorrei fare una piccola pausa per cercare di prepararlo e di calmarlo un po'. Mi sembra abbastanza... Voglio dire, si è comportato piuttosto bene. Ma una pausa ci vorrebbe comunque». «Ha un unico eventuale teste, avvocato?» domandò Jones. «Sì, signor giudice. Ed "eventuale" è la parola giusta.» Durante la pausa per il pranzo, Ron venne accompagnato in carcere.

Passando davanti al padre della vittima, urlò: «Signor Carter, non ho ammazzato io sua figlia!». Le guardie allungarono ulteriormente il passo. Alle tredici Ron prestò giuramento. Dopo una serie di domande preliminari, negò di aver mai parlato con Terri Holland e di aver mai visto Debbie Carter. Barney gli chiese quando aveva saputo della sua morte e lui rispose: «L'8 dicembre, quando mia sorella telefonò a casa e parlò con mia madre. A un certo punto, la sentii che diceva: "Ron non è stato, perché era a casa con me". Le chiesi a cosa si riferiva, e lei mi disse che le aveva telefonato Annette e le aveva detto che proprio vicino a casa nostra era stata uccisa una ragazza». La mancanza di preparazione apparve ancor più chiaramente poco dopo, quando Barney chiese a Ron di riferire il primo incontro con Gary Rogers. «E poco dopo mi chiamarono a fare la prova con la macchina della verità.» Barney rimase senza parole: «Di questo non si può parlare in questa sede...». Davanti alla giuria il poligrafo non si poteva neppure nominare. Se l'avesse fatto l'accusa, il processo sarebbe stato invalidato. Ron, però, non lo sapeva, non glielo aveva detto nessuno. Alcuni secondi dopo ripeté l'errore. «Ero con Dennis Fritz e stavamo passeggiando. A un certo punto gli ho detto che mi aveva chiamato Smith per dirmi che i risultati della prova con la macchina della verità erano "non conclusivi".» Barney tirò dritto e cambiò discorso. Parlarono brevemente della condanna per falsificazione di assegni e quindi della sera dell'omicidio. Alla fine, Barney gli chiese con pacatezza: «Ha ucciso lei Debbie Carter?». «Nossignore. Non sono stato io.» «Per me è tutto.» Nella fretta di finire prima che Ron facesse qualche scempiaggine, Barney trascurò di contestare le dichiarazioni rese dai testimoni dell'accusa. Ron avrebbe potuto spiegare le modalità con cui aveva confessato il proprio sogno a Rogers e Featherstone la sera dopo l'arresto. Avrebbe potuto spiegare i colloqui avuti in carcere con John Christian e Mike Tenney. Avrebbe potuto descrivere la disposizione degli spazi nel carcere e dimostrare ai giurati che era impossibile che Terri Holland avesse sentito ciò che aveva riferito senza che lo sentisse anche qualcun altro. Avrebbe potuto contraddire Glen Gore, Gary Allen, Tony Vick, Donna Walker e Letha Caldwell.

Peterson, naturalmente, non vedeva l'ora di poter controinterrogare l'imputato. Non si aspettava che lui gli tenesse testa, però. Esordì parlando dei rapporti fra Ron e Dennis Fritz, già condannato per lo stesso omicidio. «Dennis Fritz era il suo unico amico e lei era l'unico amico di Dennis Fritz. Dico bene, signor Williamson?» «Be', mettiamola così» rispose freddo Ron. «Avete incastrato lui e adesso volete incastrare anche me, dico bene?» Le sue parole riecheggiarono minacciose in aula. Peterson prese fiato. Cambiò discorso e domandò a Ron se ricordava di aver mai visto Debbie Carter, cosa che lui negava continuamente. Sentendoselo chiedere per l'ennesima volta, Ron rispose: «Senta, Peterson, glielo dico per l'ultima volta». Il giudice intervenne per ammonire il teste a limitarsi a rispondere alle domande. Ron negò ancora una volta di aver mai incontrato Debbie Carter. Peterson provò e riprovò a farlo cadere in contraddizione, senza riuscirci. E si ritrovò in acque pericolose non appena ripropose la propria teoria. «Dove si trovava la sera del 7 dicembre 1982 dopo le ventidue?» Ron Williamson: «A casa». Bill Peterson: «E cosa faceva?». Ron Williamson: «Dopo le dieci? Cinque anni fa? Probabilmente guardavo la tele o dormivo». Bill Peterson: «Non aprì forse la porta di soppiatto e uscì lungo il vicolo che...». Ron Williamson: «No. Non mi mossi da casa». Bill Peterson: «Lungo il vicolo che passa dietro la casa?». Ron Williamson: «No. Non presi nessun vicolo». Bill Peterson: «Insieme a Dennis Fritz». Ron Williamson: «Lei mi... No. Non mi mossi da casa, gliel'ho detto». Bill Peterson: «Raggiungeste l'appartamento di Debbie Carter...». Ron Williamson: «No». Bill Peterson: «Lei sa dove si trovava Dennis Fritz quella sera?». Ron Williamson: «So che non era a casa di Debbie Carter, mettiamola così». Bill Peterson: «E come fa a sapere che Dennis Fritz non si trovava a casa della Carter?». Ron Williamson: «Perché l'avete incastrato voi». Bill Peterson: «Come fa a sapere che Dennis Fritz non si trovava a casa della Carter?». Ron Williamson: «Ci metterei la mano sul fuoco, mettiamola così».

Bill Peterson: «Ci dica come fa a saperlo». Ron Williamson: «Non lo so. E non mi faccia altre domande, per favore. Sono stufo, me ne vado. Dica alla giuria tutto quello che vuole, ma io lo so che l'avete incastrato, come adesso state cercando di incastrare me». Barney Ward: «Ronnie». Ron Williamson: «Mia madre ve l'ha detto e ripetuto, che io ero a casa con lei. Sono cinque anni che non mi lasciate vivere, con questa storia. Adesso potete farmi tutto quello che volete, non me ne frega più niente». Peterson lo congedò e tornò a sedersi. Nell'arringa finale, Barney Ward cercò di screditare il più possibile la polizia e il lavoro che aveva svolto: indagini durate troppo tempo, la perdita dei campioni biologici di Glen Gore, il mancato approfondimento dei suoi movimenti la sera del 7 dicembre, l'impronta lasciata da Dennis Smith sulla scena del crimine, le ripetute richieste di materiale biologico a Ron, le modalità poco ortodosse con cui gli era stato fatto confessare un sogno, la mancata presentazione del filmato del precedente interrogatorio di Ron, le contraddizioni e i ripensamenti dei periti dell'OSBI. L'elenco degli errori era lungo e variegato. Riferendosi agli ispettori che avevano partecipato alle indagini, Barney Ward li chiamò Keystone Kops. Come tutti i bravi avvocati, sottolineò che il dubbio sulla colpevolezza dell'imputato era molto più che ragionevole e fece appello al buonsenso dei giurati. Bill Peterson esordì ribattendo che era invece evidente che Ron Williamson era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. I poliziotti, tutti capaci professionisti, avevano compiuto un lavoro esemplare e insieme alla procura avevano presentato alla giuria prove incontrovertibili della colpevolezza dell'imputato. Citò Melvin Hett e le sue analisi scientifiche, senza però avere il vocabolario tecnico necessario. Disse: «Così Hett esamina, elimina, esamina, elimina e finalmente, nel 1985, trova una corrispondenza». Barney Ward scattò subito in piedi. «Non risulta alcuna "corrispondenza". È un termine improprio, per questo tipo di analisi.» L'obiezione venne accolta. Bill Peterson continuò, ricapitolando le deposizioni dei suoi testimoni. Arrivato a Terri Holland, vide che Ron si irrigidiva. Bill Peterson: «Terri Holland vi ha detto ciò che ricorda a distanza di due anni e cioè che l'imputato disse alla madre che, se non gli avesse por-

tato una cosa...». Ron saltò in piedi e gridò: «Non è vero!». Bill Peterson: «... le avrebbe fatto fare la fine che aveva fatto fare a Debbie Carter». Ron Williamson: «Si rimangi subito tutto quello che ha detto! Non ho mai pronunciato quelle parole!». Barney Ward: «Siediti, Ron. Calmati». Il giudice: «Signor Williamson». Ron Williamson: «Non ho detto quelle cose a mia madre». Barney Ward: «Ronnie». Il giudice: «Dia retta al suo avvocato, signor Williamson». Ron si sedette, fumante di rabbia. E Peterson proseguì la sua requisitoria, stravolgendo le parole dei testimoni in maniera tanto smaccata che Barney Ward fu costretto a obiettare più volte e il giudice Jones dovette richiamarlo, ricordandogli di attenersi ai fatti. La giuria si ritirò alle dieci e un quarto di mercoledì mattina. Annette e Renee restarono in aula un po', poi uscirono per pranzare anche se non avevano appetito, agitate come erano. Dopo aver ascoltato i testimoni, erano ancora più convinte dell'innocenza del fratello, ma Peterson era un osso duro e perdeva di rado. Anche al processo di Fritz le prove sembravano scarne e insufficienti, ma alla fine il verdetto era stato di condanna. Annette e Renee odiavano il procuratore. Era un uomo arrogante, invadente e spietato, che stava facendo molto male al loro fratello. Passarono le ore e alle quattro e mezzo arrivò la notizia che la giuria era pervenuta a un verdetto. L'aula si riempì rapidamente, il giudice Jones prese posto e raccomandò calma e silenzio a tutti i presenti. Annette e Renee si tennero per mano e pregarono. Anche i Carter, dall'altra parte della sala, si tenevano per mano e pregavano. Il loro strazio stava per finire. Alle 16.40 il portavoce della giuria consegnò all'assistente del giudice il verdetto, che lo sbirciò e lo passò a Jones. Il giudice lo lesse ad alta voce: Ron Williamson era stato dichiarato colpevole di tutti i reati ascrittigli. I Carter si lasciarono andare a piccole manifestazioni di giubilo, Annette e Renee scoppiarono silenziosamente a piangere. Anche Peggy Stillwell piangeva. Ron, a testa bassa, era scosso ma non del tutto sorpreso. Dopo undici mesi di carcere aveva capito che il sistema era marcio. Sapeva che Dennis

Fritz era innocente eppure era stato condannato dallo stesso procuratore, nella stessa aula, con l'aiuto degli stessi ispettori di polizia. Il giudice Jones, ansioso di finire, diede la parola al pubblico ministero, senza neppure ordinare una pausa. Nancy Shew spiegò ai giurati che, in considerazione dell'efferatezza, della brutalità e della crudeltà del reato, commesso anche al fine di sfuggire all'arresto, la giusta pena era la morte. L'imputato rappresentava un pericolo per la società ed era altamente probabile che potesse uccidere di nuovo. Per dimostrarlo, chiamò a deporre quattro testimoni, quattro donne con cui Ron aveva avuto a che fare e che non avevano mai sporto denuncia nei suoi confronti. La prima si chiamava Beverly Setliff e dichiarò che la sera del 14 giugno 1981, sette anni prima, mentre si preparava per andare a dormire, aveva visto Ron Williamson fuori da casa sua. Ron aveva gridato: «Ehi tu, lo so che sei in casa. Adesso vengo e ti prendo!». Non l'aveva mai visto prima. Aveva chiuso la porta a chiave e lui era scomparso. Non aveva chiamato la polizia, non ci aveva neanche pensato. Solo il giorno dopo, incontrando per caso un poliziotto, le era venuto in mente di denunciare il fatto. Gli aveva raccontato l'episodio. Se poi questi avesse mai verbalizzato la cosa, lei non lo sapeva. Di sicuro, non aveva mai firmato nulla. Tre settimane dopo, aveva rivisto Ron e un amico glielo aveva presentato. Passati sei anni, quando Ron era stato arrestato, si era sentita in dovere di chiamare la polizia e riferire i fatti di quella sera. La seconda testimone era Lavita Brewer, la stessa donna che aveva testimoniato contro Dennis Fritz. Raccontò di nuovo la sua storia: aveva incontrato Ron e Dennis in un bar di Norman, era salita in macchina con loro, si era spaventata, era scesa dalla macchina in corsa e aveva chiamato la polizia. Ron non l'aveva toccata né minacciata in alcun modo, disse. La sua paura era dovuta al fatto che Dennis Fritz non voleva fermarsi e lasciarla scendere. La cosa peggiore che aveva fatto Ron in quell'occasione era stato dirle di star zitta. Quando alla fine la Brewer era riuscita a saltare giù dalla macchina di Fritz e aveva chiamato la polizia, non aveva comunque sporto denuncia. Depose anche Letha Caldwell. Conosceva Ron Williamson dai tempi della Byng ed era sempre stata in buoni rapporti con lui. All'inizio degli anni Ottanta, lui e Dennis Fritz andavano spesso a trovarla la sera tardi, ubriachi. Un giorno, mentre lei sistemava il giardino, si era vista davanti Ron. Avevano parlato del più e del meno. Siccome lei continuava a lavora-

re nelle aiuole, lui si era irritato e a un certo punto le aveva afferrato un polso. Lei si era liberata dalla sua stretta ed era entrata in casa. Ron l'aveva seguita, ma non l'aveva più toccata ed era andato via poco dopo. Neanche la Caldwell aveva mai sporto denuncia. L'ultima testimone fu di gran lunga la più dannosa. Si chiamava Andrea Hardcastle ed era divorziata. Riferì un episodio avvenuto nel 1981. Ron e un suo amico erano passati da lei per cercare di convincerla ad andare con loro al Coachlight. Andrea aveva in casa i tre figli più due loro amichetti e quindi non poteva uscire. Ron e il suo amico allora se ne erano andati, ma erano tornati poco dopo a riprendere le sigarette che avevano dimenticato. Ron era entrato in casa e aveva provato a baciare Andrea, che si era spaventata. Erano le dieci passate, i bambini erano già a dormire. Quando Andrea l'aveva respinto, Ron era andato su tutte le furie, l'aveva presa a schiaffi in faccia e le aveva ordinato di praticargli una fellati*. Lei si era rifiutata, ma aveva capito che, più gli parlava, meno lui alzava le mani. Così si era messa a chiacchierare con lui. Ron le aveva raccontato della sua carriera nel baseball, del suo matrimonio fallito, della sua chitarra, di Dio e di sua madre. Avevano scoperto che era andato a scuola con l'ex marito di lei, che fra l'altro faceva il buttafuori al Coachlight. A tratti Ron sembrava calmo e tranquillo, o addirittura sul punto di mettersi a piangere; poi, di punto in bianco, si arrabbiava e si metteva a urlare. Andrea era preoccupata per i cinque bambini in casa con lei. Fingeva di ascoltare Ron e intanto pensava a come liberarsi di lui, che a intervalli più o meno regolari cercava di strapparle i vestiti di dosso e la picchiava. Ubriaco fradicio, non riusciva a mantenere l'erezione. A un certo punto l'aveva minacciata di morte. O così almeno dichiarò Andrea, che spiegò di aver cambiato tattica proprio a quel punto, pregando Iddio che andasse tutto bene. Aveva invitato Ron a tornare il giorno dopo, quando sarebbe stata senza bambini, così avrebbero potuto fare tutto il sesso che volevano. Ron se n'era andato soddisfatto. Andrea aveva telefonato subito all'ex marito e al padre, che si erano messi a cercare Ron per il quartiere, armati e decisi a dargli una bella lezione. Andrea era sfigurata: aveva gli occhi gonfi, lividi e graffi da tutte le parti. Ron aveva al dito un anello con una testa di cavallo, che le aveva procurato una serie di lesioni intorno agli occhi. Il giorno dopo la polizia era stata avvertita, ma Andrea si era rifiutata di sporgere denuncia. Ron abitava lì nei pressi, aveva troppa paura.

Barney Ward fu colto di sorpresa da questa testimonianza e nel controinterrogatorio si barcamenò come poté. Quando Andrea scese dal banco dei testimoni, l'aula era immersa in un silenzio attonito. I giurati guardavano l'imputato con occhi pieni di disprezzo. Era giunto il momento che giustizia venisse fatta. Inspiegabilmente Barney Ward non chiamò testimoni per tentare in extremis di salvare la vita al suo assistito. Annette e Renee erano lì, erano disposte a testimoniare. In tutto il processo non si era mai fatto cenno alla salute mentale di Ron, ai suoi precedenti psichiatrici. Le ultime parole che i giurati sentirono furono quelle di Andrea Hardcastle. Bill Peterson pronunciò la sua requisitoria chiedendo a gran voce la pena di morte. Aveva nuove prove, fatti che in sede dibattimentale non erano stati discussi. L'anello con la testa di cavallo, per esempio, non era mai stato nominato prima della deposizione della Hardcastle. Probabilmente Ron doveva averlo al dito anche quando si era accanito contro Debbie Carter. Le lesioni sul volto di Debbie Carter dovevano essere molto simili a quelle riportate da Andrea Hardcastle nel gennaio del 1981. Naturalmente, quella di Peterson era una pura supposizione e non c'era nessuna prova a confermarla. Disse alla giuria, in tono enfatico: «Con Andrea Hardcastle lasciò la propria firma. Con Debbie Carter, la sottolineò». E concluse: «Quando tornerete qui, signore e signori, voglio che sia per dire: "Ron Williamson, lei merita di morire per ciò che ha fatto a Debra Sue Carter"». Con un tempismo perfetto, Ron disse: «Io non ho fatto niente a Debra Sue Carter». La giuria si ritirò e nel giro di due ore pervenne a una decisione: condanna a morte. Con una procedura quantomeno bizzarra, il giorno dopo il giudice Jones presiedette l'udienza relativa alla presunta violazione dei diritti dell'imputato ai sensi della "Brady". Barney Ward non ne poteva più, né di Ron né di quel processo, ma era indignato all'idea che polizia e procura gli avessero deliberatamente tenuto nascosto il filmato dell'interrogatorio del 1983. Tuttavia, che senso aveva protestare, ora che il processo era finito? Quel filmato, ormai, non sarebbe più servito a niente. Il giudice Jones stabilì che la soppressione del filmato da parte delle au-

torità non costituiva violazione ai sensi della "Brady". Non vi era stato vero e proprio occultamento, in fondo il filmato era stato messo a disposizione della controparte, seppure tardivamente. Tanto tardivamente che ormai il processo era finito. Ma ormai nessuno si sorprese più. E così Ron Williamson partì per la F Cellhouse, il famoso braccio della morte del McAlester, il penitenziario statale dell'Oklahoma. 10 L'Oklahoma prende molto seriamente la pena di morte. Quando la Corte suprema degli Stati Uniti approvò la ripresa delle esecuzioni nel 1976, i suoi legislatori si riunirono in seduta speciale per dare corso alle leggi sulla pena capitale. L'anno seguente discussero l'innovativa introduzione dell'iniezione letale al posto della vecchia sedia elettrica. La chimica era più umana e dunque meno esposta alle accuse di incostituzionalità in quanto eccessivamente crudele; insomma, era un modo per facilitare le esecuzioni. Nell'euforia del momento, con gli occhi dei giornalisti e dei contribuenti puntati addosso, i legislatori dell'Oklahoma discussero vantaggi e svantaggi delle diverse modalità per togliere la vita. Nonostante i sostenitori dell'impiccagione o dei plotoni di esecuzione, alla fine vinse a larga maggioranza l'iniezione letale e l'Oklahoma fu il primo Stato a adottarla. Ma non il primo a usarla. Per lo sgomento di politici, forze dell'ordine e procure, oltre che di buona parte dell'opinione pubblica, l'Oklahoma rimase molto indietro rispetto ad altri Stati, quanto al numero di esecuzioni. Per tredici lunghi anni in Oklahoma non si giustiziò neppure un condannato. Poi, nel 1990, l'attesa finì e i boia ricominciarono a lavorare. Il ghiaccio era rotto. Dal 1990 l'Oklahoma è lo Stato che ha il maggior numero di esecuzioni pro capite di tutti gli USA, più alto persino del Texas. Le esecuzioni hanno luogo al McAlester, il penitenziario di massima sicurezza a circa duecento chilometri da Oklahoma City. Il braccio della morte di quel famoso carcere si chiama H Unit. La pratica è sempre utile e le esecuzioni al McAlester vengono condotte con efficienza e precisione. Il giorno prima di essere giustiziati, i detenuti possono ricevere le visite di parenti, amici e avvocati. Sono momenti di grande sofferenza, resi ancor più penosi dal fatto che è vietato qualsiasi

contatto fisico. Ci si parla per telefono, separati da spessi vetri. Niente abbracci o baci di addio, solo una serie di commossi "ti voglio bene" sussurrati nella cornetta. A volte si mima un bacio posando le labbra sul vetro. La legge non proibisce il contatto fisico prima dell'esecuzione, ma ogni Stato ha le sue regole e l'Oklahoma preferisce adottare misure severe. Se il direttore del carcere è di buonumore, può autorizzare il condannato a fare qualche telefonata. Al termine di visite e colloqui, il prigioniero consuma l'ultima cena. Il menu è a scelta, entro un limite di spesa di quindici dollari e previa approvazione del direttore. Cheeseburger, pollo fritto, pesce e gelato sono i più gettonati. Un'ora prima di morire, il condannato comincia a prepararsi. Indossa una sorta di camice azzurro e, legato con cinghie di velcro a una lettiga, compie il suo ultimo viaggio fra le grida dei compagni, che sbattono contro le sbarre e prendono a calci le porte. Urla e strepiti continuano fino al momento dell'esecuzione, quando cessano di colpo. La saletta dove i condannati vengono messi a morte è bene organizzata. Mentre il detenuto si prepara, il pubblico viene fatto entrare nelle due ali riservate ai familiari della vittima e a quelli dell'assassino. La prima contiene ventiquattro sedie pieghevoli, quattro o cinque delle quali per i giornalisti, un paio per gli avvocati e altrettante per lo staff del carcere. Anche sceriffo e procuratore in genere sono presenti. Vi è poi l'ala riservata ai familiari del condannato, protetta da finti specchi, che può contenere dodici sedie pieghevoli. È raro che siano tutte occupate, tuttavia: molti condannati preferiscono che i loro cari non siano presenti, altri non hanno nessuno al mondo. A volte anche l'ala riservata ai familiari delle vittime rimane semivuota. Le due ali non sono comunicanti e i due gruppi di visitatori vengono tenuti rigorosamente a distanza. Quando il pubblico prende posto, le vetrate che danno sulla saletta dove avverrà l'esecuzione sono chiuse da tende. Viene fatta entrare la lettiga, al condannato vengono inseriti in vena gli aghi attraverso cui gli sarà iniettato il veleno e, appena tutto è pronto, si tirano le tende in maniera che il pubblico possa vedere. Finti specchi impediscono al condannato di vedere i familiari della vittima, ma non i propri. Spesso li saluta: accanto alla sua testa è posizionato un microfono. Il medico attiva il monitoraggio cardiaco, mentre un funzionario del carcere su una piccola pedana bianca prende nota di tutto ciò che accade. Accanto a lui c'è un telefono, nel caso di cambiamenti di programma dell'ultima ora dovuti a qualche problema legale o a un improvviso ripensamento

da parte del governatore. In passato c'era anche un cappellano che leggeva le Scritture, ma adesso è andato in pensione. Il funzionario domanda al condannato se ha qualcosa da dichiarare. Spesso la risposta è no, ma c'è chi chiede perdono, chi si proclama innocente, chi prega o si lancia in aspri monologhi. Un condannato, una volta, si mise addirittura a cantare. Un altro strinse la mano al direttore del carcere e ringraziò lui e tutto il personale per quello che avevano fatto per lui nel corso della sua lunga permanenza nel penitenziario. Il tempo concesso è di due minuti, ma solo di rado i condannati vengono interrotti. In genere arrivano lì rilassati, rassegnati. Hanno avuto molti anni per prepararsi a quel momento e spesso hanno accettato il loro destino. Alcuni sono addirittura sollevati che sia giunto il loro momento: preferiscono la morte alla prospettiva di passare altri venti o trenta anni nella H Unit. Dietro la lettiga c'è uno stanzino in cui si nascondono i tre boia, che non devono essere visti e la cui identità è nota solo a pochissimi all'interno del carcere. Non sono dipendenti statali, ma liberi professionisti che hanno segretamente stipulato un contratto con l'ex direttore molto tempo prima. Come arrivino o lascino il McAlester è un mistero per tutti fuorché per il direttore del carcere, che è l'unico a sapere chi sono, da dove vengono e dove si procurano il veleno. Ricevono trecento dollari a testa per ogni esecuzione. Gli aghi inseriti nella vena del condannato sono collegati a un tubicino che passa attraverso un buco nel muro e arriva nello stanzino dei boia. Compiute le formalità, il direttore si assicura che non vi siano telefonate dell'ultima ora e fa un cenno ai boia. Per prima cosa questi iniettano al condannato soluzione salina, in maniera da aprirgli le vene, poi tiopentale sodico, che mette velocemente il condannato KO, un'altra piccola dose di soluzione salina e quindi bromuro di vecuronio, che arresta il respiro. Altra piccola dose di soluzione salina ed è il momento del terzo farmaco, cloruro di potassio, che provoca l'arresto cardiaco. Compare il medico, che dopo un rapido controllo constata il decesso. Le tende si richiudono velocemente e gli spettatori, in genere turbati, escono velocemente e in silenzio. La lettiga viene portata fuori e il corpo trasferito su un'ambulanza. Se la famiglia non si organizza per ritirarlo, viene seppellito nel cimitero del carcere. Fuori del penitenziario ci sono due gruppi di manifestanti. Gli Homicide

Survivors siedono sui loro fuoristrada in attesa che venga fatta giustizia, fra pannelli che commemorano le vittime degli assassini, con foto a colori di bambini e persone sorridenti, poesie e ritagli di giornale. Poco distante, un prete cattolico guida l'altro gruppo, che in genere forma un cerchio e canta inni sacri. Alcuni oppositori della pena di morte vanno a tutte le esecuzioni a pregare non solo per il condannato, ma anche per le sue vittime. I membri dei due gruppi si conoscono e si rispettano, nonostante le idee radicalmente opposte. Quando arriva la notizia che l'esecuzione è stata portata a termine, si recitano alcune preghiere, poi si spengono le candele e i libri dei canti vengono messi via. Si scambiano saluti e abbracci. Ci vediamo alla prossima esecuzione. Quando Ron Williamson arrivò al McAlester, il 29 aprile 1988, della costruzione della H Unit si stava già parlando, ma i lavori non erano ancora cominciati. La direzione aveva richiesto un nuovo braccio della morte in grado di ospitare i sempre più numerosi condannati alla pena capitale, ma non si trovavano i finanziamenti. Ron venne quindi portato nella F Cellhouse, dove erano detenuti altri ottantuno condannati a morte. La F Cellhouse, detta comunemente The Row, comprendeva i due piani inferiori di un'ala della vecchia prigione, la Big House, una gigantesca costruzione di quattro piani completata nel 1935 e definitivamente abbandonata cinquant'anni dopo a seguito di decenni di violenze, risse e denunce per sovraffollamento. L'enorme prigione era dunque vuota a parte la F Cellhouse, che ospitava i condannati a morte. Al suo arrivo, Ron ricevette due paia di pantaloni beige, due camicie azzurre a maniche corte blu, due T-shirt bianche, due paia di calzini bianchi e due paia di boxer bianchi. Gli indumenti erano tutti usati, puliti ma pieni di macchie. Anche i boxer e le scarpe - da lavoro, nere, di cuoio - erano di seconda mano. A Ron vennero dati inoltre un cuscino, una coperta, carta igienica, dentifricio e spazzolino. Gli venne detto che poteva acquistare altri oggetti da toeletta nello spaccio del carcere, che vendeva anche generi alimentari; non gli sarebbe stato possibile andarci di persona, ma poteva farsi versare dai parenti denaro su un conto personale ed effettuare gli acquisti a distanza. Quando ebbe indossato gli abiti del carcere e ricevuto tutte le istruzioni

del caso, venne accompagnato nell'ala dove avrebbe trascorso un certo numero di anni in attesa dell'esecuzione. Venne legato mani e piedi e, con il cuscino, la coperta e i vestiti in mano, fu condotto dalle guardie oltre una pesante porta di metallo su cui campeggiava la scritta DEATH ROW, braccio della morte. Il corridoio era lungo una trentina di metri e largo poco più di tre e mezzo, con celle su ambo i lati. Il soffitto era alto due metri e mezzo. Ron e le guardie che lo scortavano lo percorsero lentamente. Era una sorta di cerimonia iniziale, un rito. I detenuti gridavano e allungavano le braccia fuori delle sbarre per toccarlo. Erano braccia bianche, nere, brune, coperte di tatuaggi, muscolose. Ron cercò di farsi forza e di non mostrare paura. I detenuti tiravano calci contro la porta della cella, urlavano, lo chiamavano a gran voce, facevano pesanti allusioni sessuali. Ron si fece coraggio. Era già stato in prigione e veniva da undici mesi nel carcere della contea di Pontotoc. Pensava di aver già visto il peggio. Si fermarono davanti alla cella numero 16 e il frastuono si acquietò. Benvenuto nel braccio della morte! La guardia aprì la porta e Ron entrò nella sua nuova residenza. In Oklahoma il McAlester è soprannominato "Big Mac". Ron si stese sulla branda e chiuse gli occhi. Non riusciva ancora a capacitarsi di essere finito al Big Mac. Nella cella c'erano due brande di metallo, una scrivania di metallo con uno sgabello fissato al pavimento, water e lavabo di acciaio inossidabile, uno specchio, una libreria di metallo e una lampadina. Misurava meno di cinque metri per due, era alta due metri e mezzo e aveva il pavimento di linoleum bianco e nero. Le pareti di mattoni erano coperte di talmente tanti strati di bianco che ormai erano lisce. Per fortuna c'era una finestra che, anche se non offriva vista alcuna, almeno faceva entrare un po' di luce. Il carcere di Ada era privo di finestre. Ron si avvicinò alla porta, che era a sbarre, con un cassetto per passare piccoli pacchi e i vassoi con il cibo. Guardò nel corridoio e vide tre uomini: quello davanti a lui nella cella numero 9 e quelli ai due lati. Non rivolse loro la parola, e neanche quelli gli dissero niente. In genere i primi giorni i nuovi detenuti se ne stanno zitti. Lo shock di finire nel luogo dove passeranno gli ultimi anni prima di venire giustiziati toglie loro la parola. La paura è forte: paura del futuro, paura di non rivedere mai più tutto ciò che si è perduto, paura di non farcela, di finire pu-

gnalati o sodomizzati dai terribili assassini che si hanno intorno. Ron mise a posto le proprie cose. Era contento della privacy di cui poteva godere: la maggior parte dei detenuti nel braccio della morte era solo in cella, ma c'era la possibilità di avere un compagno. Il rumore era costante. Si chiacchierava e si gridava da un capo all'altro del corridoio, si rideva, si sentiva la televisione a tutto volume. Ron stava distante più che poteva dalla porta e dal rumore. Dormiva, leggeva e fumava. Nel braccio della morte fumavano tutti e aleggiava una spessa nebbia puzzolente di tabacco. L'impianto di aerazione era vecchio e non funzionava e le finestre ovviamente non si potevano aprire, benché fossero fornite di sbarre. La noia era mortale. Non esisteva alcun programma, non c'erano attività a dare ritmo alle giornate, a parte una breve ora d'aria. Il tedio era insopportabile. Per uomini chiusi in una cella angusta ventitré ore al giorno inevitabilmente i pasti erano il momento clou. Venivano consumati in solitudine, nella propria cella, passati attraverso i cassetti. La colazione era alle sette e in genere consisteva in uova strapazzate e fiocchi d'avena, spesso ma non sempre pancetta, e due o tre fette di pane tostato. Il caffè in genere era tiepido e acquoso. Il pranzo consisteva in un panino e un piatto di fa*gioli. La cena era la peggiore: carne di chissà quale provenienza e verdure mal cotte. Le porzioni erano ridicolmente piccole e spesso il cibo arrivava alle celle già freddo, in quanto veniva cucinato in un altro edificio e trasportato mediante grossi carrelli. Il personale non ci badava: quegli uomini erano comunque destinati a morire. E, anche se il cibo faceva schifo, quello del pasto restava il momento clou della giornata. Annette e Renee versavano regolarmente denaro sul conto di Ron in maniera che potesse comprarsi allo spaccio cibo, sigarette, articoli da toilette e bevande analcoliche. Ron riempiva il modulo con l'elenco degli articoli disponibili e lo passava al cosiddetto "Run Man", un detenuto che godeva dei favori delle guardie e che era l'unico a poter uscire dal braccio della morte a fare commissioni per gli altri detenuti. Lo chiamavano "Run Man", l'uomo delle commissioni, per questo. Passava informazioni e pettegolezzi, raccoglieva e consegnava il bucato dalla lavanderia, andava a comprare al negozio, dispensava consigli e ogni tanto spacciava anche un po' di droga. L'ora d'aria era sacra. Si trascorreva in un cortile recintato grande come due campi da basket vicino alla F Cellhouse. Cinque giorni su sette i detenuti avevano la possibilità di passarci un'ora a prendere il sole, chiacchierare con i compagni, giocare a basket, a carte o a domino. Vi accedevano a piccoli gruppi di cinque o sei persone, la cui composizione era decisa dagli

stessi detenuti: solo gli amici uscivano assieme in cortile. Per potersi sentire al sicuro, i nuovi arrivati dovevano aspettare di essere invitati. Scoppiavano spesso litigi o addirittura risse, nonostante le guardie fossero sempre presenti e attente. Nel primo mese, Ron preferì uscire da solo: il braccio della morte era pieno di assassini, gente con cui lui non aveva nulla da spartire. L'unico altro contatto con i compagni avveniva nella doccia. Era possibile farla tre volte la settimana, per un massimo di quindici minuti, a due per volta. Se uno non voleva, o non si fidava, del proprio compagno di doccia, veniva autorizzato a lavarsi da solo. Ron si lavava da solo. C'era abbondanza di acqua calda e fredda, ma era praticamente impossibile miscelarle. Quindi la doccia si faceva bollente o gelata. Le altre due vittime del sistema giudiziario della Pontotoc County erano già nel braccio della morte all'arrivo di Ron, ma lui non lo sapeva. Tommy Ward e Karl Fontenot aspettavano il processo d'appello da quasi tre anni. Un giorno "Run Man" passò a Ron un foglietto piegato. I messaggi non erano autorizzati, ma le guardie in genere li lasciavano circolare e chiudevano un occhio. Era di Tommy Ward, che lo salutava e gli faceva gli auguri. Ron gli rispose chiedendogli delle sigarette. Benché gli dispiacesse per Tommy e Karl, lo sollevava il pensiero che non tutti gli ospiti del braccio della morte fossero spietati assassini. Aveva sempre creduto nella loro innocenza e aveva pensato spesso a loro nel corso della sua travagliata vicenda giudiziaria. Tommy aveva conosciuto Ron nel carcere di Ada e sapeva che era emotivamente instabile. Erano stati tutti e due bersaglio di scherzi crudeli da parte delle guardie e degli altri detenuti. Nel cuore della notte, si alzava una voce che diceva lugubre: «Tommy, sono Denice Haraway, digli dov'è il mio cadavere». Subito dopo, risatine e bisbigli. Tommy li aveva ignorati, e alla fine avevano smesso. Ron, invece, non ci riusciva. «Ron, perché hai ammazzato Debbie Carter?» riecheggiava lugubre la voce nel carcere di Ada. E Ron rispondeva, urlando. Nel braccio della morte, Tommy faceva di tutto per non perdere il senno. Era un posto orribile anche per gli assassini veri, ma per un innocente c'era da diventare letteralmente matti. E, se era difficile per lui, cosa doveva essere per Ron? Un giorno, non molto tempo dopo il suo arrivo nel braccio della morte, Tommy sentì una guardia che gli diceva: «Ron, sono Debbie

Carter. Perché mi hai uccisa?». Ron per un po' stette zitto, poi cominciò a urlare protestando la propria innocenza. La sua reazione divertì le guardie e le provocazioni si fecero sempre più frequenti, con il contributo anche degli altri detenuti. Ron era arrivato da poco, quando le guardie andarono da Tommy, gli aprirono la cella e lo portarono fuori in catene. Non c'era l'abitudine di informare i detenuti su dove stessero andando. Doveva essere successo qualcosa di grave, pensò Tommy. Lo portarono via con una scorta degna di un presidente, benché fosse di corporatura minuta. «Dove mi portate?» chiese. Non gli risposero. E così Tommy percorse il corridoio, uscì dalla F Cellhouse, attraversò l'atrio della Big House dalla cui cupola entravano i piccioni e venne accompagnato nell'ala che ospitava gli uffici amministrativi. Lo aspettava il direttore, con una brutta notizia. Tommy venne fatto sedere, in catene, al lungo tavolo, in mezzo a funzionari e impiegati venuti ad assistere al macabro annuncio. Le guardie restarono in piedi, impassibili e pronte a scattare al minimo movimento del detenuto. Tutti avevano carta e penna per prendere appunti. Il direttore parlò con voce grave. Tommy non aveva ottenuto il rinvio dell'esecuzione: era arrivata la sua ora. In genere i tempi erano più lunghi, era vero, ma questa volta era andata così. Al direttore dispiaceva molto, ma Tommy sarebbe stato giustiziato entro due settimane. Tommy prese fiato, incredulo. I suoi avvocati erano ricorsi in appello, gli avevano detto che il meccanismo era lento, che richiedeva molti anni e che speravano di ottenere un nuovo processo. Era il 1988 e in Oklahoma non venivano annullate condanne a morte da oltre vent'anni. Forse il sistema era un po' arrugginito. Il direttore continuò il suo discorso: i preparativi sarebbero iniziati subito, bisognava sapere che cosa fare delle spoglie. "Le spoglie?" pensò Tommy. "Il mio cadavere?" Impiegati e funzionari aggrottarono la fronte e presero un appunto. Tommy si domandò che cosa fossero venuti a fare lì. "Mandatele a mia madre" rispose Tommy. O forse cercò di dirlo, ma non gli uscì voce. Aveva le gambe molli. Le guardie lo riaccompagnarono alla F Cellhouse. Appena arrivato in cella, Tommy si mise a piangere. Non tanto per se stesso, quanto per la sua famiglia, per sua madre.

Due giorni dopo venne informato che c'era stato un errore nel trasferimento di alcune pratiche: in realtà il rinvio dell'esecuzione era stato accordato. La signora Ward non sarebbe dovuta andare a ritirare le spoglie del figlio, almeno per un po'. Purtroppo errori di quel genere erano tutt'altro che rari. Alcune settimane dopo la partenza di suo fratello da Ada, Annette aveva ricevuto una lettera dalla direzione del carcere. "Sarà normale amministrazione" aveva pensato. E forse aveva ragione, dato l'andazzo al McAlester. Gentile signora Hudson, è con sommo rammarico che la informo che suo fratello Ronald Keith Williamson, matricola numero 134846, verrà giustiziato il 18 luglio 1988 alle ore 00.02 nel penitenziario di Stato dell'Oklahoma. Il giorno 17 il condannato verrà trasferito dalla cella attualmente occupata e potrà ricevere visite nel seguente orario: 9-12, 13-16, 18-20. Tali visite saranno limitate al confessore, al legale rappresentante e ad altre due persone, previa approvazione della direzione del carcere. All'esecuzione potranno assistere cinque persone, i cui nominativi dovranno essere precedentemente notificati alla suddetta direzione. Le esequie sono a carico della famiglia, che è tenuta a provvedere alla loro organizzazione. In caso questa si rifiutasse, la salma verrà tumulata nel cimitero del carcere. Per qualsiasi informazione o chiarimento, non esiti a contattare questo ufficio. Cordiali saluti, James L. Suffle, direttore La lettera era datata 21 giugno 1988: Ron era arrivato al McAlester solo due mesi prima. Annette sapeva che in caso di condanna alla pena capitale il ricorso in appello è automatico. Possibile che la direzione del carcere non ne fosse al corrente? La lettera la turbò, ma non si lasciò scoraggiare: suo fratello era innocente, prima o poi la verità sarebbe venuta a galla. Lo credeva fermamente. Leggeva le Scritture, si incontrava frequentemente con il pastore e pregava con grande fede. Ma cominciava ad avere dei dubbi sulla gestione del penitenziario in cui

era rinchiuso suo fratello. Dopo una settimana o poco più dal suo arrivo, Ron si avvicinò alla porta della cella e salutò il detenuto della cella di fronte, la numero 9. Greg Wilhoit gli rispose e scambiò qualche parola con lui. Nessuno dei due aveva molta voglia di fare conversazione. Il giorno successivo Ron salutò di nuovo Greg e parlarono un po' di più. Il giorno dopo ancora Greg disse che era di Tulsa. Ron ci aveva abitato, con uno che si chiamava Stan Wilkins. «Il metalmeccanico?» domandò Greg. «Sì, proprio lui.» Greg lo conosceva. Era una coincidenza divertente e aiutò a rompere il ghiaccio. Ben presto, Ron e Greg incominciarono a parlare di posti e vecchi amici di Tulsa. Anche Greg aveva trentaquattro anni, anche lui amava il baseball e anche lui aveva due sorelle che lo sostenevano. E anche lui era innocente. Fu l'inizio di una profonda amicizia che aiutò tutti e due a sopravvivere a quell'inferno. Greg invitò Ron ad andare alla funzione che veniva tenuta ogni settimana per i detenuti del braccio della morte. Chi lo desiderava veniva scortato in una saletta - in catene - per pregare in compagnia del cappellano, un sant'uomo chiamato Charles Story. Ron e Greg iniziarono ad andarci, e a sedersi vicini. Greg Wilhoit era al McAlester da nove mesi. Faceva il metalmeccanico, era nel sindacato e aveva diversi precedenti per possesso di marijuana, ma nessuno per atti di violenza. Nel 1985 si era separato dalla moglie Kathy. Avevano due bambine piccole e un sacco di problemi. Greg aveva aiutato Kathy a traslocare e passava a trovare le figlie quasi tutte le sere. Speravano di riuscire a ritrovare l'accordo e una certa armonia, ma avevano bisogno di un po' di tempo da soli. Avevano ancora rapporti sessuali; nessuno dei due aveva altre relazioni. Il 1° giugno, tre settimane dopo la separazione, una vicina si preoccupò sentendo il pianto praticamente ininterrotto delle due bambine e andò a bussare alla porta di Kathy. Non ricevendo risposta, chiamò la polizia. Kathy era distesa sul pavimento al piano terra, morta. Le bambine erano di sopra nei loro lettini, affamate e terrorizzate. Kathy era stata violentata e strangolata fra l'una e le sei del mattino. La polizia interrogò Greg, che non aveva un alibi: era a letto a casa sua, solo,

a dormire. Negò di aver ucciso la moglie e si scandalizzò del fatto che la polizia sospettasse di lui. Sul telefono, che era stato strappato dal muro ed era per terra accanto al cadavere, c'era un'impronta digitale che non apparteneva né a Kathy né a Greg. La polizia trovò inoltre un pelo pubico e segni di una morsicatura sul seno di Kathy. I periti confermarono che l'assassino l'aveva morsa con violenza durante l'aggressione. Greg, marito separato, fu il primo a essere sospettato, nonostante l'impronta non sua sul telefono. Gli vennero prelevati peli e capelli che Melvin Hett, dei laboratori forensi di Stato, concluse essere compatibili con il pelo pubico ritrovato sul cadavere. Gli vennero chieste anche le impronte dentali. Greg era preoccupato che le indagini fossero così concentrate su di lui: sapeva di essere innocente e non si fidava della polizia. Con l'aiuto dei genitori, mise insieme 25.000 dollari per pagarsi un avvocato. La polizia non apprezzò. Dopo aver fornito le impronte dentali, Greg non seppe più nulla per cinque mesi. Lavorava e si occupava delle figlie, sperando di dimenticare. Nel gennaio del 1986, però, venne arrestato per omicidio di primo grado. Rischiava la pena di morte. Il suo primo avvocato, benché ben pagato e con una discreta fama, era troppo interessato a patteggiare e così, a un mese dal processo, Greg decise di cambiarlo. Fece lo sbaglio di rivolgersi a George Briggs, un vecchio avvocato ormai sul viale del tramonto, che aveva fama di farsi dare un anticipo di 2500 dollari e poi cercare il patteggiamento. Apparteneva alla vecchia scuola: tu ti porti i tuoi testimoni, io i miei, prima del processo non ci parliamo neanche e ce la vediamo in tribunale; nel dubbio, mi fido del mio istinto, improvviso. In più, era un alcolista con una discreta dipendenza anche dagli antidolorifici, che aveva cominciato a prendere in gran quantità due anni prima, dopo un incidente di moto che lo aveva lasciato parzialmente cerebroleso. Nei giorni migliori puzzava di alcol ma riusciva a seguire il processo, in quelli peggiori russava in aula. In alcune occasioni se l'era anche fatta addosso e aveva vomitato nell'ufficio del giudice. Spesso lo si vedeva barcollare nei corridoi del palazzo di giustizia. Greg e i suoi genitori si preoccuparono, una volta che a pranzo lo videro scolarsi alcune bottiglie di birra una via l'altra. L'ordine degli avvocati sapeva che Briggs aveva questi problemi e i giudici anche, ma nessuno fece mai nulla per aiutare lui o i suoi assistiti.

La famiglia di Greg si mise in contatto con un perito del Kansas specializzato in segni di morsicatura, ma Briggs era troppo occupato o ubriaco per parlargli. Non parlò neppure con i testimoni e in generale si preparò pochissimo per il processo. Fu un incubo: l'accusa convocò due periti, uno dei quali era dentista da meno di un anno, Briggs non portò controprove e la giuria dichiarò Greg colpevole dopo un'ora di camera di consiglio. Trenta giorni dopo a Greg fu comminata la pena di morte. Nella cella numero 9, Greg aveva rivestito le sbarre con fogli di giornale per non farsi vedere e per illudersi di non essere nel braccio della morte. Passava il tempo a leggere e a guardare la televisione sul piccolo apparecchio che gli avevano procurato i suoi. Non parlava con nessuno, eccetto "Run Man". Costui, la prima volta che si erano visti, gli aveva chiesto se voleva un po' di marijuana e Greg aveva detto di sì. All'inizio non si era reso conto che c'era chi ce la faceva a uscire vivo dal braccio della morte, che ogni tanto in appello la sentenza veniva ribaltata, specie se c'erano di mezzo bravi avvocati e giudici volonterosi. Era sfiduciato, sicuro di doversi beccare l'iniezione letale e, a quel punto, preferiva farla finita il prima possibile. Per sei mesi uscì di cella solo per fare la doccia, velocemente e da solo. Con il tempo, però, fece amicizia con alcuni detenuti e venne invitato a passare l'ora d'aria con loro, per far ginnastica e socializzare. Si attirò subito molte antipatie, tuttavia, perché era favorevole alla pena capitale. Sosteneva che chi toglieva la vita a un altro essere umano meritava che gli fosse tolta la vita. Nel braccio della morte, era più unico che raro. Aveva anche la fastidiosa abitudine di ascoltare il David Letterman Show a tutto volume. Il sonno è prezioso, nel braccio della morte, e molti di quelli che vi sono rinchiusi passano metà della loro giornata fra le braccia di Morfeo. Dormire significa fregare il sistema: il sonno è tempo tuo, non dello Stato. I condannati per omicidio non si fanno troppi scrupoli a minacciare di morte il prossimo e Greg capì ben presto di essere segnato. In ogni braccio della morte ci sono un boss e diversi aspiranti tali, si creano fazioni, schieramenti, i più forti approfittano dei più deboli e chiedono il pizzo. Quando Greg venne a sapere che doveva pagare per continuare a "vivere" nel braccio della morte, scoppiò in una sonora risata e rispose di non avere la minima intenzione di pagare per restare in quel buco.

Il boss del McAlester era Soledad, un assassino che aveva passato un certo periodo nella famosa prigione californiana. Costui non apprezzava i commenti di Greg sulla pena di morte e detestava cordialmente David Letterman, perciò lo teneva d'occhio e diceva che gli avrebbe fatto la pelle, appena ne avesse avuto la possibilità. Tutti hanno dei nemici, nel braccio della morte. Le liti sono violente e degenerano facilmente. Per un pacchetto di sigarette si può finire malmenati nella doccia o durante l'ora d'aria; per due, si rischia la pelle. Greg aveva bisogno di un amico che gli guardasse le spalle. La prima volta che Annette tornò dal McAlester era triste e spaventata, nonostante ci fosse andata preparata. Avrebbe preferito non dover mai metter piede in un posto del genere, ma Ronnie non aveva nessuno al mondo a parte lei e Renee. Le guardie la perquisirono e le guardarono nella borsetta. Entrare nella Big House era come scendere nelle viscere dell'inferno. Era tutto un clangore di porte metalliche, stridore di chiavi nelle serrature, occhiatacce. Ad Annette vennero i brividi, le si chiuse lo stomaco. Era cresciuta in una bella famiglia, con una bella casa, fra gente che la domenica andava in chiesa e alla partita. Come era potuta andare a finire così? Si consolò pensando che ci avrebbe fatto l'abitudine, avrebbe preso confidenza. Chiese alle guardie se poteva portare biscotti, vestiti, denaro. Le risposero di no, solo denaro. E così mise un po' di monete nelle mani di un secondino, sperando che le desse a suo fratello. La sala visite era lunga e stretta, con una lastra di plexiglas al centro, divisa in scomparti per permettere un minimo di privacy fra il detenuto e il visitatore, che comunicavano per telefono e non avevano il permesso di toccarsi. La prima volta che Annette andò a trovarlo, Ron impiegò un sacco ad arrivare. La fretta in prigione non esiste. Le sembrò in buona salute, persino un tantino ingrassato. Ma Ron era soggetto a bruschi sbalzi di peso. La ringraziò di essere andata, le disse che stava abbastanza bene ma aveva bisogno di soldi. Il cibo era disgustoso, doveva comprarsi spesso da mangiare allo spaccio. Voleva anche una chitarra, dei libri, riviste e un piccolo televisore. Allo spaccio della prigione li vendevano. «Fammi uscire di qui, Annette» la implorò più volte. «Non l'ho uccisa io. Tu lo sai.»

Annette non aveva mai dubitato dell'innocenza del fratello, ma in famiglia alcuni cominciavano a pensare che potesse essere colpevole. Lei e il marito Marion lavoravano per mantenere la famiglia e mettere qualcosina da parte, ma i soldi erano pochi. Che cosa poteva fare? Il ricorso in appello era stato affidato ad avvocati d'ufficio. «Vendete la casa e prendetemi un avvocato più in gamba» disse Ron. «Vendetevi tutto. Fate qualsiasi cosa, ma tiratemi fuori di qui.» Fu una conversazione tesa, con pianti e lacrime. Nello scomparto vicino c'era un altro detenuto. Annette lo intravide quando arrivò. Era curiosa: chi era? Chi aveva ucciso? «È Roger Dale Stafford» le rispose Ronnie. «Il famoso assassino della steak-house.» Stafford aveva ricevuto nove condanne a morte, un vero e proprio record. Aveva ucciso sei persone, cinque delle quali minorenni, nel retro di una steak-house di Oklahoma City dopo una rapina andata male, più una famiglia di tre persone. «Sono tutti assassini» si lamentava Ronnie. «Parlano solo di ammazzare questo e quello. Ti prego, fammi uscire di qui!» «Hai paura?» gli domandò Annette. «Ma no, figurati! In mezzo a un branco di assassini...» Ron aveva sempre creduto nella pena di morte, e adesso ancora di più. Ma se lo teneva per sé. Le visite non avevano limiti di tempo. Dopo un po' i due fratelli si salutarono, promettendosi di scriversi e telefonarsi. Annette lasciò il McAlester emotivamente distrutta. Le telefonate iniziarono subito. Nel braccio della morte c'era un telefono portatile, che veniva avvicinato alle celle di chi lo richiedeva. La guardia componeva il numero e passava la cornetta al detenuto. Dal momento che le chiamate erano a carico del destinatario, le guardie non si preoccupavano di quante ne venissero fatte. Per noia e disperazione, Ron chiedeva il telefono più di chiunque altro. In genere chiamava per chiedere soldi, venti o trenta dollari per comprarsi da mangiare e le sigarette. Annette e Renee cercavano di mandargli quaranta dollari a testa ogni mese, ma le spese erano tante e il denaro poco. Eppure Ron non faceva che ricordare a tutti che i soldi che riceveva non erano mai abbastanza. Spesso si arrabbiava con le sorelle, diceva che non gli volevano bene, altrimenti l'avrebbero tirato fuori di lì. Era innocente, lo sapevano tutti, lui non aveva nessun altro al mondo tranne loro. Erano telefonate raramente piacevoli, ma Annette e Renee cercavano di

non litigare. Ron diceva sempre che voleva loro molto bene. Il marito di Annette gli fece un abbonamento al "National Geographic" e all'"Ada Evening News". Ron voleva sapere che cosa succedeva nella sua città. Era appena stato messo al corrente della bizzarra confessione di Ricky Joe Simmons. Barney Ward sapeva che ne esisteva una registrazione, ma aveva preferito non tirarla fuori al processo e non ne aveva mai parlato con il suo cliente. Uno degli investigatori dell'Indigeni Defense System, però, gli aveva portato la videocassetta al McAlester. Appena l'aveva vista, Ron era diventato matto. Qualcun altro aveva confessato l'omicidio e alla giuria non era nemmeno stato detto? Era incredibile! Presto la notizia sarebbe arrivata a Ada, voleva leggerlo sul giornale. Era ossessionato da Ricky Joe Simmons, che sarebbe diventato la sua fissazione per molti anni. Cercava di chiamare tutti: voleva che il mondo sapesse di Ricky Joe Simmons. La confessione di Simmons era la chiave per la sua libertà: bisognava processarlo, dichiarare colpevole lui. Chiamò Barney, altri avvocati, pubblici ufficiali e persino vecchi amici, che perlopiù rifiutarono la chiamata a carico del destinatario. Dopo che un paio di assassini vennero beccati a chiamare le famiglie delle loro vittime, così per sport, il regolamento cambiò e il numero delle telefonate per detenuto fu ridotto a due a settimana. Anche i numeri dovevano essere preventivamente approvati. Una volta la settimana "Run Man" passava con un carrello pieno di libri della biblioteca. Greg Wilhoit leggeva tutto quello che c'era, dalle biografie ai gialli e ai romanzi di avventura. Uno dei suoi autori preferiti era Stephen King, ma i romanzi che gli piacevano di più in assoluto erano quelli di John Steinbeck. Incoraggiò Ron a leggere per distrarsi e nel giro di qualche giorno cominciarono a discutere di Furore e La valle dell'Eden. Erano conversazioni inusuali, nel braccio della morte. Greg e Ron stavano in piedi davanti alle sbarre per ore a parlare di libri, di baseball, di donne, dei loro processi. Erano entrambi sorpresi del fatto che perlopiù i condannati a morte non sostenessero di essere innocenti e che anzi imbellissero i loro crimini davanti agli altri detenuti. La morte era l'argomento principale dei loro discorsi: omicidi, processi per omicidio, assassinii futuri. Siccome Ron continuava a proclamarsi innocente, Greg cominciò a cre-

dergli. Quasi tutti i detenuti hanno il verbale del loro processo e Greg lesse quello di Ron, che pure contava duemila pagine. Rimase scioccato. Ron lesse quello di Greg, e rimase scioccato anche lui. Si fidavano l'uno dell'altro e ignoravano lo scetticismo dei loro compagni. Per Ron l'amicizia con Greg Wilhoit fu terapeutica e lo aiutò ad ambientarsi nel braccio della morte. Finalmente qualcuno gli credeva, parlava con lui e lo ascoltava con compassione e intelligenza. Fuori dell'asfittica prigione di Ada e in compagnia di un amico, era più stabile. Non gridava per ore la propria innocenza camminando avanti e indietro, i suoi cambiamenti di umore erano meno bruschi. Dormiva molto, leggeva per ore, fumava una sigaretta via l'altra e parlava con Greg. Passavano l'ora d'aria insieme, si guardavano le spalle a vicenda. Annette mandò a Ron dei soldi e lui si comprò un televisore allo spaccio. Annette sapeva che per lui la chitarra era importante e cercò con grande impegno di procurargliene una. Siccome lo spaccio non ne teneva, scrisse e telefonò alla direzione del carcere e alla fine riuscì a convincere uno dei funzionari a ordinarne una in un vicino negozio di strumenti. Quando arrivò, incominciarono i guai. Ansioso di dimostrare ai suoi compagni il proprio talento, Ron iniziò a suonarla cantando a squarciagola. I detenuti protestavano, ma Ron se ne fregava. Adorava la sua chitarra e adorava cantare, specialmente Hank Williams. Your Cheating Heart risuonava per il corridoio, fra gli insulti dei vicini di cella. Ma quando gli altri gli gridavano di smettere, Ron cantava ancora più forte. A un certo punto Soledad si stufò delle esibizioni canore di Ron e minacciò di fargli la pelle. Chissenefrega, fu la reazione di Ron. Tanto mi ammazzano comunque. Nella F Cellhouse non c'era condizionamento e d'estate la temperatura era quella di una sauna. I detenuti stavano in slip davanti ai ventilatori in vendita allo spaccio. La mattina si svegliavano con le lenzuola bagnate di sudore. Alcuni si toglievano persino le mutande. Il carcere organizzava visite guidate al braccio della morte, in genere per studenti delle scuole superiori, con l'intento di scoraggiarli dal commettere crimini. Quando faceva caldo, le guardie ordinavano ai detenuti di vestirsi prima che arrivassero i turisti. Alcuni ubbidivano, altri no. Un pellerossa soprannominato Buck Naked preferiva il look nativo e stava sempre nudo. Aveva la rara capacità di scoreggiare a comando e

quando il gruppo di visitatori si avvicinava, appoggiava le natiche alle sbarre e mollava peti sonori. I ragazzi rimanevano scioccati, il tour era rovinato. Le guardie gli dissero di smetterla, ma lui continuava imperterrito. I vicini di cella lo incitavano a esibirsi, anche se solo quando c'era il giro turistico. Alla fine le guardie decisero di farlo uscire dal braccio della morte ogni volta che era in programma una visita. Ci fu qualcuno che provò a imitarlo, ma non riuscì a eguagliare le sue performance. Ron, quando passavano i ragazzi, suonava e cantava. Il 4 luglio 1988 Ron si svegliò di pessimo umore. Era un giorno di festa, per le strade c'erano parate e celebrazioni e lui era in cella per un crimine che non aveva commesso. Che cosa aveva da festeggiare? Cominciò a gridare e strepitare, protestando la propria innocenza, e quando i vicini di cella cominciarono a urlargli di smettere, diventò matto e gettò per terra tutto ciò che gli capitò sottomano: libri, riviste, articoli da toeletta, radio, Bibbia, vestiti. Le guardie lo invitarono a calmarsi. Lui le insultò e si mise a gridare ancora più forte. Scaraventava da tutte le parti penne, fogli, cibo comprato allo spaccio. A un certo punto prese persino il televisore e lo mandò in frantumi contro la parete. Sbatté anche la chitarra contro le sbarre. La maggior parte dei detenuti nel braccio della morte prendeva quotidianamente un antidepressivo chiamato Sinequan, per calmare i nervi e dormire meglio. Le guardie riuscirono a convincere Ron a prendere qualcosa di più forte, che lo tranquillizzò. Verso sera, cominciò a mettere in ordine la cella. Poi chiamò Annette e in lacrime le raccontò che cosa aveva fatto. Lei andò a trovarlo. Non fu un colloquio facile. Ron la accusò di non fare abbastanza per tirarlo fuori di galera e le chiese per l'ennesima volta di vendere tutto e assoldare un bravo avvocato capace di rimediare all'ingiustizia. Annette lo pregò di smetterla di gridare e di calmarsi e, quando lui si rifiutò di farlo, minacciò di andarsene subito. Piano piano, lei e Renee gli comprarono un altro televisore, un'altra radio e un'altra chitarra. Nel settembre 1988 Mark Barrett, un avvocato di Norman, andò al McAlester per incontrare il suo nuovo cliente. Era uno dei quattro avvocati che si occupavano degli appelli dei condannati a morte nullatenenti. Ron

Williamson era stato affidato a lui. Barney Ward non aveva più voce in capitolo, ormai. L'appello è automatico, in caso di condanna a morte. Erano stati presentati i documenti necessari e la macchina si era messa in moto. Mark lo spiegò a Ron e ascoltò le sue lunghe proteste di innocenza. Non si sorprese, sentite certe cose. E non aveva ancora letto i verbali del processo. Per aiutare il suo nuovo avvocato, Ron stilò un elenco dei testimoni che avevano mentito al suo processo e descrisse in minuzioso dettaglio la natura delle loro menzogne. Mark Barrett trovò Ron intelligente, razionale, consapevole della propria situazione. Parlava bene, a lungo e in dettaglio delle false testimonianze con cui polizia e pubblico ministero lo avevano fatto condannare. Era ansioso e spaventato, certo: ma chi non lo era, nel braccio della morte? Mark non sapeva che Ron aveva precedenti di squilibrio mentale. Disse a Ron di essere figlio di un ministro dei Disciples of Christ e Ron si lanciò in una lunga dissertazione sulla religione. Voleva che Mark sapesse che era un cristiano devoto e leggeva la Bibbia, che i suoi genitori erano timorati di Dio e gli avevano dato un'ottima educazione religiosa. Citò diversi brani dalle Sacre Scritture. Ce n'era uno che lo turbava, e chiese a Mark che interpretazione ne dava. Ne parlarono a lungo. Per Ron era importante capire il significato di quei versi ed era chiaramente frustrato dal fatto di non riuscirci. Non c'erano limiti di tempo per le visite degli avvocati e ai detenuti piaceva restare fuori della cella. Ron e Mark parlarono per oltre un'ora. La prima impressione che Mark Barrett si fece di Ron fu che era un fondamentalista loquace e che faceva un po' il furbo. Di norma era scettico nei confronti dei condannati che dicevano di essere innocenti, ma aveva la mente aperta. Seguiva anche Greg Wilhoit ed era convinto che non fosse stato lui a uccidere la sua ex moglie. Sapeva che nel braccio della morte c'erano anche degli innocenti e, più approfondiva il suo caso, più si convinceva che Ron fosse tra questi. 11 Dennis Fritz non se ne rendeva conto, ma i dodici mesi passati nel carcere di contea lo avevano preparato alle difficoltà della vita di prigione. Quando arrivò al Conner Correctional Center a giugno, a bordo di un cellulare, insieme ad altri nuovi detenuti, era confuso, spaventato e incapa-

ce di accettare la realtà. Il Conner era noto come il peggiore dei penitenziari di media sicurezza. Era un postaccio e Dennis si chiedeva come mai l'avessero mandato proprio lì. Espletò le formalità, ascoltò il discorsetto su norme e regolamenti e venne accompagnato in una cella da due, con una finestra da cui si vedeva fuori. Come Ron, la apprezzò particolarmente, dopo essere stato tanto tempo a Ada senza vedere il sole. Il suo compagno di cella era un messicano che parlava male inglese. A Dennis non dispiaceva. Lui non parlava spagnolo e non aveva nessuna voglia di impararlo. Era già abbastanza difficile riuscire ad avere qualche momento di privacy condividendo una cella piccolissima con uno sconosciuto. Era determinato a impiegare tutto il tempo possibile per cercare di farsi prosciogliere. La tentazione di arrendersi di fronte alle difficoltà era forte, ma la determinazione a vincere anche. Il Conner era un carcere sovraffollato e violento. C'erano gang, risse, pestaggi, stupri, assassinii; girava un sacco di droga, le guardie erano corrotte. Dennis imparò presto a evitare gli uomini che riteneva più pericolosi e a non correre rischi inutili. La paura gli serviva a sopravvivere. Con il tempo la maggior parte dei detenuti si adattava ai ritmi della prigione, ne accettava le regole, si rilassava e cominciava ad abbassare la guardia. Così facendo, però, si rischiava di finire male. E Dennis non voleva finire male. Perciò, assecondava la propria paura e cercava di non dimenticarla. La sveglia era alle sette, ora in cui venivano aperte le celle. I detenuti mangiavano in un refettorio abbastanza grande, in cui potevano sedersi dove volevano. In genere i bianchi stavano da una parte, i neri dall'altra, indiani e sudamericani nel mezzo, ma più dalla parte dei neri che dei bianchi. La colazione era discreta: uova, pancetta, fiocchi di avena. La conversazione era animata e i detenuti erano contenti di stare insieme agli altri. La maggior parte sceglieva di lavorare: pur di stare fuori della cella, avrebbero fatto qualsiasi cosa. Grazie alla sua esperienza di docente, Dennis insegnava agli altri detenuti che volevano prendere il General Equivalency Diploma. Dopo colazione andava in classe e faceva lezione fino a mezzogiorno. Il suo salario mensile era di sette dollari e venti centesimi. Sua madre e sua zia gli mandavano cinquanta dollari al mese. Era un grosso sacrificio, ma lo facevano volentieri. Dennis li usava per comprarsi tabacco, tonno in scatola, cracker e biscotti allo spaccio. I detenuti conservavano gelosamente le loro proprietà nella cella. Quasi tutti fumavano e le

sigarette erano un'importante merce di scambio. Un pacchetto di Marlboro era un bene prezioso, che poteva essere scambiato con quasi tutto. Dennis scoprì che nel carcere c'era una biblioteca giuridica in cui poteva studiare tutti i giorni dalle 13 alle 16, senza interruzioni. Non aveva mai aperto un libro di giurisprudenza, ma era deciso a imparare. Fece amicizia con alcuni detenuti che si intendevano un po' di diritto, i quali lo aiutarono a districarsi fra tomi e compendi. Non gratis, naturalmente, ma in cambio di un congruo numero di sigarette. Dennis cominciò con il leggere centinaia di sentenze dell'Oklahoma alla ricerca di analogie con il suo processo. L'appello era imminente e lui voleva capire se fosse possibile chiedere l'invalidazione per vizio di forma. Trovò diverse raccolte di casi federali e si documentò anche su quelli. Dalle 16 alle 17 i detenuti dovevano restare in cella, mentre le guardie facevano l'appello e scrivevano il loro rapporto. La cena era alle 19.30 e da quel momento fino alle 22.15 i detenuti erano liberi di girare per la loro unità, fare ginnastica, giocare a carte, a domino o a basket. Molti stavano semplicemente in gruppo a chiacchierare e fumare per passare il tempo. Dennis tornava nella biblioteca giuridica. Manteneva una fitta corrispondenza con la figlia Elizabeth, che aveva quindici anni e stava dalla nonna materna, in un ambiente sereno dove era bene accudita. Diceva di credere nell'innocenza di suo padre, ma Dennis temeva che a volte ne dubitasse. Si scrivevano e si telefonavano almeno una volta alla settimana. Dennis non voleva che lei andasse a trovarlo in carcere, però. Non voleva che sua figlia vedesse quel postaccio e il padre in divisa da carcerato, dietro le sbarre. Wanda Fritz andò a trovare il figlio poco dopo il suo arrivo al Conner. Le visite erano la domenica dalle 10 alle 16, in una sala con diverse file di tavoli e sedie che sembrava un caravanserraglio. I detenuti vi entravano venti alla volta per vedere mogli, figli, genitori. Erano momenti di grande emozione e i bambini spesso urlavano e si scalmanavano. I detenuti non erano legati e il contatto fisico era permesso. Non le effusioni troppo spinte, però. I detenuti allora chiedevano a un compagno di distrarre la guardia, in maniera da poter consumare un rapido amplesso. Era abbastanza frequente vedere coppie copulare selvaggiamente fra i distributori delle bevande o donne che fino a un attimo prima sedevano tranquille scomparire sotto il tavolo per una veloce fellati*. Per fortuna Dennis riusciva a parlare con la madre anche in mezzo a quel bailamme, ma le visite erano il momento più stressante di tutta la settima-

na. Dopo un po', le chiese di non tornare. Spesso Ron camminava avanti e indietro per la cella urlando. Anche quelli che nel braccio della morte arrivavano sani di mente, dopo un po' cominciavano a dare segni di squilibrio. Ron si aggrappava alle sbarre e urlava: «Sono innocente! Sono innocente!» per ore, fino a perdere la voce. Con il passare del tempo, la raucedine gli veniva sempre meno e le sue urla erano praticamente costanti. «Non ho ucciso io Debbie Carter! Non sono stato io!» Aveva imparato a memoria il verbale della confessione di Ricky Joe Simmons, parola per parola, e lo recitava a gran voce, per la disperazione dei suoi vicini di cella e delle guardie. A volte recitava anche il verbale del processo, pagine e pagine di deposizioni che lo avevano mandato nel braccio della morte. Gli altri detenuti l'avrebbero strangolato, pur di farlo stare zitto. Difficile ammirare le straordinarie capacità mnemoniche di chi sbraita nel cuore della notte. Renee ricevette una strana lettera da un detenuto. Diceva: Cara Renee, che il Signore sia lodato. Mi chiamo Jay Neill, matricola 141128. Le scrivo a nome e per conto di suo fratello Ron, che sta nella cella vicino alla mia. È in crisi nera. Penso che gli diano qualcosa per calmarlo e farlo stare tranquillo, ma le medicine qui sono quello che sono. Secondo me Ron ha poca autostima. Gli dicono tutti che ha un quoziente di intelligenza inferiore alla norma. I periodi in cui sta peggio sono da mezzanotte alle quattro del mattino. Certe volte urla a squarciagola, disturbando quelli che gli stanno vicino. Gliel'hanno detto, hanno cercato di ragionarci. Hanno anche cercato di adattarsi, ma c'è un limite a tutto. Non dormire la notte è logorante, a lungo andare. Io sono cristiano e prego per Ron tutti i giorni, gli parlo e lo sto a sentire. Vuole molto bene sia a lei sia ad Annette. Io sono suo amico e cerco di fare da tramite con quelli che non ne possono più di lui e dei suoi urli, mi alzo, gli parlo, cerco di calmarlo. Che Dio benedica lei e la sua famiglia, Jay Neill

Che Neill avesse degli amici nel braccio della morte era dubbio e della sua conversione al cristianesimo si parlava molto e con grande scetticismo. Prima di finire dentro, Neill aveva un sogno: trasferirsi a San Francisco con il suo compagno e godersi il clima più aperto e permissivo di quella città. Non avendo i soldi per farlo, aveva deciso di rapinare una banca. Né lui né il suo compagno avevano alcuna esperienza di furti e rapine ed era la prima volta che ci provavano. Ne avevano scelto una di Geronimo, erano entrati e avevano annunciato le loro intenzioni a gran voce. Ma le cose non erano andate come previsto. Durante la rapina, Neill e il suo ragazzo avevano ferito tre persone e ucciso tre cassiere e un cliente. A un certo punto Neill aveva puntato il revolver anche alla testa di un bambino e aveva premuto il grilletto. Per fortuna il caricatore era vuoto e il bambino era rimasto incolume, almeno dal punto di vista fisico. I due rapinatori erano scappati con 20.000 dollari in contanti ed erano andati subito a San Francisco, dove si erano dati alla pazza gioia per ventiquattr'ore, comprando pellicce di visone e sciarpe costose e scialacquando in locali gay. Poi la polizia li aveva arrestati ed erano stati riportati nell'Oklahoma, dove Neill alla fine venne giustiziato. Nel braccio della morte, citava le Sacre Scritture e si lanciava in prediche edificanti, ma non lo ascoltava nessuno. La salute non era una priorità, nel braccio della morte. Tutti dicevano che prima si perdeva quella fisica e subito dopo quella mentale. Ron venne visitato da un medico del carcere, che aveva ricevuto copia degli accertamenti precedenti e delle cartelle cliniche. Il fatto che Ron avesse una lunga storia di abuso di alcol e sostanze non lo stupì: era abbastanza comune, fra i detenuti della F Cellhouse. Il medico prese nota del fatto che Ron soffriva di depressione e di disturbo bipolare da almeno dieci anni, e che presentava sintomi di schizofrenia e di disturbo della personalità. Gli prescrisse di nuovo il Mellarin, che lo calmò. La maggior parte degli altri detenuti credeva che Ron facesse il pazzo senza esserlo, per potersene andare dal braccio della morte. A due celle di distanza da Greg Wilhoit c'era un vecchio detenuto che si chiamava Sonny Hays. Nessuno sapeva da quanto fosse lì, ma era quello che c'era da più tempo. Aveva quasi settant'anni, era malato e si rifiutava di parlare o vedere nessuno. Aveva incollato giornali e coperte alla porta della sua cella, teneva sempre la luce spenta, mangiava il minimo indispensabile per tirare avanti, non si lavava, non si radeva, non si tagliava i

capelli, non riceveva visite e si rifiutava persino di vedere i propri avvocati. Non scriveva né riceveva lettere, non faceva telefonate, non comprava niente allo spaccio, non faceva il bucato, non aveva né radio né televisore. Non usciva mai dalla sua cella buia e passava giorni e giorni senza dare segni di vita. Era completamente matto e poiché la legge vieta l'esecuzione degli insani di mente, marciva nella sua cella in attesa di morire per cause naturali. Adesso non era più l'unico pazzo nel braccio della morte. Anche se, secondo molti, Ron non lo era veramente, ma faceva finta. Probabilmente cambiarono idea dopo che Ron un giorno tappò il water, si allagò la cella da solo, si denudò e cominciò a tuffarsi nell'acqua dalla branda gridando frasi sconnesse. Dovettero intervenire le guardie per sedarlo. Nella F Cellhouse l'impianto di condizionamento non c'era, ma quello di riscaldamento sì. Dai vecchi sfiati ci si aspettava quindi che d'inverno uscisse aria ragionevolmente calda. Invece no. Nelle celle faceva un freddo cane e spesso sull'interno delle finestre di notte si formava uno strato di ghiaccio. I detenuti restavano sotto le coperte il più a lungo possibile. Ma le coperte non bastavano e bisognava mettersi tutti i vestiti disponibili: due paia di calze, due paia di mutande, due paia di calzoni, due camicie e altri indumenti eventualmente acquistati allo spaccio. Le coperte extra erano un lusso e la prigione ne aveva poche. Il cibo, già abbastanza freddo d'estate, d'inverno era immangiabile. La Corte d'appello dell'Oklahoma ribaltò la sentenza di Tommy Ward e Karl Fontenot in quanto ravvisò una violazione del diritto costituzionale alla difesa. Al processo le confessioni erano state ammesse come prova a carico dell'altro imputato ma, siccome né Ward né Fontenot avevano testimoniato, era stato leso il loro diritto di contestare le accuse. Se Ward e Fontenot fossero stati processati separatamente, il problema non si sarebbe posto. Se le loro confessioni non fossero state ammesse, sarebbero stati assolti. Ward e Fontenot uscirono dal braccio della morte e tornarono a Ada. Tommy venne processato nuovamente a Shawnee, nella contea di Pottawatomie. Il pubblico ministero era Bill Peterson, coadiuvato da Chris Ross. Il giudice ammise come prova il filmato della confessione e autorizzò la giuria a vederlo. Il risultato fu che Tommy Ward venne nuovamente dichiara-

te colpevole e ricevette un'altra condanna a morte. La madre di Ward andò in tribunale ogni giorno per assistere al secondo processo e, ogni giorno, ad accompagnarla in macchina fu Annette Hudson. Karl Fontenot venne processato a Holdenville, nella contea di Hughes. Anche lui fu nuovamente dichiarato colpevole e condannato alla pena capitale. Ron fu felice di sapere che la sentenza era stata ribaltata in appello e rimase sgomento della successiva condanna. Il suo ricorso procedeva lentamente. A occuparsene era l'Appellate Public Defender's Office, che era oberato di lavoro e non disponeva di abbastanza personale, per cui assunse nuovi avvocati. Mark Barrett seguiva troppi casi e voleva scaricarne qualcuno ai colleghi. Aspettava con ansia che la Corte d'appello si pronunciasse a proposito di Greg Wilhoit. Sapeva che i suoi giudici erano severi e intransigenti, ma sperava che gli concedessero un nuovo processo. L'avvocato che seguiva il caso di Ron si chiamava Bill Luker. Scrisse una memoria in cui dimostrava con passione l'iniquità del processo, attaccando la difesa di Barney Ward prevalentemente perché non sollevava il problema delle capacità mentali dell'imputato, nonostante l'ampia documentazione medica. Luker analizzava i vari errori della difesa e concludeva che era stata "inefficace". Criticava aspramente i metodi di polizia e procura e metteva in discussione anche l'operato del giudice Jones, che aveva sbagliato ad autorizzare la giuria ad ascoltare la confessione del sogno di Ron, a ignorare le numerose violazioni ai sensi della "Brady" e in generale a non proteggere il diritto dell'imputato a un giusto processo. La stragrande maggioranza dei clienti di Bill Luker era colpevole e il suo lavoro era fare sì che il loro procedimento d'appello venisse condotto in maniera equa, ma il caso di Ron era diverso. Più Luker lo approfondiva, più si convinceva che la sentenza potesse essere ribaltata. Ron era collaborativo, aveva idee molto chiare e le comunicava al suo avvocato. Gli telefonava e gli scriveva di frequente e offriva contributi generalmente utili e interessanti. Aveva una memoria formidabile riguardo ai suoi precedenti medici. Parlava spesso della confessione di Ricky Joe Simmons ed era indignato che al processo non se ne fosse neppure accennato. Scrisse a Luker: Caro Bill, tu sai che io penso sia stato Ricky Simmons a uccidere Debbie Carter. Se non fosse stato lui, non avrebbe confessato. Io ho passato un

periodo terribile e credo sia solo giusto che Simmons paghi per quello che ha fatto e che io esca di prigione. Non ti vogliono dare la sua confessione perché sanno che tu la useresti per farmi avere un nuovo processo. Devi insistere per fartela dare a tutti i costi. Tuo, Ron Ron aveva un sacco di tempo libero e scriveva moltissimo, specie alle sorelle. Annette e Renee sapevano che per Ron quella corrispondenza era importante e cercavano di trovare il tempo per rispondergli. In genere Ron chiedeva dei soldi. Trovava immangiabile il cibo del carcere e preferiva comprarsi da mangiare allo spaccio. Una volta scrisse a Renee: Cara Renee, Annette mi manda dei soldi, ma io sto male da morire. Qui c'è Karl Fontenot che non ha nessuno che gli manda niente. Potresti farmi avere qualcosina in più, anche solo dieci dollari? Ti voglio bene, Ronnie In occasione del suo primo Natale nel braccio della morte, le scrisse di nuovo: Cara Renee, grazie dei soldi che mi hai mandato. Li userò per comprare caffè e sostituire le corde alla chitarra. Quest'anno ho ricevuto cinque biglietti di auguri, compreso il tuo. Natale è sempre bello. I venti dollari sono arrivati proprio al momento giusto. Mi ero appena fatto prestare dei soldi per le corde della chitarra da un mio amico e gli avevo detto che glieli avrei restituiti piano piano, con i cinquanta dollari che mi manda Annette tutti i mesi. Ma sarebbe stato un problema per me. So che cinquanta dollari a voi sembrano un sacco, ma io non li spendo tutti per me, do una mano a uno qui a cui sua madre non riesce a mandare niente. Adesso gli ha fatto avere dieci dollari, ma sono i primi soldi che gli arrivano da settembre, quando mi hanno messo vicino a lui. E così io gli offro un po' di sigarette e del caffè,

poveraccio. Oggi è venerdì, domani aprirete i regali. Spero che riceviate tutti quello che desideravate. Chissà come sono cresciuti i ragazzi. Adesso basta, se no mi metto a piangere. Un abbraccio caro a tutti, Ronnie Difficile pensare che il Natale potesse essere "bello" anche nel braccio della morte. La noia era insopportabile, ma la lontananza dai propri cari durante le feste fu per Ron fonte di vera e propria disperazione. All'inizio della primavera del 1989 le sue condizioni si aggravarono. Lo stress, la noia, la frustrazione di essere stato condannato a morte per un delitto che non aveva commesso lo consumavano. Tentò il suicidio tagliandosi i polsi. Era depresso, voleva morire. Le ferite che si procurò erano superficiali, ma gli lasciarono comunque una brutta cicatrice. Provò a uccidersi diverse volte e i controlli delle guardie si intensificarono. Un giorno diede fuoco al materasso procurandosi ustioni che impiegarono molto tempo a guarire. Ormai era considerato un detenuto a rischio. Il 12 luglio 1989 scrisse a Renee: Cara Renee, soffro molto. Ho ustioni di secondo e terzo grado e lo stress è terribile. Quando la sofferenza è intollerabile non riesci a fare niente. Ho mal di testa perché la sbatto contro il muro e anche per terra. Mi sdraio per terra e sbatto la faccia contro il cemento fino a stare male. Siamo stretti come sardine. Non sono mai stato peggio di così. Sarebbe tutto più sopportabile se avessi un po' più soldi e non dovessi mangiar merda. Qui è come sopravvivere a razioni su un'isola deserta. Nessuno ha niente, ma io sono arrivato a elemosinare un boccone dai miei vicini per non svenire dalla fame. Sono dimagrito tantissimo. Sto male da morire. Ti prego, aiutami, Ron In un periodo di depressione particolarmente grave, Ron interruppe i contatti con tutti e si ritirò completamente in se stesso. Stava a letto tutto il

giorno, raggomitolato in posizione fetale, e non rispondeva quando le guardie lo chiamavano. Il 29 settembre si tagliò di nuovo i polsi. Prendeva i suoi farmaci in maniera molto irregolare e parlava continuamente di suicidio. Alla fine venne dichiarato soggetto a rischio e trasferito dalla F Cellhouse all'Eastern State Hospital di Vinita, dove si dichiarò "sofferente per le ingiustizie ricevute". Il primo a visitarlo fu il dottor Lizarraga, che si trovò di fronte un trentaseienne con una storia di abuso di alcol e sostanze, malridotto, non rasato, con i baffi e i capelli lunghi e grigi, la divisa da carcerato sporca, bruciature sulle gambe e cicatrici sui polsi. Ron ammise di aver fatto molti errori ma negò recisamente di aver ucciso Debbie Carter. Era vittima di un'ingiustizia che gli aveva fatto perdere tutte le speranze. Desiderava solo morire. Venne trattenuto all'Eastern State Hospital tre mesi, seguì una terapia e fu visitato da diversi specialisti, fra cui un neurologo, uno psicologo e diversi psichiatri. Questi notarono che era emotivamente instabile, tollerava poco la frustrazione, era autocentrato, aveva scarsa autostima, tendeva a perdere il contatto con la realtà e si infiammava facilmente. Era soggetto a sbalzi di umore improvvisi. Pretendeva molto ed era aggressivo nei confronti del personale e degli altri pazienti. La sua aggressività era un problema per l'ospedale, che lo dimise e lo rispedì nel braccio della morte con una terapia a base di carbonato di litio, Navane e Cogentin, farmaco usato per il morbo di Parkinson ma anche per ridurre i tremori e l'irrequietezza causati dai tranquillanti. Poco dopo il ritorno di Ron al Big Mac, una guardia carceraria che si chiamava Savage venne brutalmente aggredita da Mikell Patrick Smith, che era considerato l'assassino più pericoloso di tutto il braccio della morte. Smith si era fabbricato una sorta di baionetta fissando un coltello al manico di una scopa e aveva pugnalato al torace la guardia appena questa si era avvicinata alla porta della sua cella con il vassoio del cibo. Nonostante la lama gli avesse sfiorato il cuore, Savage miracolosamente riuscì a cavarsela. Smith aveva già pugnalato un altro detenuto due anni prima, non nel braccio della morte, ma nella D Cellhouse, dove era stato trasferito per motivi disciplinari. Le autorità a quel punto decisero che era indispensabile una struttura più moderna e sicura. L'aggressione era finita su tutti i giornali, ottenere i fi-

nanziamenti sarebbe stato più facile. Venne studiato il progetto per la futura H Unir, duecento celle disposte su due piani e divise in quattro sezioni, che avrebbe dovuto "massimizzare sicurezza e controllo fornendo al tempo stesso un ambiente sicuro e moderno per i detenuti". Le esigenze delle guardie carcerarie vennero messe al primo posto sin dal principio. Dopo l'aggressione di Savage, era importante salvaguardarle, costruendo uno spazio che consentisse loro di ridurre al minimo i contatti con i detenuti. In fase di progettazione, gli architetti di Tulsa incaricati dei lavori incontrarono trentacinque membri del personale del carcere. Sebbene nessuno fosse mai riuscito a evadere dal braccio della morte del McAlester, ebbero la brillante idea di costruirlo sotto terra per motivi di sicurezza. Dopo due anni nel braccio della morte, la salute mentale di Ron era in netto peggioramento. Gridava, strepitava e imprecava sempre di più, a tutte le ore del giorno e della notte. Disperato, aveva accessi di rabbia per un nonnulla, gridava improperi e lanciava oggetti. A volte sputava per ore nel corridoio. Un giorno sputò addosso a una guardia. Quando incominciò a lanciare oltre le sbarre le proprie feci, decisero che era meglio trasferirlo altrove. «È di nuovo lì con la merda in mano» gridò una guardia, e tutti corsero a ripararsi. A pericolo cessato, lo presero e lo portarono via. Lo mandarono a Vinita, perché fosse visto da uno psichiatra. Fra luglio e agosto 1990 Ron trascorse un mese all'Eastern State Hospital. Fu nuovamente visitato dal dottor Lizarraga, che gli diagnosticò gli stessi disturbi della volta precedente. Dopo tre settimane, Ron cominciò a chiedere di tornare nel braccio della morte. Era in ansia per il ricorso in appello e pensava di potersi preparare meglio al McAlester, dove c'era una biblioteca giuridica. Siccome la terapia che stava seguendo sembrava efficace e lui sembrava più stabile, lo accontentarono. 12 Dopo tredici anni di frustrazione, l'Oklahoma riuscì finalmente a snellire le procedure di ricorso e a giustiziare un condannato a morte. Lo sfortunato fu Charles Troy Coleman, un bianco che aveva assassinato tre persone ed era nel braccio della morte da undici anni. Era il capo di una fazione di

detenuti piuttosto rissosa e attaccabrighe, e molti al McAlester non si disperarono all'idea che alla fine gli facessero l'iniezione letale. Si rendevano conto, tuttavia, che sarebbe stato il primo di una lunga serie. L'esecuzione di Coleman attirò l'attenzione dei media. Fuori dal penitenziario si tenevano veglie a lume di candela e i giornalisti intervistavano vittime, manifestanti, religiosi e chiunque passasse di lì per caso. La tensione era alle stelle. Coleman era amico di Greg Wilhoit, anche se non condivideva le sue opinioni riguardo alla pena di morte. Ron continuava a essere favorevole alla pena capitale, ma era un po' più titubante. Coleman non gli piaceva e a Coleman non piaceva Ron: faceva troppo baccano. La sera della sua esecuzione nel braccio della morte c'era un silenzio di tomba. Fuori del carcere, in cui erano aumentate le misure di sicurezza, i giornalisti contavano i minuti come la sera di Capodanno. Greg, nella sua cella, li vedeva in televisione. Pochi minuti dopo la mezzanotte arrivò la notizia che Charles Troy Coleman era morto. Alcuni detenuti applaudirono, la maggior parte rimase in silenzio. Qualcuno pregò. Nessuno si aspettava la reazione di Greg. Era travolto dalle emozioni, dal dolore per l'amico perduto, dalla rabbia per chi applaudiva la sua morte. Il mondo era forse un luogo più tranquillo, adesso che Chuck Coleman non c'era più? No, gli assassini avrebbero continuato a uccidere: Greg ormai aveva capito perché lo facevano e sapeva che la pena di morte non era un deterrente. I familiari della vittima erano più contenti? Voleva dire che dovevano fare ancora molta strada, allora. Greg aveva ricevuto un'educazione metodista e leggeva la Bibbia tutti i giorni. Gesù predicava il perdono. Se la vita umana era sacra, come poteva essere soppressa "per legge"? Come facevano le autorità ad arrogarsi il diritto di uccidere? Non era la prima volta che ci pensava, naturalmente, ma adesso vedeva tutto sotto una luce diversa. La morte di Charles Coleman segnò una svolta nella sua vita. Cambiò idea, smise di credere nella legge del taglione. Ne parlò con Ron, che gli confessò di vedere anche lui le cose in maniera diversa. Il giorno dopo, però, prendendosela con Ricky Joe Simmons, Ron urlò che doveva morire, che bisognava prenderlo e fucilarlo in mezzo alla strada. Il 15 maggio 1991 la Corte d'appello dell'Oklahoma confermò con ver-

detto unanime la condanna a morte per Ron Williamson. A scrivere la motivazione fu il giudice Gary Lumpkin, che ravvisò diversi vizi di procedura nel processo, ma li valutò irrilevanti a fronte del "ponderoso materiale probatorio" a carico dell'imputato. Tuttavia, non specificò in che cosa consistesse. Bill Luker comunicò a Ron la cattiva notizia per telefono. Ron la prese abbastanza bene: aveva studiato il ricorso di Luker, gli aveva parlato molte volte e sapeva di non avere moltissime chance. Lo stesso giorno anche a Dennis Fritz venne comunicata la sentenza della Corte d'appello. I giudici avevano ravvisato nel suo processo una serie di vizi procedurali, ma di nuovo il materiale probatorio a suo carico era definito "ponderoso". Dennis non era contento di come era stato condotto il ricorso e non rimase sorpreso di aver perso. Erano tre anni che frequentava assiduamente la biblioteca giuridica e riteneva di saperne di più del suo avvocato. Ci rimase male, ma non si scoraggiò. Come Ron, aveva altri ricorsi da presentare ad altre corti. Mollare a quel punto sarebbe stato da sciocchi. A differenza di Ron, però, Dennis era solo. Non essendo stato condannato a morte, non aveva diritto a un avvocato d'ufficio. Non sempre i ricorsi in appello venivano respinti. Con gran gioia di Mark Barrett, il 16 aprile 1991 a Greg Wilhoit era stato riconosciuto il diritto a un altro processo. La Corte d'appello dell'Oklahoma non aveva ritenuto possibile ignorare il pessimo lavoro svolto da George Briggs e aveva ravvisato la violazione del diritto costituzionale alla difesa e al giusto processo. Quando si rischia la pena di morte, se non si riesce ad avere l'avvocato migliore, conviene avere il peggiore. E infatti Greg, che si era inconsapevolmente rivolto a un inetto, ottenne un nuovo processo. In genere ai detenuti non venivano date spiegazioni, quando venivano fatti uscire di cella e portati fuori del braccio della morte. Le guardie dicevano loro di prepararsi e basta. Quando Greg le vide arrivare, però, sapeva già che aveva vinto e aspettava il grande momento. «Prendi tutta la tua roba» gli disse una guardia. In pochi minuti, Greg mise i propri averi in una scatola di cartone e uscì dalla cella. Ron era dall'altra parte del corridoio e Greg non ebbe modo di salutarlo, ma andò via preoccupato per l'amico che lasciava al McAlester.

Venne trasferito nel carcere della contea di Osage e Mark Barrett chiese la scarcerazione su cauzione. Essendo imputato di un reato punibile con la pena di morte in attesa di un nuovo giudizio, Greg non era propriamente un uomo libero. Il giudice però fissò la cauzione a una cifra meno esorbitante del solito: 50.000 dollari. I familiari di Greg riuscirono a metterla insieme nel giro di poco tempo. Dopo cinque anni di carcere, quattro dei quali nel braccio della morte, Greg era di nuovo fuori. E non sarebbe mai più tornato dietro le sbarre. La costruzione della H Unit era iniziata nel 1990. L'unità era quasi interamente di cemento: pavimenti, pareti, soffitti, brande e scaffali. Niente metallo nelle celle, a parte le sbarre: cemento ovunque. Al termine dei lavori, era piena di polvere e terra, senza né luce né aerazione. Venne inaugurata nel novembre del 1991, con un solenne ricevimento. Importanti personaggi tagliarono nastri al suono della banda del carcere. Vennero organizzati brevi giri turistici prima del trasferimento dei detenuti. Venne addirittura offerta la possibilità di provare - a pagamento - l'ebbrezza di una notte in cella, sulla branda di cemento nuova di zecca. Dopo la cerimonia di inaugurazione, nella struttura vennero trasferiti alcuni detenuti dai settori di media sicurezza, che furono attentamente osservati per vedere quali danni potessero causare. I più pericolosi, quelli che venivano dalla F Cellhouse, vennero trasferiti solo dopo che la H Unit si fu dimostrata solida, funzionale e a prova di fuga. Lamenti e proteste iniziarono immediatamente: non c'erano finestre, non c'era luce naturale e neppure un filo d'aria. Le celle erano per due, ma troppo piccole per due persone. Le brande di cemento erano troppo dure e troppo ravvicinate fra loro, con water e lavabo incuneati nel mezzo, così che persino l'evacuazione diventava un evento condiviso. Le celle erano disposte in modo tale che i detenuti non potevano più scambiarsi quattro chiacchiere, cosa per loro importantissima. La H Unit era stata progettata appositamente per ridurre al minimo i contatti, non soltanto fra detenuti e polizia carceraria, ma anche fra i detenuti stessi. Il cibo era ancora peggiore che alla F Cellhouse. La preziosa ora d'aria si teneva in una specie di bunker di cemento, più piccolo di un campo da tennis, con muri alti cinque metri e mezzo e una spessa grata in cima che bloccava la luce. Non si vedeva neppure un centimetro quadrato di verde. Tutto era di cemento e il cemento non era stato né trattato né verniciato,

per cui c'era polvere dappertutto. Si accumulava negli angoli delle celle, ma era anche sui muri, per terra, nell'aria. I detenuti non potevano fare a meno di respirarla. Spesso gli avvocati che andavano a trovarli uscivano con la tosse e la gola secca. L'impianto di aerazione, in teoria avanzatissimo, era a circuito chiuso. Questo significava che l'aria in circolo era sempre la stessa. Niente di male, ma in caso di guasto l'assenza di sbocchi esterni causava non pochi problemi. E i guasti furono piuttosto frequenti, almeno finché l'impianto non venne messo a regime. Leslie Delk, uno degli avvocati assegnati a Ron, elencò i problemi a un collega che aveva fatto causa alla prigione: La qualità del cibo è pessima e quasi tutti i miei assistiti sono dimagriti. Uno ha perso quaranta chili in dieci mesi. L'ho fatto presente alla direzione, ma naturalmente loro dicono che sta benissimo. Ho scoperto di recente mentre andavo all'infermeria che i pasti arrivavano dal vecchio carcere, perché la cucina è lì. A servirli alla H Unit sono alcuni detenuti, i quali sono autorizzati a tenersi tutto ciò che avanza dopo la distribuzione. Ne consegue che i reclusi nel braccio della morte ricevono porzioni che sono la metà di quelle servite ai detenuti del resto del carcere. Non vi è supervisione alcuna e nessuno controlla come viene distribuito il cibo alle celle. I miei clienti sostengono che le pietanze arrivano invariabilmente fredde, spesso immangiabili e in quantità minima. Molti sono costretti a comprarsi da mangiare allo spaccio della prigione, che naturalmente ha prezzi ben più alti rispetto ai negozi normali. I detenuti che non hanno nessuno che gli mandi soldi fanno letteralmente la fame. La H Unit fu un vero e proprio shock, per i detenuti. Erano due anni che sentivano parlare di una struttura moderna da undici milioni di dollari e rimasero sbigottiti nel vedersi trasferire in un sotterraneo più brutto e più piccolo della F Cellhouse. Ron la detestava. Era in cella con Rick Rojem, nel braccio della morte dal 1985, che ebbe su di lui un'influenza tranquillizzante. Rick era buddhista, passava ore a meditare e amava la chitarra. Le celle erano piccolissime e non permettevano alcuna privacy. Rick e Ron avevano messo una coperta fra le due brande per cercare un po' di solitudine. Rojem era preoccupato per Ron, che aveva perso interesse per la lettura,

cambiava discorso ogni due minuti ed era molto irrequieto. Era curato sporadicamente, in maniera inadeguata. Dormiva per ore, passeggiava avanti e indietro per la cella tutta la notte borbottando, si attaccava alle sbarre e urlava. Stando con lui ventitré ore su ventiquattro, Rojem vedeva il suo compagno di cella sprofondare sempre di più nella follia e si sentiva impotente. Dopo il trasferimento nella H Unit, Ron perse quaranta chili. Gli vennero i capelli grigi, sembrava un fantasma. Un giorno Annette, mentre lo aspettava in sala visite, vide le guardie accompagnare un vecchio tutto pelle e ossa con la barba e i capelli grigi lunghi e arruffati. Non lo riconobbe. Era suo fratello. Disse: «Mi sono vista portare in sala visite quell'uomo scavato, magrissimo, con i capelli lunghi e l'aria malata, irriconoscibile, sono tornata a casa e ho scritto alla direzione di fargli il test dell'AIDS. Aveva un'aria talmente malandata che mi è venuto il dubbio che si fosse ammalato. Con le storie che si sentono sulle prigioni...». Dal carcere le risposero di stare tranquilla: suo fratello non aveva l'AIDS. Lei scrisse un'altra lettera, protestando per la qualità del cibo e i prezzi degli alimentari allo spaccio. Aveva saputo che parte degli utili del negozio andavano a un fondo per le attrezzature sportive delle guardie. Nel 1992 il McAlester stipulò un contratto con lo psichiatra Ken Foster, che ben presto incontrò Ron Williamson. Lo trovò scarmigliato, confuso, privo di contatto con la realtà, magrissimo, fragile, emaciato e in cattiva salute. Capì subito che stava male e trovò strano che il personale del carcere non si fosse accorto di nulla. Le condizioni psichiche di Ron erano ancora peggiori di quelle fisiche. I suoi accessi di ira andavano ben oltre la normalità ed era evidente che aveva perso il contatto con il reale. Il dottor Foster assistette a diversi scoppi di ira maniacale e identificò tre temi principali: 1) la sua innocenza; 2) il fatto che Ricky Joe Simmons aveva confessato e avrebbe dovuto essere processato; 3) il malessere diffuso, con dolori al petto e la sensazione di stare per morire. Nonostante questi sintomi, ovvi ed estremi, al dottor Foster non risultava che Ron fosse seguito da uno specialista. Per uno nelle sue condizioni non ricevere cure mediche voleva dire sviluppare sintomi psicotici. Foster scrisse: "La reazione psicotica e il deterioramento che la accompagna peggiorano in concomitanza con lo stress causato dalla reclusione

nel braccio della morte e dalla consapevolezza della morte imminente. La scala GAF dei più autorevoli manuali di salute mentale classifica la prigionia come elemento di stress 'catastrofico'". Impossibile calcolare quanto più catastrofico esso sia se la persona è innocente. Il dottor Foster decise che Ron aveva bisogno di cure adeguate in un ambiente più sereno. Forse non sarebbe mai guarito del tutto, ma poteva migliorare. Purtroppo si accorse ben presto che la salute dei condannati a morte era considerata di ben poco conto. Parlò con James Saffle, presidente regionale del Department of Corrections, e con Dan Reynolds, direttore del McAlester. Entrambi conoscevano Ron Williamson e i suoi problemi, ma entrambi avevano cose più importanti da fare. Ken Foster, tuttavia, si dimostrò un uomo determinato al limite della cocciutaggine, uno spirito indipendente che non amava la burocrazia e prendeva a cuore il proprio lavoro. Continuò a martellare Saffle e Reynolds, spiegando loro nei dettagli i gravi problemi psichici e fisici di Ron. Chiedeva appuntamento a Reynolds almeno una volta alla settimana per riferirgli lo stato dei suoi pazienti e non mancava mai di menzionare Ron. E parlava tutti i giorni con il vicedirettore, aggiornandolo sul lavoro svolto e passandogli rapporti da inoltrare al direttore. Foster fece presente numerose volte che Ron non stava seguendo una terapia adeguata e che per questo motivo stava peggiorando mentalmente e fisicamente. Lo indignava che non lo trasferissero nella SCU, la Special Care Unir, che pure era vicinissima alla H Unit. La SCU era l'unica struttura del McAlester in grado di curare chi soffriva di gravi problemi mentali, tuttavia per consuetudine non ammetteva i condannati a morte. I motivi ufficiali erano incerti, ma molti avvocati sostenevano che fosse un problema politico: se un condannato a morte veniva dichiarato insano di mente, infatti, non poteva più essere giustiziato. La non ammissibilità dei condannati a morte alla SCU era stata più volte messa in discussione, ma alla fine era sempre stata confermata. Ken Foster la mise in discussione per l'ennesima volta. Spiegò ripetutamente a Saffle e Reynolds che non era possibile curare Ron senza portarlo nella Special Care Unit, dove sarebbe stato possibile monitorare le sue condizioni e trovare la terapia giusta. Spesso le sue spiegazioni erano accorate, intense e pertinenti. Ma Dan Reynolds non voleva saperne, forse perché non vedeva il motivo di guarire Ron. «Si chiamano condannati a morte

perché stanno per morire» diceva. Foster fu tanto insistente che alla fine Reynolds si stufò e smise di riceverlo. Foster continuò imperterrito nella sua battaglia per trasferire Ron alla SCU. Ci riuscì solo dopo quattro anni. La fase successiva al primo appello permette la presentazione di materiale probatorio non prodotto in sede di processo. Secondo la procedura, Bill Luker passò la pratica a Leslie Delk dell'Appellate Public Defender's Office, la quale decise che la priorità era ottenere cure adeguate per Ron. L'aveva incontrato una volta alla F Cellhouse e si era resa conto che era molto malato. Dopo il trasferimento nella H Unit, si era allarmata per il suo rapido peggioramento. Non era né psicologa né psichiatra, ma il suo lavoro prevedeva l'identificazione dei problemi mentali e a questo scopo aveva ricevuto una formazione specifica. In genere si avvaleva della consulenza di un esperto di salute mentale, ma con Ron non fu possibile. La H Unit era stata progettata per ridurre al minimo i contatti con i detenuti e non era concesso a nessuno stare con loro nella stessa stanza, nemmeno agli avvocati. Persino gli psichiatri dovevano restare al di là di un vetro e parlare con i malati per telefono. Per la valutazione psicologica di Ron prevista dalla normativa, Leslie Delk convocò la dottoressa Pat Fleming. Costei fece tre tentativi, ma non riuscì a completare la propria valutazione. Il suo paziente era agitato, maniacale, soffriva di allucinazioni, non collaborava. Il personale del carcere la informò che si comportava sempre così. Era evidente che Ron era gravemente disturbato e non era in condizione di aiutare in alcun modo il proprio legale rappresentante. La Fleming non poté portare a termine la propria valutazione perché non le venne concesso di stare nella stessa stanza di Ron per parlare con lui, osservare il suo comportamento o somministrargli dei test. Incontrò il medico della H Unit e gli spiegò la situazione. In seguito le dissero che Ron era stato visto da alcuni specialisti del carcere, ma lei non notò alcun miglioramento. Consigliò il ricovero presso l'Eastern State Hospital per stabilizzare e valutare il paziente. La risposta fu no. Leslie Delk insistette. Prese appuntamento con funzionari e medici del carcere, per protestare e chiedere che Ron venisse curato meglio. Le ven-

nero fatte molte promesse, tutte disattese. Dissero che gli avevano modificato la terapia, ma lei non notò risultati apprezzabili. Leslie Delk espresse la propria frustrazione in una serie di lettere a diversi funzionari del carcere. Andava a trovare Ron più che poteva e ormai era convinta che peggio di così non potesse stare. Temeva che morisse da un momento all'altro. Se questi operatori esterni cercavano in tutti i modi di far sì che Ron venisse curato, fra il personale del carcere c'era chi si divertiva alle sue spalle. Alcune guardie lo tormentavano attraverso il nuovo interfono della H Unit. Ogni cella era provvista di un apparecchio che la collegava alla sala di controllo, al fine di consentire alle guardie di evitare i contatti con i carcerati. Ma certe ne approfittavano. «Ron, sono Dio» ululava una voce nella cella a notte fonda. «Perché hai ucciso Debbie Carter?» Dopo un attimo, Ron si metteva a urlare a squarciagola che non era stato lui, che era innocente, che non aveva mai ammazzato nessuno, disturbando il silenzio della sezione sud-ovest. Le sue urla duravano anche un'ora, per lo sgomento dei vicini di cella e il divertimento delle guardie. Appena Ron si calmava, la voce tornava: «Ron, sono Debbie Carter. Perché mi hai ucciso?». E le urla tormentate riprendevano. «Ron, sono Charlie Carter. Perché hai ammazzato la mia bambina?» I detenuti pregavano le guardie di smetterla, ma quelle si divertivano troppo. Rick Rojem aveva l'impressione che ce ne fossero due particolarmente sadiche che non riuscivano a trattenersi dal provocare Ron. Gli abusi andarono avanti per mesi. «Ignorali» lo supplicava Rick. «Se fai finta di niente, per loro finisce il divertimento e la smettono.» Ma Ron non ci riusciva. Si sentiva in dovere di convincere tutti della propria innocenza e pensava che urlarlo dalle sbarre della cella fosse il modo migliore. Spesso, quando non ce la faceva più, quando era troppo rauco o troppo stanco per gridare, si metteva vicino al citofono e parlava sottovoce al ricevitore per ore. Quando Leslie Delk lo venne a sapere, scrisse una lettera di fuoco all'amministratore della H Unit. Era datata 12 ottobre 1992 e diceva: Come le accennavo, ho sentito da diverse fonti che Ron Williamson

viene tormentato attraverso il citofono da alcune guardie, che evidentemente trovano divertente provocare un malato di mente. Mi risulta che le molestie continuino e che la guardia carceraria Martin recentemente si sia addirittura avvicinata alla cella di Williamson per provocarlo a proposito di Ricky Joe Simmons e Debra Sue Carter. Sembra che il suo collega Reading si sia intromesso per farlo smettere e abbia dovuto insistere parecchio prima di riuscirci. Sono diverse le fonti che attestano che Martin tormenta e molesta continuamente Williamson. Ritengo pertanto che si dovrebbe controllare se queste voci corrispondono a verità e nel caso intervenire ufficialmente. Sarebbe inoltre opportuno che il personale che ha a che fare con detenuti malati di mente riceva un corso di formazione appropriato. Non tutte le guardie erano crudeli, però. Una, donna, una sera tardi si fermò a parlare con Ron. Aveva un aspetto orribile e diceva di avere una fame da lupi perché non mangiava da giorni. Lei gli credette e andò a prendergli un barattolo di burro di arachidi e un pezzo di pane raffermo. In una lettera a Renee, Ron scrisse di aver mangiato da re, quella sera, e di non aver avanzato nemmeno una briciola. Kim Marks era una detective che lavorava per l'Oklahoma Indigeni Defense System e passò con Ron più tempo di chiunque altro, alla H Unit. Quando le venne assegnato il caso, lesse diligentemente i verbali del processo e tutti i suoi allegati. Aveva fatto la giornalista per un quotidiano e aveva forti dubbi sulla colpevolezza di Ron. Stilò una lista di dodici potenziali sospetti, tutti con precedenti penali. Al primo posto c'era Glen Gore, per molti ovvi motivi. Era con Debbie Carter la sera della sua morte; la conosceva da tempo e quindi poteva avere accesso a casa sua; aveva una storia di violenze ai danni delle donne; aveva puntato lui il dito contro Ron. Perché la polizia non aveva indagato sul suo conto? Più Kim leggeva i rapporti della polizia e i verbali del processo, più si convinceva che le proteste di innocenza di Ron erano fondate. Lo andò a trovare molte volte e, come Leslie Delk, assistette al suo rapido declino. A ogni visita, era sempre più preoccupata: non aveva mai visto un detenuto invecchiare così rapidamente. Ron incanutiva a vista d'occhio, sebbene non avesse ancora quarant'anni. Era magrissimo e pallidissimo,

anche perché non vedeva mai il sole. Aveva i vestiti luridi e troppo larghi, gli occhi pesti e allucinati. Fra i compiti di Kim Marks c'era anche quello di determinare se Ron era malato di mente; e nell'eventualità dimostrarlo attraverso perizie valide e fare in modo che venisse curato. A lei sembrava evidente che Ron aveva problemi mentali e stava malissimo. Ma la politica del carcere prevedeva che i detenuti nel braccio della morte non potessero essere ricoverati nella Special Care Unit. Come il dottor Foster, anche Kim Marks portò avanti la sua battaglia per anni. Trovò il filmato della seconda prova con la macchina della verità cui Ron era stato sottoposto nel 1983. Benché all'epoca gli fossero già stati diagnosticati depressione e disturbo bipolare con sospetta schizofrenia, era molto più coerente e controllato, al punto da presentarsi come una persona quasi normale. Nove anni dopo, di normale non aveva più nulla. Era maniacale, scollegato dalla realtà, consumato dalle ossessioni: Ricky Joe Simmons, la religione, i testimoni che avevano mentito al suo processo, la mancanza di denaro, Debbie Carter, la legge, la musica, la causa che intendeva intentare per farsi risarcire dei danni subiti, la sua carriera di giocatore di baseball, gli abusi e le ingiustizie che stava patendo. Kim Marks parlò con il personale del carcere e venne a sapere che Ron gridava per intere giornate. Anche lei lo sentì gridare e strepitare più volte: la toilette delle donne aveva un'apertura da cui si sentivano perfettamente le voci della sezione sud-ovest, dove era rinchiuso Ron. Una volta che Kim la utilizzò, rimase sconcertata nel sentirlo ululare come un pazzo. Era turbata e con Leslie Delk si impuntò per ottenere che venisse trattato meglio. Le due donne chiesero prima che venisse fatta un'eccezione e autorizzato il trasferimento di Ron nella SCU, poi un ricovero all'Eastern State Hospital. Invano. Nel giugno del 1992 Leslie Delk chiese l'accertamento delle capacità mentali di Ron alla Corte distrettuale della contea di Pontotoc. Bill Peterson obiettò e la Corte respinse l'istanza. Leslie Delk fece immediatamente ricorso, ma la Corte d'appello confermò il rigetto. A luglio, Leslie Delk presentò un'altra voluminosa istanza di revisione della condanna perché ottenuta in violazione dei diritti garantiti dalla Costituzione, sostenendo che le documentate condizioni mentali di Ron a-

vrebbero dovuto essere prese in considerazione in sede di giudizio. L'istanza venne respinta due mesi dopo e Leslie si rivolse alla Corte d'appello dell'Oklahoma. Perse di nuovo, come c'era da aspettarsi. Il passo successivo era il ricorso alla Corte suprema degli Stati Uniti, con pochissime speranze di vederlo accolto. Infatti, un anno dopo venne respinto. Vennero presentate altre istanze, tutte puntualmente respinte, e il 26 agosto 1994 la Corte d'appello fissò l'esecuzione di Ron Williamson per il 27 settembre 1994. Ron era nel braccio della morte da sei anni e quattro mesi. Dopo due anni di libertà, Greg Wilhoit dovette presentarsi in tribunale a difendersi nuovamente dall'accusa di aver assassinato la ex moglie. Uscito dal McAlester, si era stabilito a Tulsa per cercare di ritrovare una parvenza di normalità. Non era facile, tuttavia, superare i danni emotivi e psicologici. Le sue figlie, di ormai otto e nove anni, erano state affidate a due insegnanti della sua stessa congregazione religiosa, che si occupavano molto bene di loro. I suoi genitori e le sue sorelle gli stavano vicino e lo sostenevano come sempre. La sua vicenda aveva attirato una certa attenzione. George Briggs nel frattempo era morto, ma prima era stato radiato dall'ordine degli avvocati. Greg era stato contattato da alcuni penalisti importanti, che si erano offerti di rappresentarlo. Gli avvocati sono attratti dalla pubblicità come le formiche da un cestino da picnic e Greg era divertito all'idea di essere al centro di tanto interesse. Ma sulla scelta non aveva avuto dubbi: si sarebbe fatto difendere dall'amico Mark Barrett, che era già riuscito a farlo uscire di prigione. Nel primo processo, a danneggiarlo era stata soprattutto la perizia dei due consulenti tecnici dell'accusa, i quali avevano entrambi asserito che la ferita sul seno di Kathy Wilhoit era stata provocata dai denti dell'ex marito. La famiglia Wilhoit si era rivolta a un perito di parte, il dottor Thomas Krauss del Kansas, che era rimasto sbigottito di fronte all'evidente discrepanza fra le impronte dentali di Greg e quelle sul corpo della vittima: a suo parere, erano completamente diverse. Mark Barrett inviò le impronte dentali di Greg a undici esperti di fama nazionale, molti dei quali lavoravano spesso per la procura. Fra loro c'erano anche il principale consulente in materia dell'FBI e il perito che aveva testimoniato contro Ted Bundy. Il verdetto fu unanime: tutti e dodici i periti esclusero che a lasciare quel segno fosse stato Greg Wilhoit. Le im-

pronte non erano neppure lontanamente comparabili. Uno dei periti convocati dalla difesa all'udienza preliminare identificò venti importanti discrepanze fra le impronte dentali di Greg e quelle lasciate sulla vittima, ciascuna delle quali escludeva Greg. Ma la procura si intestardì per celebrare comunque il processo, che ben presto si trasformò in una farsa. Mark Barrett dimostrò l'inesattezza delle perizie presentate dal pubblico ministero e distrusse la credibilità del suo consulente tecnico in materia di DNA. Quando anche l'ultimo dei testimoni del pubblico ministero fu ascoltato, Barrett chiese che le prove addotte dall'accusa venissero considerate prive di fondamento e che Greg Wilhoit venisse prosciolto. Il giudice sospese la seduta per il pranzo. Tornato in aula, annunciò alla giuria e a tutti i presenti che la mozione di Barrett era stata accolta: l'imputato era assolto. «Signor Wilhoit, lei adesso è un uomo libero» gli disse. Greg festeggiò tutta la notte con parenti e amici, la mattina dopo prese l'aereo e andò in California. Non tornò più in Oklahoma, se non per fare visita ai familiari o manifestare contro la pena di morte. Finalmente, a otto anni dalla morte di sua moglie Kathy, era un uomo libero. Polizia e procura si erano fissate sull'uomo sbagliato e l'assassino l'aveva fatta franca. Non è mai stato identificato. La H Unit comprendeva anche una nuova sala per le esecuzioni. La inaugurò Robyn Leroy Parks il 10 maggio 1992. L'uomo, nero, quarantatré anni, era stato condannato per l'assassinio di un benzinaio nel 1978. Era nel braccio della morte da tredici anni. Tre giorni dopo venne giustiziato Olan Randle Robison, bianco, quarantasei anni, che nel 1980 aveva ucciso una coppia dopo essere entrato nella loro casa di campagna. Ron Williamson sarebbe dovuto essere il terzo condannato a essere legato sulla nuova lettiga della H Unit. Il 30 agosto 1994, Ron si trovò davanti alla cella un gruppetto di guardie accigliate, pronte a portarlo chissà dove. Legato mani e piedi, con una catena che collegava quella dei polsi a quella delle caviglie, venne accompagnato fuori. Intuì che doveva essere una cosa seria. Era magro, sporco, non rasato e instabile come al solito, per cui le guardie si tenevano leggermente a distanza. A scortarlo c'era anche Martin. Lo fecero salire a bordo di un cellulare e lo portarono negli uffici ammi-

nistrativi, che si trovavano nella parte anteriore del penitenziario. Lì fu scortato in direzione e fatto accomodare in una sala con un grande tavolo attorniato di persone. In catene e circondato dalle guardie, venne fatto sedere di fronte al direttore del penitenziario. Costui esordì presentando Ron ai vari funzionari presenti, che avevano tutti un'espressione cupa. Piacere di conoscervi. Gli venne consegnata una "notifica", che il direttore lesse ad alta voce: A seguito della condanna da lei ricevuta per l'omicidio di Debra Sue Carter, le comunichiamo che verrà giustiziato martedì 27 settembre 1994 alle ore 00.01. Scopo del presente incontro è informarla delle regole e delle procedure da seguire nei prossimi trenta giorni, insieme con i privilegi che da ora in poi le saranno concessi. Ron si agitò, disse che lui non aveva ammazzato nessuno. D'accordo, non era uno stinco di santo e di sciocchezze nella vita ne aveva fatte tante, ma non aveva mai ucciso. Il direttore continuava a leggere, Ron a insistere che non aveva assassinato lui Debbie Carter. Il direttore e l'amministratore dell'unità gli parlarono due minuti, cercando di calmarlo. Non erano lì per giudicarlo, gli spiegarono: stavano semplicemente facendo il loro lavoro. Ma c'era un video, una registrazione della confessione di Ricky Joe Simmons, lui ce l'aveva, poteva farla vedere al direttore anche subito. Non era stato lui. Lui non c'entrava niente con la morte di Debbie Carter. Minacciò di andare in televisione a dire che era innocente. Disse che sua sorella era andata al college a Ada. Il direttore continuò imperterrito: La mattina precedente il giorno dell'esecuzione, verrà trasferito in una cella speciale, dove rimarrà sotto la costante sorveglianza delle guardie incaricate. Ron lo interruppe di nuovo, urlando che non aveva ucciso Debbie Carter. Il direttore non si scompose e lesse pagine e pagine di regole riguardo visite, effetti personali, esequie. Ron sentì parlare di esequie e si zittì. «Che cosa desidera che venga fatto delle spoglie?» gli chiese il direttore.

Ron era agitato, confuso, impreparato a una domanda simile. Alla fine riuscì a dire di dare tutto a sua sorella. Non aveva domande. Sì, aveva capito tutto. La seduta fu tolta e lui venne riportato in cella. Era cominciato il conto alla rovescia. Ron si dimenticò di telefonare alle sorelle. Due giorni dopo, controllando la posta, Annette si ritrovò fra le mani una busta del Department of Corrections. Conteneva una lettera firmata dal vicedirettore del McAlester. Gentile signora Hudson, è con sommo rammarico che la informo che suo fratello Ronald Keith Williamson, matricola numero 134846, verrà giustiziato martedì 27 settembre alle ore 00.01 nel penitenziario di Stato dell'Oklahoma. Il giorno 26 il condannato verrà trasferito dalla cella attualmente occupata e potrà ricevere visite nel seguente orario: 9-12, 13-16, 18-20. Tali visite saranno limitate al confessore, al legale rappresentante e ad altre due persone, previa approvazione della direzione del carcere. All'esecuzione potranno assistere cinque persone, i cui nominativi devono essere precedentemente notificati alla suddetta direzione. Le esequie sono a carico della famiglia, che è tenuta a provvedere alla loro organizzazione. In caso questa si rifiutasse, la salma verrà tumulata nel cimitero del carcere. Per qualsiasi informazione o chiarimento, non esiti a contattare questo ufficio. Cordiali saluti, Ken Klinger Annette chiamò Renee per comunicarle la tragica notizia. Erano disperate entrambe, cercavano di convincersi che non poteva essere vero. Parlarono di molte cose e decisero fra l'altro di non riportare il corpo a Ada e di non esporlo nella camera ardente per evitare folle di curiosi. Era meglio celebrare i funerali in forma privata al McAlester, in presenza di pochi invitati. Solo parenti e amici intimi. Avevano la possibilità di assistere all'esecuzione, dicevano le autorità. Renee non se la sentiva, Annette voleva esserci. La notizia si diffuse rapidamente per tutta Ada. Peggy Stillwell venne a sapere dalla televisione che era stata fissata la data dell'esecuzione di Ron

Williamson. Era contenta, ma anche arrabbiata che nessuno le avesse detto niente. Credeva di avere il diritto di assistervi ed era intenzionata a farlo. Decise di aspettare che la chiamassero. Annette si chiuse in se stessa, rifiutandosi di credere che il fratello stava per essere giustiziato. Diradò le visite e ogni volta rimaneva meno tempo con lui. Ron era fuori di testa, le urlava di tutto oppure si comportava come se lei non ci fosse. Certe volte, Annette se ne andava dopo meno di cinque minuti. 13 Conclusa la procedura statale e fissata la data dell'esecuzione, gli avvocati di Ron si rivolsero alla Corte federale per la procedura di Habeas Corpus, dall'espressione latina che significa "che tu abbia (libera) la tua persona". L'istanza di Habeas Corpus prevede che venga accertata la legalità della detenzione di un cittadino. Se ne occupò Janet Chelsey, dell'Indigeni Defense System di Norman, che aveva molta esperienza di Habeas Corpus ed era abituata ai ritmi frenetici con cui andavano presentate istanze e mozioni mentre il condannato contava i giorni che lo separavano dalla morte. Incontrò Ron, gli spiegò come aveva intenzione di muoversi e gli assicurò che avrebbe ottenuto un rinvio. Con il mestiere che faceva, le capitava abbastanza frequentemente di fare quel tipo di discorso e i suoi assistiti, benché comprensibilmente spaventati, in genere si fidavano di lei. Il fatto che la data dell'esecuzione fosse già stata fissata era preoccupante, certo, ma di regola fino al completamento della procedura di Habeas Corpus i condannati non venivano messi a morte. Ron reagì diversamente, però. Il fatto di avere i giorni contati lo faceva sprofondare sempre più nella follia. Contava i giorni, non riusciva a credere a Janet Chelsey, vedeva le lancette dell'orologio scorrere inesorabili e l'iniezione letale avvicinarsi. Passarono prima una settimana, poi due. Ron passava molto tempo a pregare e leggere la Bibbia. Dormiva tantissimo e smise di gridare, anche perché ormai lo imbottivano di farmaci. Il braccio della morte attendeva in silenzio, con i detenuti che si chiedevano perplessi se davvero le autorità avrebbero giustiziato un malato di mente come Ron Williamson. Passarono tre settimane.

La Corte del distretto orientale dell'Oklahoma si trova a Muskogee. Nel 1994 era composta da due giudici, nessuno dei quali particolarmente amante degli appelli di Habeas Corpus o delle cause intentate dai detenuti, che invece arrivavano a migliaia. Riguardavano problemi vari, abusi, proteste di innocenza. I condannati a morte erano rappresentati da avvocati, a volte messi a disposizione a titolo gratuito da grossi studi legali, i quali scrivevano memorie lunghissime e creative che era indispensabile leggere, ma la maggior parte dei detenuti non si avvaleva di un legale rappresentante e al massimo si faceva consigliare da qualcuno con un po' più di esperienza, che in cambio di un pacchetto di sigarette indicava la procedura da seguire. Le innumerevoli denunce dei carcerati riguardavano la qualità scadente del cibo, le docce troppo fredde, le manette troppo strette, il sadismo delle guardie, la mancanza di luce naturale e cose del genere. La maggior parte di queste denunce non stava nemmeno in piedi e veniva immediatamente rigettata e mandata al Decimo Circuito di Denver, sede del distretto federale di appello che comprendeva l'Oklahoma. L'istanza di Habeas Corpus presentata da Janet Chesley venne affidata al giudice Frank Seay, nominato da Jimmy Carter nel 1979. Seay era originario di Seminoie e prima di entrare nella Corte federale aveva lavorato undici anni nel ventiduesimo distretto, che comprendeva la contea di Pontotoc. Pertanto, conosceva molto bene la città di Ada, il palazzo di giustizia e chi lo bazzicava. Nel maggio 1971, Seay aveva pronunciato un breve discorso ai diplomandi di un liceo di Asher. Fra essi c'era anche Ron Williamson. Nella magistratura da ormai quindici anni, Seay aveva poca pazienza con le istanze di Habeas Corpus che gli arrivavano sulla scrivania. Quella di Ron giunse nel settembre del 1994, pochi giorni prima della data fissata per l'esecuzione. Seay sapeva che spesso gli avvocati aspettavano l'ultimo momento per presentare le loro istanze in maniera che si rendesse indispensabile rinviare l'esecuzione e si chiedeva che cosa provassero i condannati nel braccio della morte di fronte a queste acrobazie legali. La legge era la legge, tuttavia, e bisognava rispettarla. Perciò Seay aveva concesso diversi rinvii. Non aveva mai autorizzato un nuovo processo su una questione di Habeas Corpus, però. Come sempre, l'istanza venne letta prima di tutto da Jim Payne, magistrato conservatore della Corte federale, che condivideva l'antipatia di Seay per la procedura ma aveva fama di essere molto giusto. Da anni il suo compito era esaminare le istanze di Habeas Corpus per valutarne la fonda-

tezza. Quelle che si basavano su validi elementi erano poche, ma abbastanza da rendere interessante il lavoro. Jim Payne riteneva il proprio un compito importante: se gli fosse sfuggito qualcosa di fondamentale in quei voluminosi fascicoli, rischiava di essere messo a morte un innocente. La petizione di Janet Chesley era talmente ben scritta che attrasse la sua attenzione fin dal primo paragrafo. Quando finì di leggerla, Payne aveva parecchi dubbi sull'equità del processo di Ron. Janet Chesley evidenziava l'inadeguatezza della difesa, l'infermità mentale dell'imputato e l'inaffidabilità delle analisi tricologiche. Jim Payne si portò a casa il fascicolo, lo lesse tutta la sera e quando tornò in ufficio il mattino dopo andò da Seay e gli raccomandò di concedere il rinvio. Seay rispettava molto Payne e, dopo averne parlato a lungo con lui, acconsentì a sospendere l'esecuzione. Ron pregava da ventitré giorni, con un occhio alle lancette che scorrevano inesorabili, quando gli venne comunicato che l'esecuzione era stata sospesa a tempo indeterminato. Mancavano soltanto cinque giorni all'iniezione letale. Jim Payne passò l'istanza di Habeas Corpus alla sua assistente, Gail Seward, che la lesse, si dichiarò d'accordo a un riesame approfondito e trasmise la pratica all'ultima arrivata, un'assistente legale che si chiamava Vicky Hildebrand. Prima di laurearsi in giurisprudenza, Vicky aveva fatto l'assistente sociale e nell'ufficio moderato-conservatore del giudice Seay aveva assunto tacitamente il ruolo di "paladina dei casi umani". Quella di Ron Williamson era la prima istanza di Habeas Corpus di cui si occupava. La colpì sin dal primo paragrafo: Questo è lo strano caso di un sogno trasformatosi in incubo per Ronald Keith Williamson. Grave malato di mente, fu arrestato quasi cinque anni dopo l'omicidio di cui era accusato, quando ormai la persona che avrebbe potuto fornirgli un alibi era morta, e venne condannato quasi esclusivamente sulla base della "confessione" di un sogno. Vicky continuò a leggere e rimase colpita dall'inconsistenza delle prove presentate in tribunale e dall'eccentrica strategia difensiva. Quando lo finì, aveva fortissimi dubbi sulla colpevolezza di Ron. Aveva fortissimi dubbi anche sulle proprie capacità di svolgere quel la-

voro: e se avesse trovato così persuasive tutte le istanze di Habeas Corpus? E se avesse creduto a tutte? Ne parlò con Jim Payne, il quale suggerì di chiedere un'opinione a Gail Seward, più centrista. Vicky passò un intero venerdì a fotocopiare il lungo verbale del processo in maniera che ciascuno dei "cospiratori" ne avesse una. Trascorsero tutto il weekend a leggerlo, parola per parola, e si videro per parlarne il lunedì mattina. Il verdetto fu unanime: vista da destra, da sinistra e dal centro, non era stata fatta giustizia. Non soltanto tutti e tre erano sicuri che il processo fosse stato anticostituzionale, ma credevano anche che Ron fosse innocente. Erano incuriositi dai riferimenti a The Dreams of Ada. L'istanza di Janet Chesley trattava ampiamente la confessione di un sogno resa da Ron. Ron aveva letto il libro dopo l'arresto e lo aveva in cella quando John Christian diceva di aver sentito la sua "confessione". Il libro era stato pubblicato sette anni prima e ormai nelle librerie non si trovava più, ma Vicky lo scovò in biblioteca e in un negozio di libri usati. I tre lo lessero e i loro sospetti nei confronti delle autorità di Ada aumentarono notevolmente. Dal momento che il giudice Seay aveva fama di essere piuttosto duro con le istanze di Habeas Corpus, decisero di mandare avanti Jim Payne, perché cominciasse a parlargliene. Seay lo ascoltò attentamente, poi stette a sentire anche Vicky e Gail. Poiché tutti e tre erano fermamente convinti che si dovesse celebrare un nuovo processo, Seay acconsentì a studiare l'istanza. Conosceva Bill Peterson, Barney Ward e molti altri dei personaggi coinvolti. Barney era un suo vecchio amico, ma di Peterson aveva pochissima stima e, in tutta onestà, non era sorpreso che avesse fatto un lavoro molto approssimativo. A Ada succedevano strane cose, la polizia non godeva di una buona reputazione. Seay rimase particolarmente turbato dalla mancanza di professionalità del giudice Ronald Jones: che procura e polizia lavorassero male non era inconsueto, ma un giudice doveva essere in grado di garantire un processo equo. Era sorpreso che la Corte d'appello non avesse ravvisato violazioni e anomalie. Si convinse che non era stata fatta giustizia e ordinò ai suoi assistenti di studiare approfonditamente il caso. Dennis Fritz aveva perso i contatti con Ron. Gli aveva scritto una lettera, ma lui non aveva risposto.

Kim Marks e Leslie Delk andarono al Conner a interrogarlo. Portarono il video della confessione di Ricky Joe Simmons e glielo fecero vedere. Dennis, come Ron, si arrabbiò moltissimo nell'apprendere che qualcun altro aveva confessato l'omicidio per cui era stato condannato e che al suo processo non se ne fosse neanche parlato. Cominciò una corrispondenza con Kim Marks, per tenersi aggiornato. Frequentando la biblioteca giuridica, era al corrente degli ultimi sviluppi e delle sentenze più recenti. All'inizio degli anni Novanta si era cominciato a parlare di test del DNA e lui leggeva tutto quello che trovava sull'argomento. Nel 1993 un episodio del Phil Donahue Show fu dedicato a quattro uomini scagionati dalla prova del DNA. LO videro in moltissimi, specie in carcere, e fece da catalizzatore per il movimento contro gli errori giudiziari in tutto il paese. Uno degli esponenti principali del movimento era Innocence Project, fondato senza scopo di lucro nel 1992 da due avvocati newyorkesi, Peter Neufeld e Barry Scheck, con sede alla Benjamin N. Cardozo School of Law. A seguire le pratiche erano gli studenti, sotto la supervisione dei legali. Neufeld aveva una lunga storia di attivismo impegnato a Brooklyn, Scheck era interessato alle potenzialità del test del DNA. Divenne famoso quando rappresentò in tribunale O.J. Simpson. Dennis seguì il processo in televisione e alla fine meditò se contattarlo. Avendo ricevuto numerose segnalazioni riguardo l'inadeguatezza dell'H Unit, nel 1994 Amnesty International le dedicò un progetto e rilevò diverse violazioni di norme internazionali e di trattati sottoscritti dagli Stati Uniti. La struttura non rispettava gli standard minimi stabiliti dalle Nazioni Unite. Le celle erano troppo piccole, inadeguatamente arredate, senza finestre, senza luce naturale e senza aerazione, i cortili eccessivamente angusti. Molti detenuti saltavano l'ora d'aria per poter avere la cella tutta per loro. A parte un corso per il conseguimento del diploma di scuola superiore, non c'erano programmi educativi, né possibilità di lavoro. Le funzioni religiose erano soggette a limitazioni, l'isolamento era troppo severo, la qualità e la quantità del cibo insufficienti. In conclusione, Amnesty International trovò le condizioni nella H Unit crudeli, inumane e degradanti, in violazione alle normative internazionali. La vita che essa imponeva ai reclusi poteva avere nel lungo periodo "un effetto deleterio sulla salute psicofisica dei detenuti".

Il rapporto di Amnesty International venne pubblicato e aggiunse veridicità alle denunce sporte dai carcerati. La macchina della pena di morte si inceppò nuovamente dopo tre anni di attività. Il 20 marzo 1995 Thomas Grasso, bianco, trentadue anni, venne giustiziato dopo solo due anni nel braccio della morte. Non gli era stato facile, ma era riuscito a bloccare tutti gli appelli e accelerare la procedura. Fu poi la volta di Roger Dale Stafford, il famoso assassino della steakhouse. La sua fu una delle esecuzioni che destò più scalpore. Gli assassini di massa attirano i giornalisti e Stafford non morì nel silenzio. Aveva passato quindici anni nel braccio della morte e politici, procuratori e forze dell'ordine lo citarono come un chiaro esempio del malfunzionamento del sistema giudiziario. L'11 agosto 1995 ci fu un'esecuzione a dir poco bizzarra. Robert Brecheen, un bianco di quarant'anni, tentò il suicidio il giorno prima dell'esecuzione ingoiando una manciata di antidolorifici che si era chissà come procurato e che aveva accumulato nel tempo. Probabilmente voleva mandare a quel paese il sistema giudiziario, ma la legge prevalse. Trovato privo di sensi dalle guardie, Brecheen venne infatti soccorso e trasportato d'urgenza in ospedale, dove fu sottoposto a lavanda gastrica in maniera da poter essere riportato alla H Unit in tempo per essere ucciso con la prevista iniezione letale. Il giudice Seay ordinò ai suoi assistenti di studiare approfonditamente ogni aspetto del caso Williamson. Essi studiarono i verbali di tutte le udienze, da quella preliminare fino alla fine del processo, catalogarono la documentazione medica di Ron, lessero i rapporti di polizia e analizzarono i referti dell'OSBI. Si divisero il lavoro Vicky Hildebrand, Jim Payne e Gail Seward. Lavoravano in team, con grande impegno e dedizione. Il processo di Ron era stato un disastro, era stato commesso un grave errore giudiziario a cui occorreva rimediare. Il giudice Seay era diffidente nei confronti delle analisi su peli e capelli. Una volta aveva presieduto un caso federale che ruotava intorno alla perizia di un analista dell'FBI esperto in formazioni pilifere, molto qualificato e di provata esperienza. Ma a lui non aveva fatto una buona impressione e non gli aveva concesso di deporre. Vicky Hildebrand si offrì di occuparsi lei del problema. Si documentò

per mesi e si convinse dell'inaffidabilità delle analisi tricologiche, che non sarebbero dovute essere usate a fini forensi. Il giudice Seay era già giunto alla medesima conclusione. Gail Seward si concentrò invece su Barney Ward e i suoi errori. Jim Payne studiò gli aspetti relativi alla "Brady". Per mesi si dedicarono praticamente solo a quel caso, mettendolo da parte solo per urgenze improrogabili. Il loro lavoro non aveva scadenza, ma il giudice Seay era uno stakanovista e pretendeva che anche il suo staff lavorasse sodo. Sgobbavano anche di notte e nel weekend, leggevano e rivedevano il lavoro degli altri. Più approfondivano, più errori trovavano. Più errori trovavano, più si entusiasmavano. Jim Payne incontrava tutti i giorni il giudice Seay, che valutava il lavoro del team. Lesse la prima bozza, la corresse e suggerì quali punti approfondire ulteriormente. Era ormai chiaro che sarebbe stato ordinato un nuovo processo e Seay era un po' preoccupato. Barney Ward era un suo amico ed era uno della vecchia guardia, che avrebbe patito molto le critiche. E poi, come avrebbe reagito Ada alla notizia che lui aveva preso le parti di un assassino come Ron Williamson? Tutti nel team sapevano che il loro lavoro sarebbe stato passato al vaglio del Decimo Circuito di Denver. Dovevano essere sicuri, avere abbastanza argomentazioni per persuadere i suoi giudici della correttezza della loro analisi. Lavorarono per quasi un anno sotto la guida del giudice Seay. Alla fine, il 19 settembre 1995, un anno dopo la sospensione dell'esecuzione, Seay accolse l'istanza di Habeas Corpus e ordinò un nuovo processo per Ron Williamson. La motivazione che accompagnava la sua pronuncia era lunga cento pagine e molto esaustiva, un capolavoro di logica e di analisi. Con un linguaggio chiaro ma rigoroso Seay metteva in luce gli errori di Barney Ward, Bill Peterson, il dipartimento di polizia di Ada e l'OSBI e, pur evitando di sparare a zero sull'operato del giudice Jones, lasciava chiaramente intendere che era manchevole. Ron aveva diritto a un nuovo processo per molte ragioni, prima fra tutte l'inadeguatezza della difesa. Gli errori commessi da Barney Ward erano molti e molto gravi. Non aveva sollevato la questione della capacità mentale dell'imputato; non aveva svolto indagini e presentato prove a carico di Glen Gore; non aveva fatto presente che Terri Holland aveva testimoniato

anche contro Karl Fontenot e Tommy Ward; non aveva informato la giuria che Ricky Joe Simmons aveva confessato l'omicidio, la confessione era stata registrata ed era visionabile; non aveva contestato le confessioni di Ron impedendone l'ammissione al processo; non aveva convocato testimoni per ottenere attenuanti in fase di decisione della pena. Bill Peterson e la polizia vennero incolpati di aver occultato il filmato del secondo test con la macchina della verità somministrato a Ron nel 1983; di aver utilizzato confessioni ottenute con metodi discutibili, compresa la confessione di un sogno; di aver chiamato a deporre sotto giuramento informatori e spie; di aver presentato un caso senza prove consistenti e di aver tenuto nascosto materiale probatorio a discolpa dell'imputato. Entrando nel merito delle perizie sulle formazioni pilifere, il giudice Seay concludeva che si basavano su analisi inaffidabili che non sarebbero dovute essere utilizzate a fini forensi. Criticava inoltre i tecnici dell'OSBI per avere trattato con superficialità i campioni biologici. Bill Peterson, il giudice Jones e il giudice John David Miller avrebbero inoltre dovuto sospendere il procedimento per valutare le condizioni mentali dell'imputato. Il giudice Jones aveva sbagliato a fissare l'udienza sul materiale probatorio a discolpa dell'imputato ai sensi della "Brady" dopo la fine del processo. Il mancato accoglimento dell'istanza di Barney Ward, che aveva assolutamente bisogno di una perizia di parte per poter confutare i dati dell'OSBI, sarebbe bastato da solo a far invalidare il processo. Con precisione chirurgica, Seay sezionava ogni aspetto del processo mettendo a nudo l'iniquità della condanna. A differenza della Corte d'appello dell'Oklahoma, che pure aveva preso in esame il caso ben due volte, Seay non aveva dato nulla per scontato e si era accorto che era stato commesso un errore giudiziario. Insolitamente, la sua opinione terminava con la seguente considerazione: Mentre lavoravo a questo caso, ho detto a un mio amico - il quale non è uomo di legge - che ritenevo che i fatti e la giurisprudenza imponessero la celebrazione di un nuovo processo per un condannato a morte. "È un assassino?" mi ha chiesto costui. Gli ho risposto: "Non lo sapremo mai, se non gli faremo un giusto processo". Non vogliamo che in questo paese vengano messi a morte cittadini

in assenza di un giusto processo. Tuttavia, questo è ciò che è rischiato di accadere a Ron Williamson. Per correttezza, Seay mandò copia dell'opinione a Barney Ward con un biglietto in cui gli scriveva che era desolato, ma non poteva fare altrimenti. Barney Ward gli tolse il saluto. Vicky Hildebrand, Gail Seward e Jim Payne erano soddisfatti del lavoro svolto, ma quando venne reso pubblico provarono comunque un moto di ansia. Concedere un nuovo processo a un condannato a morte non era una scelta popolare, in Oklahoma. Si occupavano del caso da un anno ed erano abbastanza sicuri di aver fatto un lavoro accurato, ma temevano critiche e strali. L'"Ada Evening News" il 27 settembre 1995 titolava: La procura si oppone a un nuovo processo. In prima pagina campeggiavano la foto di Ron Williamson e di Bill Peterson. L'articolo cominciava così: Bill Peterson, indignato, ha dichiarato di essere pronto a rivolgersi alla Corte suprema degli Stati Uniti, se necessario, pur di veder annullare la recente pronuncia del giudice federale che ha ordinato un nuovo processo per Ronald Keith Williamson. Non ci sarebbe stato bisogno di andare fino a Washington, tuttavia. Peterson sosteneva che il procuratore generale gli aveva assicurato che si sarebbe occupato lui in prima persona del ricorso al Decimo Circuito di Denver. Diceva: Sono stupefatto, incredulo, sbigottito, ma anche molto arrabbiato. In tutti gli appelli e ricorsi presentati finora nessuno aveva mai trovato nulla da ridire: questa pronuncia non ha motivo di essere. Non disse, però - e il giornalista mancò di aggiungerlo -, che in caso di condanna a morte la procedura di Habeas Corpus è automatica e ogni pronuncia "ha motivo di essere". Forse, Peterson era troppo arrabbiato. Continuava: Il caso era già stato preso in esame dalla Corte suprema degli Stati Uniti in ben due occasioni. E, in entrambe, la Corte aveva confermato

la condanna e negato un nuovo processo. Non era proprio così, tuttavia: la Corte suprema degli Stati Uniti non aveva mai considerato il merito della condanna, ma solo se vi fossero vizi di giurisdizione o di diritto, come prevedeva la normativa. Comunque Peterson diede il meglio di sé nella conclusione. Il giudice Seay citava in una nota il saggio di Robert Meyer The Dreams of Ada e faceva riferimento al numero di condanne basate su confessioni di sogni emesse nella città. Peterson, indignato che il libro venisse citato in un atto giudiziario, dichiarò con notevole faccia tosta: Non è vero che Williamson, Fontenot e Ward furono condannati sulla base della confessione di un sogno. La procura ricorse in appello contro la pronuncia del giudice Seay. Ron era contento di come erano andate le cose e della prospettiva di avere un nuovo processo, ma era ancora in carcere. Mentre la lunghissima procedura andava avanti, cercava di sopravvivere giorno per giorno. Tuttavia, non era solo a combattere. Kim Marks, la detective, Janet Chesley, l'avvocato, e il dottor Foster si battevano con lui. Erano quattro anni che la direzione del penitenziario gli negava il ricovero nella Special Care Unit, dove avrebbe avuto un ambiente meno stressante e cure migliori. La SCU era vicinissima alla H Unit, ma off-limits per i condannati a morte. Kim Marks riferì, a proposito di Ron: Avevo tantissima paura, non di lui, ma per lui. Ero convinta che bisognasse assolutamente trovare il modo per intervenire, perché ormai Ron era uno straccio, aveva i capelli lunghissimi, le mani gialle di nicotina - non solo i polpastrelli, proprio tutte le mani - e i denti praticamente neri, marci. Li digrignava in continuazione. Aveva la pelle grigia, non si lavava per settimane. Era pelle e ossa, sembrava che non si togliesse mai la camicia di dosso. Camminava continuamente avanti e indietro, parlava a fatica e quando cercava di farlo sputacchiava senza dire nulla di sensato. Temevo che morisse, che non ce la facesse a superare i problemi fisici che gli derivavano da quelli mentali. Janet Chesley, Kim Marks e Ken Foster parlarono con i vari direttori che si susseguirono al McAlester e anche con i loro vice e con il resto del per-

sonale. Susan Otto, direttrice del Federal Public Defender's Office e supervisore di Janet, aveva qualche conoscenza al Department of Corrections e nel febbraio del 1996 riuscì a ottenere un appuntamento con James Saffle e quindi con un suo superiore del Department of Corrections. Quando Kim e Janet si presentarono da Saffle, costui le informò che Ron Ward, attuale direttore del McAlester, era stato autorizzato a fare un'eccezione e ricoverare Ron Williamson alla SCU. La lettera che Ron Ward inviò al direttore della SCU faceva presente che di regola i condannati a morte non potevano accedere alla struttura, ma diceva, fra l'altro: ... La presente costituisce deroga alla normale procedura del penitenziario di Stato relativamente alla Special Care Unit, per cui sono ammessi al ricovero nella struttura tutti i detenuti tranne quelli del braccio della morte. Perché aveva cambiato idea? Due settimane prima, uno psicologo del carcere aveva scritto un rapporto riservato a proposito di Ron Williamson. Oltre a una serie di commenti vari, sottolineava la necessità di un ricovero alla SCU per validi motivi: La nostra equipe è d'accordo sul fatto che Williamson è un soggetto psicotico che beneficerebbe molto di una terapia diversa. Williamson si rifiuta di introdurre il più piccolo cambiamento, ma nella SCU sarebbe possibile imporglielo anche senza la sua collaborazione. Il personale della H Unit era stufo di Ron e voleva toglierselo dai piedi. Il rapporto dello psicologo continuava così: Non c'è dubbio che le condizioni di Williamson stiano peggiorando di settimana in settimana. L'ho notato io, ma anche lo staff. Mike Mullens ha segnalato il deterioramento dello stato mentale del soggetto e gli effetti deleteri che i suoi accessi di ira hanno sugli altri detenuti della sezione in cui si trova. Il motivo principale, però, era un altro: A mio parere, date le attuali condizioni di Williamson, la psicosi ha

raggiunto un livello tale da rendere impossibile l'esecuzione. Egli non risponde infatti ai requisiti minimi di capacità previsti dalla legge. Un ricovero presso la SCU potrebbe però migliorare il suo stato di salute, riportandolo a un livello accettabile. E fu così che Ron venne condotto a piedi alla Special Care Unit, dove venne sistemato in una cella più confortevole e dotata di finestre. Il dottor Foster gli modificò la terapia, controllando che gli venisse somministrata con regolarità. Ron stava tutt'altro che bene, ma almeno era più tranquillo e sembrava meno tormentato. Era estremamente fragile e vulnerabile, ma faceva lentamente dei progressi. Improvvisamente, il 25 aprile, dopo tre mesi alla SCU, venne riportato per due settimane nella H Unit. Il trasferimento non fu autorizzato da nessun medico. Anzi, il dottor Foster non ne sapeva nulla. Non vennero date spiegazioni. Quando Ron tornò alla SCU, era di nuovo peggiorato. Il dottor Foster scrisse al direttore che l'improvviso trasferimento aveva causato un grave danno al paziente. Il ritorno di Ron nella H Unit era avvenuto il 25 aprile, il giorno prima dell'esecuzione di Benjamin Brewer, condannato per l'omicidio di una ventenne a Tulsa nel 1978 e nel braccio della morte da più di dodici anni. Forse la direzione riteneva che Ron non potesse mancare al dramma di un'altra esecuzione. Janet Chesley invece aveva il sospetto che l'improvviso trasferimento di Ron avesse a che fare con il procedimento legale in corso. Era infatti stato presentato ricorso contro la pronuncia del giudice Seay al Decimo Circuito di Denver e le udienze erano già state fissate. Per evitare che lei potesse dire che il suo assistito era insano di mente al punto da essere ricoverato nella Special Care Unit, Ron era stato riportato nel braccio della morte. Quando venne a sapere del trasferimento, Janet andò su tutte le furie e cominciò a tempestare di telefonate la direzione del penitenziario e i legali della controparte. Alla fine, acconsentì a non fare menzione del fatto che il suo assistito era alla SCU. E così Ron venne ricoverato un'altra volta. Ma i danni riportati erano gravi. Dennis Fritz ricevette la buona notizia riguardo al nuovo processo di Ron. Lui non era stato altrettanto fortunato: non essendo condannato a morte, non poteva avvalersi di un avvocato d'ufficio e si era dovuto pre-

sentare la propria istanza di Habeas Corpus da solo. La Corte distrettuale gliel'aveva respinta nel 1995 e lui aveva fatto ricorso al Decimo Circuito. Che Ron potesse avere un nuovo processo gli faceva piacere e nello stesso tempo lo mandava in bestia. Erano stati condannati per colpa degli stessi testimoni e degli stessi fatti: come poteva un'istanza essere rigettata e l'altra accolta? In ogni caso, che almeno Ron fosse riuscito a spuntarla era una cosa buona. Nel marzo del 1996 Dennis scrisse a Innocence Project, chiedendo aiuto. Gli rispose uno studente che vi lavorava come volontario, mandandogli un questionario. In giugno, lo studente richiese la documentazione relativa alle analisi biologiche. Dennis l'aveva con sé e gliela mandò subito. In agosto, inviò a New York anche i documenti relativi al ricorso in appello e a novembre i verbali completi del processo. Poco dopo ricevette la splendida notizia che Innocence Project aveva ufficialmente accettato il suo caso. Passarono i mesi, punteggiati da una fitta corrispondenza. Il Decimo Circuito respinse il suo ricorso e, quando la Corte suprema rifiutò di esaminare il caso nel maggio del 1997, Dennis si scoraggiò e si lasciò prendere dalla depressione. Gli appelli erano finiti, e giudici e togati non avevano ravvisato alcuna irregolarità nel suo processo. Nessuno si era accorto che era stato mandato in prigione un innocente. La prospettiva di passare il resto della propria vita in carcere, nonostante tutte le sue battaglie, stava diventando una realtà. In maggio, mandò quattro lettere a Innocence Project. Nel 1979 nella piccola città di Okarche, a nord di Oklahoma City, due uomini, Steven Hatch e Glen Ake, entrarono nella casa del reverendo Richard Douglass e spararono a tutta la sua famiglia. Il reverendo e la moglie rimasero uccisi, ma i due figli riuscirono a sopravvivere. A sparare era stato Glen Ake, che venne condannato a morte in prima istanza e poi ottenne un nuovo giudizio perché il giudice aveva negato la perizia psichiatrica. La sentenza "Ake contro lo Stato dell'Oklahoma" ha lasciato il segno. Al secondo processo, Ake venne infatti condannato all'ergastolo. Sta ancora scontando la pena. Il suo complice, Steven Hatch, la cui partecipazione all'omicidio era sempre stata dubbia e fu aspramente dibattuta, venne giustiziato il 9 agosto 1996. Nell'ala riservata al pubblico c'erano anche i due fratelli Douglass, ormai adulti.

Glen Ake, omicida accertato, ebbe l'ergastolo. Steven Hatch, che non aveva ammazzato nessuno, la pena capitale. Nel 1994 un pellerossa ventenne di nome Scott Dawn Carpenter rapinò un negozio di Lake Eufala, uccidendo il proprietario. Dopo soli due anni nel braccio della morte, riuscì a bloccare gli appelli e a farsi fare l'iniezione letale. Il 10 aprile 1997, il Decimo Circuito di Denver confermò la pronuncia di Seay. Pur prendendo le distanze dalle critiche del giudice a proposito delle analisi su peli e capelli, era d'accordo sul fatto che Ron Williamson fosse stato condannato ingiustamente. Con la prospettiva di un nuovo processo, il caso venne passato alla Capital Trial Division dell'Indigent Defense System, dove il neodirettore Mark Barrett disponeva di un team di otto avvocati. Data la complessità del caso e la sua familiarità con Ron, decise di occuparsene personalmente. Le scartoffie che gli vennero recapitate per prepararsi al processo occupavano sedici scatole di cartone. Nel maggio del 1997 Mark Barrett andò al McAlester con Janet Chesley, per vedere Ron. Janet aveva il compito di fare da tramite fra i due, che pure si erano già conosciuti. L'ultimo incontro fra Mark e Ron risaliva infatti al 1988, poco dopo l'arrivo di Ron alla F Cellhouse, quando Mark si era occupato del suo primo appello. Conosceva Janet Chelsey e Kim Marks, come molti altri avvocati che lavoravano all'Indigent Defense System, e aveva sentito parlare molto di Ron e delle sue pessime condizioni di salute, ma quando lo vide rimase esterrefatto. Nel 1988 Ron aveva trentacinque anni, pesava quasi cento chili, era atletico, aveva un'andatura spavalda, i capelli scuri e la faccia da bambino. Nove anni dopo, aveva quarantatré anni ma ne dimostrava sessantacinque. Era nella Special Care Unit da un anno, ma era ancora scavato, pallido, scarmigliato: sembrava un fantasma. Era evidentemente un uomo molto malato. Riuscì comunque a seguire la conversazione, che pure fu lunga. A volte borbottava frasi incoerenti e si lanciava in monologhi senza senso, ma perlopiù sembrava capire. Mark gli spiegò che avrebbero usato la prova del DNA per confrontare i suoi campioni biologici con le formazioni pilifere e il liquido seminale ritrovati sulla scena del crimine, e che i risultati sarebbero stati certi e attendibili al cento per cento. La prova del DNA non mente.

Ron non manifestò dubbi o tentennamenti. Anzi, era felice di potersi sottoporre alla prova. «Sono innocente» ripeteva. «Non ho niente da nascondere.» Mark Barrett e Bill Peterson erano d'accordo sul fatto che Ron dovesse essere sottoposto a una consulenza tecnica per valutare il suo stato mentale. Erano d'accordo anche sul test del DNA. Peterson lo voleva a tutti i costi, perché era convinto che Ron fosse colpevole. Occorreva aspettare, tuttavia, perché il budget di Mark Barrett era limitato e il costo del test era di ben 5000 dollari. Il denaro sarebbe stato disponibile solo nel giro di qualche mese. Alla fine, peraltro, i costi risultarono molto più alti delle previsioni. Mark cominciò quindi dallo stato mentale del suo assistito. Insieme ai suoi collaboratori raccolse tutta la documentazione medica e la sottopose a uno psicologo che lesse le cartelle cliniche, parlò con Ron e si dichiarò disposto ad andare a Ada per testimoniare. Dopo due esami da parte della Corte di appello dell'Oklahoma, un anno di permanenza nell'ufficio del giudice Seay e due al Decimo Circuito, oltre a due brevi ma necessari soggiorni alla Corte suprema degli Stati Uniti di Washington, la pratica "Stato dell'Oklahoma contro Ronald Keith Williamson" tornò dunque alla base, corredata da una gran quantità di mozioni, atti e memorie aggiuntive. Erano passati dieci anni da quando quattro poliziotti avevano fermato Ron mentre armeggiava a torso nudo con una falciatrice mezza rotta e l'avevano arrestato per omicidio. 14 I Landrith erano nella contea di Pontotoc da tre generazioni. Tom era andato alla Ada High School e aveva giocato due campionati nella squadra di baseball. In seguito si era laureato in giurisprudenza alla University of Oklahoma e, una volta superato l'esame di Stato, aveva aperto un piccolo studio nella sua città natale. Nel 1994 si era candidato alla carica di giudice della Corte distrettuale e aveva vinto senza grossi problemi su G.C. Mayhue, che a sua volta aveva sconfitto Ronald Jones nel 1990. Il giudice Landrith conosceva bene Ron Williamson e il caso Carter e, quando il Decimo Circuito aveva dato ragione al giudice Seay, aveva capito che il caso sarebbe tornato a Ada e che a occuparsene sarebbe stato lui.

Come spesso succedeva nelle piccole città, conosceva Ron perché l'aveva rappresentato quando era stato accusato di guida in stato di ebbrezza all'inizio degli anni Ottanta e aveva giocato brevemente nella sua stessa squadra di softball, conosceva Johnny Carter, lo zio di Debbie, perché avevano giocato insieme a football, ed era amico di Bill Peterson. Quando Ron era stato processato nel 1988, era andato ad assistere a qualche udienza, per curiosità. Naturalmente, conosceva bene anche Barney Ward. A Ada, in fondo, si conoscevano tutti. Landrith era un giudice molto popolare, spiritoso e alla mano, ma anche assai rigoroso. Non era mai stato del tutto convinto che Ron fosse colpevole, e d'altra parte non pensava nemmeno che fosse innocente. Come molti suoi concittadini, pensava che gli mancasse qualche rotella. Tuttavia, era ansioso di rivederlo e voleva che il suo secondo processo fosse equo e giusto. Debbie Carter era stata uccisa ormai da quindici anni e il suo assassino non era ancora stato preso. Landrith provava molta pena per i Carter e il dramma che li aveva colpiti. Era ora di risolvere la questione. Domenica 13 luglio 1997 Ron Williamson lasciò il McAlester per non ritornarci mai più. Fu accompagnato da due agenti della contea di Pontotoc all'Eastern State Hospital di Vinita. Lo sceriffo, Jeff Glase, disse a un giornalista che si era "comportato bene". «Non ha causato problemi né provocato scompiglio» dichiarò. «Del resto, quando sono in catene e hanno la camicia di forza, è difficile.» Era la quarta volta che Ron veniva ricoverato in quell'ospedale. Venne inserito nel programma "pregiudiziale", che aveva lo scopo di curarlo e di metterlo in condizioni di prendere attivamente parte al proprio processo. Il giudice Landrith aveva fissato la prima udienza il 28 luglio, ma la rinviò in attesa della diagnosi dei medici dell'Eastern State. Bill Peterson non si oppose, tuttavia lasciò chiaramente intendere la propria opinione riguardo alla sanità mentale di Ron. In una lettera a Mark Barrett, scrisse: "È mia opinione che Williamson fosse capace ai sensi della legge dell'Oklahoma e che le scene che fece in aula fossero solo manifestazioni della collera che provava all'idea di essere stato preso". Aggiunse inoltre: "In carcere il suo comportamento è stato abbastanza buono". Peterson era favorevole al test del DNA. Convintissimo che Ron fosse colpevole, non vedeva l'ora che la scienza lo dimostrasse in maniera inequivocabile. Lui e Mark Barrett si scrissero diverse volte, puntualizzando

alcuni dettagli, per esempio quale laboratorio contattare, come ripartire le spese e quando iniziare gli esami. Ma erano d'accordo tutti e due sul fatto che la prova del DNA dovesse essere effettuata. Ron stava meglio. Rispetto al McAlester, qualsiasi posto era preferibile, anche l'ospedale psichiatrico. L'Eastern State Hospital comprendeva diversi reparti e lui era in quello di massima sicurezza, con sbarre alle finestre e filo spinato ovunque. Le stanze erano piccole, vecchie e tutt'altro che graziose. Il reparto era sovraffollato e Ron era fortunato ad avere una camera tutta per sé. C'era gente che dormiva nel corridoio. Venne visitato prima di tutto dal dottor Curtis Grundy, che lo dichiarò mentalmente incapace. Ron sapeva di che cosa era accusato, ma non era in grado di assistere il proprio avvocato. Grundy scrisse al giudice Landrith che non era escluso che Ron, dopo un'adeguata terapia, potesse essere in grado di prendere parte al proprio processo. Due mesi dopo, gli mandò un dettagliato rapporto di quattro pagine, dichiarando che Ron: 1) era in grado di capire la natura delle accuse rivoltegli; 2) era in grado di coadiuvare il proprio avvocato nella preparazione della propria difesa; 3) era malato di mente e necessitava di ulteriori cure. "Il soggetto deve continuare a seguire adeguata terapia anche nel corso del processo per poter essere mentalmente capace." Grundy dichiarò inoltre che Ron non costituiva un pericolo "significativo" né per sé né per gli altri e poteva essere dimesso e curato ambulatorialmente. "Da quando è ospedalizzato non ha pensieri suicidi o omicidi e non manifesta comportamenti aggressivi nei confronti di se stesso o di altri. L'attuale valutazione di non pericolosità si riferisce ad ambienti strutturati e sicuri e potrebbe non applicarsi ad ambienti meno strutturati." Il giudice Landrith fissò l'udienza per valutare le condizioni mentali di Ron il 10 dicembre. Ron tornò a Ada, entrò nella prigione di contea, salutò il suo vecchio amico John Christian e si sistemò nella sua vecchia cella. Annette andò subito a trovarlo, gli portò da mangiare e lo trovò di buonumore, speranzoso e felice di essere tornato "a casa". L'idea di un nuovo processo, con la possibilità di dimostrare la propria innocenza, lo entusiasmava. Imprecava continuamente contro Ricky Joe Simmons, anche se Annette gli chiedeva di cambiare discorso. Non riusciva a parlare d'altro. Il giorno prima dell'udienza passò quattro ore con la dottoressa Sally Church, una psicologa cui Mark Barrett aveva chiesto di valutare la capacità mentale di Ron. La Church lo aveva già visto due volte e aveva letto le

sue cartelle cliniche. Non aveva il minimo dubbio: Ron era insano di mente. Ma Ron voleva a tutti i costi dimostrare di essere in grado di intendere e di volere. Erano nove anni che sognava di ritrovarsi di fronte a Bill Peterson, Dennis Smith, Gary Rogers e tutti i bugiardi e le spie che avevano testimoniato contro di lui al processo. Non aveva mai ammazzato nessuno e non vedeva l'ora di dimostrarlo una volta per tutte. Mark Barrett gli era simpatico, ma lo faceva arrabbiare che cercasse di farlo passare per matto. Ron voleva il processo. Landrith fissò l'udienza in una piccola aula dalla parte opposta del corridoio rispetto a quella in cui Ron era stato condannato a morte. Il giorno 10, i posti erano tutti occupati. C'erano Annette, numerosi giornalisti, Janet Chesley e Kim Marks, convocate come testimoni. Barney Ward, invece, non si fece vedere. L'ultima volta che Ron era entrato in quel palazzo di giustizia, ne era uscito in catene, condannato alla pena capitale. Allora aveva trentacinque anni, era ancora giovane, aveva i capelli scuri, un bel vestito e un fisico da atleta. Nove anni dopo, quando vi rimise piede, aveva i capelli bianchi ed era magro come un chiodo, indossava la divisa da carcerato ed era malfermo sulle gambe. Tom Landrith rimase sbigottito, quando lo vide. Ron era molto contento di vedere Tommy con la toga, seduto allo scranno. Gli sorrise e il giudice notò che era praticamente senza denti. E che aveva le mani e i capelli macchiati di nicotina. A contestare l'infermità mentale di Ron Williamson per conto dello Stato dell'Oklahoma fu Bill Peterson, che era indignato all'idea di celebrare un nuovo processo. Mark Barrett era assistito da Sara Bonnell, un'esperta penalista di Purcell di cui Mark si fidava ciecamente. Barrett e la Bonnell non persero tempo a esporre la loro tesi e chiamarono a deporre Ron. Nel giro di pochi minuti nessuno capì più niente. Mark chiese a Ron di declinare le proprie generalità. Poi cominciò a interrogarlo. Mark Barrett: «Signor Williamson, ritiene che sia stata un'altra persona, e non lei, a commettere il reato di cui è accusato?». Ron Williamson: «Sì, Ricky Joe Simmons, residente al 323 West Third Street, che ha confessato al dipartimento di polizia di Ada il 24 settembre 1987. La residenza è di allora. Ho controllato e all'indirizzo risultava residente la famiglia Simmons, che comprendeva Ricky Joe Simmons. Oltre a Cody e Debbie Simmons».

Mark Barrett: «Lei disse a qualcuno che Simmons aveva confessato?». Ron Williamson: «Sì, l'ho detto a un sacco di gente. L'ho scritto, anche; a Joe Gifford, a Tommy e Jerry Criswell, quelli dell'impresa di pompe funebri, sapendo che se si sono fatti fare la lapide qui a Ada sono andati da Joe Gifford, perché è l'unico marmista della città. E che i fiori li prendevano di sicuro dal Forget-Me-Not. Ho scritto anche a loro. Ho scritto alla Solo Company, che era il suo posto. Il suo posto di lavoro. Ho scritto alla vetreria, il posto dove lavorava, e al posto dove lavorava prima». Mark Barrett: «Torniamo un attimo indietro. Perché il marmista era importante per lei?». Ron Williamson: «Perché io Joe Gifford lo conosco. Da bambino, e poi anche da ragazzo, gli falciavo il prato con Burt Rose, il mio vicino. Sapevo che se il signor Carter e la signora Stillwell dovevano comprare una lapide qui a Ada, Oklahoma, la compravano da Joe Gifford, che è l'unico marmista della città. Io ci abitavo vicino, al suo laboratorio». Mark Barrett: «Perché scrisse al fiorista Forget-Me Not?». Ron Williamson: «Perché sapevo che se uno deve comprare dei fiori qui a Ada, la signora Stillwell è di Stonewall, Oklahoma... sapendo che se uno deve comprare dei fiori qui a Ada molto probabilmente li compra dal fiorista Forget-Me Not». Mark Barrett: «E l'impresa di pompe funebri?». Ron Williamson: «L'impresa di pompe funebri è... la Criswell Funeral Home. È quella l'impresa di pompe funebri. Ho letto sull'atto scritto da Bill Luker che erano loro i responsabili del funerale e della sepoltura». Mark Barrett: «E lei riteneva importante che sapessero che Ricky...». Ron Williamson: «Sì! Perché è un uomo pericoloso e io gli ho chiesto di aiutarmi a farlo arrestare». Mark Barrett: «Per via del fatto che si erano occupati delle esequie della signorina Carter?». Ron Williamson: «Sì, esatto». Mark Barrett: «Lei scrisse anche al presidente dei Florida Marlins?». Ron Williamson: «Veramente, quando gli ho scritto, era l'allenatore degli Oakland Athletics. Presidente dei Florida Marlins lo è diventato poi». Mark Barrett: «E gli chiese di mantenere il massimo riserbo sulle cose che le aveva detto?». Ron Williamson: «No, gli ho raccontato la storia della bottiglietta di ketchup Del Monte che Simmons aveva raccontato a Dennis Smith, che aveva la bottiglietta di ketchup Del Monte nella destra, al banco dei testi-

moni, e Ricky Joe Simmons ha detto che l'aveva stuprata con una bottiglietta di ketchup. Allora io ho scritto a Rene perché è la prova più scioccante che io abbia mai visto in quarantaquattro anni che sono al mondo». Mark Barrett: «Ma lei è al corrente del fatto che il presidente dei Florida Marlins ne ha parlato con altri, vero?». Ron Williamson: «Probabile. Perché Rene Lachemann è mio amico». Mark Barrett: «Perché lei è così convinto di questo, signor Williamson?». Ron Williamson: «Be', perché sentivo la trasmissione del lunedì sera, e la World Series, quello che dicevano in televisione, i giornali. La bottiglietta di ketchup Del Monte è tristemente famosa». Mark Barrett: «Dunque lei sentiva...». Ron Williamson: «Sì, sì. Assolutamente». Mark Barrett: «Il lunedì sera...». Ron Williamson: «Esatto». Mark Barrett: «Durante la trasmissione televisiva...». Ron Williamson: «Non è facile, anzi, tutt'altro, quello che devo fare, però, insomma, lo devo fare perché Simmons ha confessato. Ha confessato di aver commesso atti di libidine violenta, sodomia, stupro e omicidio ai danni di Debra Sue Carter nella di lei abitazione al 1022 ½ East Eight Street, l'8 dicembre 1982». Mark Barrett: «Lei sentì nominare Debra Sue Carter nel corso della...». Ron Williamson: «Sì». Mark Barrett: «Nel corso della trasmissione sul football del lunedì sera?». Ron Williamson: «La sento nominare continuamente, Debra Sue Carter». Mark Barrett: «Lei non ha un televisore in cella, vero?». Ron Williamson: «Sento quello degli altri. L'ho sentito anche a Vinita. Nel braccio della morte ce l'avevo, il televisore. Ho sentito e so per certo che mi associano a questo orribile crimine e voglio fare di tutto per tirarmi fuori da questo pasticcio». Mark si interruppe, per lasciare che il pubblico prendesse fiato. Gli spettatori si lanciavano occhiate perplesse. Alcuni si accigliavano e abbassavano gli occhi. Il giudice Landrith prendeva appunti sul suo blocco. Anche gli avvocati prendevano appunti, benché fosse molto difficile scrivere qualcosa di senso compiuto. Per un avvocato è estremamente difficile interrogare un teste mental-

mente incapace perché non si sa mai che cosa risponderà. Mark decise di lasciarlo parlare. Ad assistere all'udienza per conto dei Carter c'era Christy Shepherd, la nipote di Debbie, che da ragazza abitava vicino ai Williamson e adesso lavorava in un centro di igiene mentale. Dopo averlo sentito parlare due minuti, capì che Ron era molto malato. E lo disse a sua madre e a Peggy Stillwell. Ad assistere alla deposizione c'era anche il dottor Curtis Grundy, perito di Bill Peterson. L'interrogatorio continuò, benché fare domande a Ron fosse inutile, visto che non rispondeva oppure rispondeva brevissimamente e poi ritornava a parlare di Ricky Joe Simmons. Dopo dieci minuti, Mark Barrett decise che bastava così. Chiamò a deporre Annette, la quale dichiarò che il fratello era instabile e ossessionato da Ricky Joe Simmons. Janet Chesley parlò della propria esperienza di legale rappresentante di Ron, dello sforzo che ci era voluto per farlo ricoverare nella Special Care Unit del McAlester e della sua ossessione per Ricky Joe Simmons. Dichiarò di non aver potuto usufruire di alcun contributo da parte del suo assistito, perché non parlava d'altro. Lo trovava migliorato, però, e sperava che prima o poi potesse avere un altro processo. Avrebbe dovuto aspettare ancora parecchio, purtroppo. Kim Marks disse più o meno le stesse cose. Non vedeva Ron da mesi e le sembrava molto migliorato. Descrisse le condizioni in cui versava nella H Unit e ricordò di aver temuto che morisse da un momento all'altro. Dal punto di vista mentale era migliorato, anche se faticava a concentrarsi su qualsiasi cosa non fosse Ricky Joe Simmons. In ogni caso, non era in grado di prendere parte a un processo. L'ultima testimone fu la dottoressa Sally Church. Nella lunga e bizzarra vicenda giudiziaria di Ron Williamson, era la prima consulente tecnica chiamata a esporre le sue condizioni di salute. Disse che soffriva di schizofrenia e di disturbo bipolare, entrambi molto difficili da curare perché il paziente spesso non si rende conto degli effetti dei farmaci e smette di prendere le medicine prescritte. Anche Ron interrompeva continuamente la terapia. La dottoressa Church descrisse inoltre le cause, gli effetti e le possibili cure delle due malattie da cui era affetto. Raccontò che il giorno prima, quando era stata da lui nel carcere di contea, Ron le aveva chiesto se sentiva una TV in lontananza. A lei non pare-

va, ma lui era sicuro che ci fosse. Era un talk show, le aveva detto, parlavano di Debbie Carter e della bottiglia di ketchup. Era andata così: lui aveva scritto a Rene Lachemann, ex giocatore e allenatore degli Oakland Athletics, e gli aveva detto di Ricky Joe Simmons e Debbie Carter e della bottiglietta di ketchup. Ron era convinto che Rene Lachemann per qualche motivo lo avesse riferito ai conduttori di due trasmissioni sportive, i quali avevano pubblicamente denunciato il fatto in televisione. L'avevano detto al Monday Night Football e in occasione della World Series, così adesso ne parlavano tutti. «Non li sente lei?» le aveva chiesto, gridando. «Non sente che urlano "Ketchup! Ketchup! Ketchup!"?» Sally Church concluse la propria deposizione esprimendo l'opinione che Ron non fosse in grado di aiutare il suo legale rappresentante e di prendere parte attiva al processo. Durante la pausa pranzo, il dottor Grundy chiese a Mark Barrett se poteva vedere Ron da solo. Mark si fidava di Grundy e non obiettò. Lo psichiatra e Ron si incontrarono nella sala del tribunale riservata ai testimoni. Quando la seduta riprese nel pomeriggio, Bill Peterson si alzò in piedi e annunciò vergognoso: Ho parlato con il teste [Grundy] durante la pausa e penso che possiamo accettare che il signor Williamson per il momento non sia mentalmente capace, benché riteniamo che lo sarà in un prossimo futuro. Dopo averlo sentito deporre e avergli parlato un quarto d'ora, Grundy aveva cambiato idea: Ron non era in grado di affrontare un processo. Il giudice Landrith dichiarò Ron "mentalmente incapace" e fissò un'altra udienza dopo trenta giorni per rivalutare la situazione. Verso la fine, Ron disse: «Posso fare una domanda?». Giudice Landrith: «Sì, prego». Ron Williamson: «Senti, Tommy, io conosco te e conosco anche tuo padre, Paul. Ti voglio dire con la massima sincerità che io non so niente della storia di Duke Graham e Jim Smith, cioè, non capisco come si colleghi a Ricky Joe Simmons. Non lo so. Per quanto riguarda il fatto che io sia "capace" o meno, rivediamoci fra trenta giorni, d'accordo. Però arrestiamo Simmons, portiamolo qui, facciamo vedere il suo filmato. Bisogna che lo confessi, quello che ha fatto». Giudice Landrith: «Capisco».

Probabilmente fu l'unico, sempre che avesse capito davvero. Ron tornò all'Eastern State Hospital controvoglia. Avrebbe preferito rimanere a Ada per accelerare le cose ed era arrabbiato con i suoi avvocati che invece insistevano per rimandarlo a Vinita. Mark Barrett, però, non voleva assolutamente che Ron restasse nel carcere di contea, che pullulava di spie e informatori. All'Eastern State un dentista visitò Ron per un dolore al palato e gli diagnosticò un tumore. Lo operarono e glielo asportarono senza problemi. L'intervento andò benissimo e il medico disse a Ron che, se fosse rimasto nel carcere di Ada o al McAlester e il tumore non gli fosse stato diagnosticato tempestivamente, avrebbe rischiato che si estendesse al cervello. Ron telefonò a Mark e lo ringraziò di averlo mandato in ospedale. «Mi hai salvato la vita» gli disse. E smise di tenergli il muso. Nel 1995 a tutti i detenuti dell'Oklahoma fu prelevato e analizzato un campione di sangue e i risultati vennero inseriti nella nuova banca dati del DNA. I campioni biologici del caso Carter erano ancora nei laboratori dell'OSBI di Oklahoma City. Sangue, impronte digitali, liquido seminale e formazioni pilifere raccolte sulla scena del crimine erano stati conservati, insieme alle impronte e ai campioni biologici prelevati da testimoni e indagati. Il fatto che le prove fossero ancora a disposizione non confortava affatto Dennis Fritz, che non aveva nessuna fiducia né in Bill Peterson, né nella polizia di Ada, né tanto meno nell'Oklahoma State Bureau of Investigation. Gary Rogers era un agente dell'OSBI, in fondo. Dennis Fritz aspettava e sperava. Nel 1998 mantenne una fitta corrispondenza con Innocence Project, cercando di non perdere la calma. Dieci anni di carcere gli avevano insegnato il valore di pazienza e perseveranza e lo sconforto che segue inevitabilmente le false speranze. La lettera di Ron lo aiutò moltissimo. Le sette facciate piene di farneticazioni sulla carta intestata dell'Eastern State Hospital lo fecero sorridere. Il suo vecchio amico non aveva perso né lo humour né la grinta. Ricky Joe Simmons era ancora a piede libero e Ron sembrava intenzionato a fargliela pagare. Per non perdere l'equilibrio mentale, Dennis continuava a studiare nella biblioteca giuridica. Fece una scoperta interessante: la sua istanza di Habeas Corpus era stata esaminata dalla Corte del distretto occidentale dell'O-

klahoma, ma la contea di Pontotoc faceva parte del distretto orientale. Si confrontò con alcuni esperti di legge, che gli confermarono che il distretto occidentale non aveva giurisdizione su di lui. Così Dennis scrisse un'altra istanza e la presentò alla Corte di competenza. Non aveva molte speranze, ma era meglio di niente. Nel gennaio del 1999 parlò per telefono con Barry Scheck, che con il suo Innocence Project si stava battendo per rimediare a un gran numero di errori giudiziari. Gli espresse la propria preoccupazione per il fatto che i campioni biologici erano nei laboratori di Stato, ma Scheck gli spiegò che era assolutamente normale e lo rassicurò: avrebbe preso provvedimenti affinché nessuno li manomettesse. Scheck si era interessato al caso per un motivo molto semplice: la polizia non aveva indagato sull'ultima persona che era stata vista con la vittima. Era un fatto molto grave e gli era bastato quello per decidere di occuparsene. Il 26 e il 27 gennaio 1999 la Laboratory Corporation of America di Raleigh, nel North Carolina, analizzò il liquido seminale raccolto dagli slip strappati, dalle lenzuola e dai tamponi vagin*li e confrontò il DNA con quello di Ron Williamson e Dennis Fritz. Gli avvocati di Ron e Dennis avevano ingaggiato un consulente tecnico californiano, Brian Wraxall, perché controllasse i risultati. Due giorni dopo, il giudice Landrith fece l'annuncio che Mark Barrett e molti altri stavano aspettando con ansia. I risultati della prova del DNA condotta dalla LabCorp escludevano sia Ron Williamson sia Dennis Fritz. Annette era in contatto con Mark Barrett e sapeva dei nuovi test. Mark le telefonò a casa e le disse: «Annette, Ron è innocente». Lei rischiò di svenire per l'emozione. «Sei sicuro, Mark?» «Sicurissimo» rispose lui. «Abbiamo appena ricevuto i risultati delle analisi.» Annette non riusciva più a parlare dalla commozione. Gli disse che l'avrebbe richiamato più tardi. Si sedette, pianse e pregò a lungo, ringraziando il Signore della sua benevolenza. La fede l'aveva sostenuta nel corso di quel lungo incubo e Dio aveva ascoltato le sue preghiere. Cantò alcuni inni, si fece un altro bel pianto e poi cominciò a chiamare parenti e amici. La reazione di Renee fu praticamente identica. Il giorno dopo le due sorelle andarono a Vinita, che era a quattro ore di macchina. Le aspettavano Mark Barrett e Sara Bonnell: bisognava festeg-

giare. Ron venne accompagnato in sala visite. Passò di lì anche il dottor Curtis Grundy e gli fu data la lieta notizia. Ron era suo paziente, avevano stretto un forte legame. Dopo diciotto mesi in ospedale, Ron stava meglio, continuava a progredire ed era persino un po' ingrassato. «Abbiamo una splendida notizia, Ron» esordì Mark. «Sono arrivati gli esami di laboratorio. La prova del DNA dimostra che tu e Dennis siete innocenti.» Ron fu travolto dall'emozione e abbracciò le sorelle. Piansero insieme e poi cantarono I'll Fly Away, un gospel che avevano imparato da bambini. Mark Barrett presentò immediatamente istanza di proscioglimento e scarcerazione; anche il giudice Landrith era ansioso di affrontare la questione, ma Bill Peterson obiettò. Voleva un altro test del DNA, questa volta sulle formazioni pilifere. Venne fissata un'udienza il 3 febbraio. L'obiezione di Bill Peterson non passò inosservata. Prima dell'udienza, l'"Ada Evening News" riportava una sua dichiarazione: "La prova del DNA sulle formazioni pilifere, che nel 1982 non esisteva ancora, dimostrerà che gli assassini sono loro". Quell'affermazione fece accapponare la pelle a Mark Barrett e Barry Sheck: se Peterson si esponeva a quel modo, forse sapeva qualcosa che loro ignoravano. Che avesse accesso al materiale probatorio conservato nei laboratori di Stato? Che potesse manomettere i campioni? Il 3 febbraio in aula non c'era un solo posto vuoto. C'erano poliziotti, impiegati del tribunale, parenti, avvocati. Quando il giudice prese posto allo scranno, c'era anche Ann Kelley del"l'Ada Evening News", che seguiva il caso con interesse e passione. I suoi articoli venivano pubblicati in prima pagina ed erano molto letti. Era presente anche Barney Ward, che non vedeva nulla ma sentiva tutto. Dal 1995 aveva avuto il tempo di metabolizzare le critiche del giudice Seay. Non le condivideva, ma non poteva cambiare la sua opinione. Peraltro, era sempre stato convinto che il suo cliente fosse stato incastrato da polizia e procura, e il fatto che adesso la verità stesse venendo a galla gli faceva piacere. Dopo quarantacinque minuti di discussione, il giudice decise saggiamente che prima di pronunciarsi voleva aspettare i risultati della prova sulle formazioni pilifere. Raccomandò alle parti di stringere il più possibile i tempi. Va detto che Bill Peterson disse - e lasciò che venisse messo a verbale -

che se anche la seconda prova del DNA avesse escluso Williamson e Fritz, lui non avrebbe obiettato al proscioglimento. Il 10 febbraio 1999 Mark Barrett e Sara Bonnell andarono al Lexington Correctional Center a trovare Glen Gore per quello che ufficialmente sarebbe dovuto essere un colloquio di routine. Il processo di Ron non era ancora stato fissato, ma loro avevano cominciato a prepararsi. Gore li sorprese dicendo che si aspettava una loro visita. Leggeva i giornali, era al corrente degli ultimi sviluppi. Nel 1995 aveva letto della pronuncia del giudice Seay e sapeva che Ron sarebbe stato nuovamente processato. Parlarono un po' di questa eventualità, poi il discorso cadde su Bill Peterson. Gore lo detestava, visto che l'aveva mandato dentro per quarant'anni. Barrett gli chiese perché avesse testimoniato contro Williamson e Fritz. Era stato Peterson, rispose Gore. L'aveva minacciato, gli aveva detto che se non gli avesse dato una mano a inchiodarli, se la sarebbe presa con lui. «Sarebbe disponibile a sottoporsi a un test con la macchina della verità?» gli domandò Mark. Gore disse che non c'era problema, che si era già offerto di farlo una volta, solo che poi nessuno l'aveva più chiamato. Mark Barrett e Sara Bonnell gli chiesero inoltre se fosse disposto a fornire un campione di saliva per la prova del DNA. Gore rispose di no, non era necessario: la prova era già stata fatta a tutti i detenuti. Mentre parlavano di DNA, Mark disse a Gore che Fritz e Williamson avevano fatto il test. Gore lo sapeva già. «Pensa che il DNA trovato sul cadavere potrebbe corrispondere al suo?» gli chiese a un certo punto Mark. «È possibile» rispose Gore. «Poche ore prima avevo ballato con lei.» Mark gli spiegò che il fatto che lui e Debbie avessero ballato assieme era irrilevante, perché il DNA si ottiene da sangue, saliva, peli, capelli, sudore, liquido seminale. «Abbiamo il DNA del donatore del liquido seminale» gli spiegò. Gore cambiò improvvisamente faccia. Di colpo sconvolto, prese tempo, andò a chiamare un avvocato e tornò poco dopo con un certo Reuben. Mentre era fuori, Sara Bonnell chiese a una guardia un bastoncino di ovatta per le orecchie. «Signor Gore, ci darebbe un campione di saliva?» gli domandò mostrandogli il bastoncino. Gore glielo strappò di mano, lo spezzò in due, si

pulì le orecchie e si infilò i due pezzetti nel taschino della camicia. «Lei ebbe un rapporto sessuale con Debbie Carter quella sera?» gli domandò Mark. Gore non rispose. «Sta dicendo che non ebbe rapporti sessuali con Debbie Carter?» insistette Mark. «No, non sto dicendo questo.» «Se ebbe rapporti sessuali con lei, il DNA ottenuto dal liquido seminale dovrebbe corrispondere al suo.» «Non l'ho uccisa io» replicò Gore. «Mi dispiace, non posso aiutarvi.» Si alzò in piedi con Reuben: il colloquio era finito. Prima di andare via, Mark chiese a Gore se potevano rivedersi. «Certo» rispose Gore. «Magari la prossima volta potrebbe venire a trovarmi sul lavoro.» «Sul lavoro?» Mark era convinto che Gore fosse stato condannato a quarant'anni di prigione. Gore spiegò che durante il giorno lavorava a Purcell, la città dove abitava Sara, nel Public Works Department. Potevano raggiungerlo là, così avrebbero avuto tutto il tempo per parlare. Mark Barrett e Sara Bonnell promisero di farlo, ma erano tutti e due sbigottiti del fatto che Gore avesse un lavoro fuori del carcere. Quel pomeriggio, Mark chiamò Mary Long, responsabile delle analisi sul DNA dell'OSBI, e le consigliò di confrontare il DNA ottenuto dal liquido seminale con quello di Glen Gore, già presente nella banca dati. La Long promise di farlo appena possibile. Dennis Fritz era in cella per l'appello delle quattro e un quarto. Mentre passava lì davanti, un carcerato gli disse di là della porta: «Ehi, Fritz, sei scagionato!». E borbottò qualcosa a proposito di DNA. Dennis non poteva uscire e l'uomo che gli aveva parlato se n'era già andato. Ma anche il suo compagno di cella aveva sentito e così ne parlarono tutta la sera. Era troppo tardi per chiamare New York. Quella notte Dennis si girò e rigirò in branda, dormendo pochissimo. Quando la mattina dopo riuscì a mettersi in contatto con Innocence Project, la notizia gli venne confermata. Il test del DNA aveva escluso sia lui sia Ron: il liquido seminale non era loro. Dennis era al settimo cielo. Finalmente, dopo dodici anni di prigione, la verità era venuta a galla. Le prove erano inconfutabili, inequivocabili: non

era stato lui. Stava per essere prosciolto, scarcerato. Chiamò la madre, che scoppiò in lacrime. Chiamò la figlia Elizabeth, ormai venticinquenne, e rise con lei. Non si vedevano da dodici anni ed erano felici di potersi ritrovare. Per evitare sorprese con i campioni biologici di Fritz e Williamson, Mark Barrett chiese a un perito di esaminare le formazioni pilifere e fotografarle ai raggi infrarossi. Circa tre settimane dopo l'udienza sull'istanza di proscioglimento, la Lab Corp completò la prima fase del test e mandò un rapporto che non diceva nulla di definitivo. Mark Barrett e Sara Bonnell andarono a Ada per parlare con il giudice. Landrith era ansioso di avere i risultati. Data la complessità del test, erano stati affidati diversi campioni a diversi laboratori. Era importante consultarne più di uno anche a causa del clima di sfiducia fra accusa e difesa. In totale, erano stati coinvolti cinque laboratori. Mark Barrett e Sara Bonnell ne parlarono a Landrith, che raccomandò nuovamente di stringere il più possibile i tempi. Dopo aver parlato con il giudice, passarono da Peterson: il procuratore era sempre più ostile, sia per lettera sia di persona, e forse una visita di cortesia sarebbe servita a migliorare un po' i rapporti. Non fu così. Peterson continuava a essere convinto che fosse stato Ron Williamson a stuprare e uccidere Debbie Carter. Chissenefrega del DNA. Chissenefrega dell'OSBI. Williamson era un delinquente, uno che violentava le donne, girava per bar e localacci, suonava la chitarra per strada e abitava vicino a Debbie Carter. Peterson era convintissimo che Gary Allen, il vicino di Debbie, avesse visto Ron e Dennis nel cortile, la notte dell'omicidio, mentre si lavavano via il sangue di dosso con una manichetta, ridendo e imprecando. Erano colpevoli! Fece una tirata lunghissima, più per rassicurare se stesso che per convincere Mark e Sara. I due avvocati erano stupefatti. Peterson non voleva guardare in faccia la realtà. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non riconoscere che aveva sbagliato. A Dennis Fritz sembrava che il mese di marzo non passasse mai. L'euforia era presto svanita e vivere giorno per giorno era molto difficile. Si tormentava al pensiero che Peterson o l'OSBI potessero scambiare i campioni. Ora che era stato smentito dal liquido seminale, il procuratore si sareb-

be arrampicato sugli specchi pur di non perdere la faccia. Se anche il test sulle formazioni pilifere avesse escluso la loro colpevolezza, sarebbe finalmente risultato chiaro al mondo che era stato commesso un clamoroso errore giudiziario. Era in ballo la reputazione di un bel po' di persone. Ma Dennis era impotente, non aveva il minimo controllo sulla situazione, e lo stress lo consumava. Gli venne la tachicardia e temendo un attacco di cuore fece chiamare il medico del carcere, che gli diede delle pastiglie. Tuttavia servirono a ben poco. Arrivò aprile, con il tempo che scorreva lentissimo. Anche Ron aveva perso il buonumore. Dopo una fase di estrema euforia, era precipitato di nuovo nell'ansia e nella depressione. Aveva di nuovo impulsi suicidi. Chiamava spesso Mark Barrett, il quale cercava di rassicurarlo. Mark accettava tutte le chiamate, invariabilmente a carico del destinatario, e se era fuori studio raccomandava a qualcun altro di prenderle e parlare con Ron. Come Dennis, aveva anche lui il terrore che qualcuno manomettesse le prove o falsificasse i risultati. Tutti e due erano finiti in prigione per colpa dei consulenti tecnici di Peterson, che avevano ancora accesso alle prove. Non era così implausibile che scambiassero i campioni per non perdere la faccia. Ron non aveva fatto mistero della propria decisione di far causa a tutti, una volta libero. Sicuramente erano in parecchi a temere per la propria poltrona. Ron chiamava Mark non appena poteva, in genere una volta al giorno. Era paranoico, pensava a tutte le eventualità più tragiche. Mark allora fece una cosa che non aveva mai fatto prima e che probabilmente non avrebbe fatto mai più: garantì a Ron che l'avrebbe fatto uscire. Se anche la prova del DNA non fosse bastata, si sarebbe celebrato un nuovo processo e lui si impegnava a ottenere l'assoluzione. Era un avvocato esperto: Ron si fidò e per qualche giorno stette più tranquillo. "Non c'è corrispondenza" titolava l'edizione domenicale del giornale di Ada l'11 aprile. Ann Kelley spiegava che la LabCorp aveva condotto la prova del DNA su quattordici delle diciassette formazioni pilifere raccolte sulla scena del crimine e nessuna di esse "risultava coerente con il corredo

genetico di Fritz e Williamson". Bill Peterson dichiarava: A questo punto non so a chi appartengano questi peli e questi capelli. Non li abbiamo confrontati con nessun altro, a parte Fritz e Williamson. Non ho mai avuto il minimo dubbio sulla loro colpevolezza. Ho acconsentito alla prova del DNA perché volevo inchiodarli una volta per tutte alle loro responsabilità. Quando mi sono arrivati i risultati del primo test, sono rimasto a bocca aperta. Il rapporto finale dei laboratori doveva arrivare entro mercoledì 14 aprile, il giorno prima dell'udienza fissata da Landrith. Correva voce che il giudice si apprestasse a liberare Fritz e Williamson, i quali sarebbero stati presenti in aula. Anche Barry Scheck voleva esserci. La sua fama stava crescendo enormemente da quando Innocence Project otteneva un proscioglimento dietro l'altro grazie alla prova del DNA. Sapendo del suo imminente arrivo a Ada, i giornalisti si scatenarono. Reti e testate di tutti gli Stati Uniti volevano parlare anche con Barrett, con il giudice Landrith, con Bill Peterson, con altri rappresentanti di Innocence Project, con la famiglia Carter e con tutti i personaggi coinvolti nella vicenda. L'eccitazione era alle stelle. Davvero Ron Williamson e Dennis Fritz stavano per essere liberati? Dennis non sapeva ancora i risultati del secondo test. Martedì 13 aprile era in cella quando spuntò dal nulla una guardia e gli disse: «Fa' i bagagli. Sei di partenza». Dennis sapeva che stava per essere condotto a Ada per l'udienza e si affrettò a prepararsi. Salutò un paio di amici e partì. Si ritrovò a fare il viaggio con John Christian, che conosceva dai tempi del carcere di contea. Dodici anni di detenzione gli avevano insegnato a tenere in gran conto privacy e libertà personale e ad apprezzare le piccole cose. Era primavera e la natura si stava svegliando a nuova vita. Dennis si beò degli spazi aperti, della vista dei boschi e dei fiori. Non sapeva che cosa pensare. Non era ancora a conoscenza del risultato del secondo test e non era neppure sicuro che la meta di quel viaggio fosse proprio Ada. Sperava di venire scagionato a giorni, ma era consapevole che sarebbe bastato un nonnulla a far inceppare il meccanismo. Anche dodici anni prima aveva sperato in un esito diverso dell'udienza prelimina-

re, vedendo che le prove addotte dall'accusa erano inconsistenti. Invece poi Peterson aveva tirato fuori dal cilindro James Harjo e lui si era ritrovato in galera. Pensava a Elizabeth e a quanto desiderava rivederla, abbracciarla. Decise che, se fosse stato liberato, sarebbe andato via per sempre dall'Oklahoma. Aveva paura. Era a un passo dalla libertà, ma continuava ad avere le manette ai polsi ed era in viaggio verso un altro carcere. Trovò ad aspettarlo Ann Kelley e un fotografo. Entrando nella prigione, Dennis sorrise. Era disposto a parlare con la stampa. Disse: «Non avrebbero dovuto neppure rinviarmi a giudizio. Le prove contro di me erano poche e inconsistenti. Se la polizia avesse svolto meglio le indagini, tutto questo non sarebbe successo». Spiegò i problemi che aveva avuto a farsi difendere. «Se non hai i soldi per prenderti un avvocato, ti ritrovi alla mercé del sistema giudiziario. E, una volta che sei dentro, uscire è praticamente impossibile. Anche se sei innocente.» Passò una notte tranquilla, a sognare la libertà. La tranquillità nel carcere della contea di Pontotoc durò solo fino al giorno dopo, perché il 14 aprile arrivò Ron Williamson da Vinita. Ron sorrideva alle telecamere con la divisa a strisce da carcerato. Girava voce che il giorno dopo sarebbe stato rimesso in libertà e i giornalisti erano in subbuglio. Ron e Dennis non si vedevano da undici anni. In tutto quel tempo si erano scritti soltanto una lettera a testa, ma quando si ritrovarono si abbracciarono ridendo, increduli. Li raggiunsero gli avvocati, con cui parlarono un'oretta. La NBC fece alcune riprese. Assieme a Barry Scheck era arrivato Jim Dwyer del "Daily News" di New York. Erano nella piccola sala visite sul lato orientale del carcere, proprio di fronte al palazzo di giustizia. A un certo punto Ron si sdraiò sul pavimento con la testa appoggiata su una mano a guardare dal vetro. Dopo un po' qualcuno gli chiese: «Ehi, Ron, cosa fai?». «Aspetto Peterson» fu la sua risposta. Intorno al palazzo di giustizia c'era una gran ressa di giornalisti, fotografi e cameramen. Uno si rivolse a Peterson, che si fermò per rispondere a un paio di domande. Ron lo vide e gridò dalla porta: «Ehi, brutto ciccione di merda! Te l'abbiamo messo in quel posto, eh?». Wanda ed Elizabeth Fritz decisero di fare una sorpresa a Dennis e andarlo a trovare in carcere. Dennis aveva scritto con regolarità alla figlia e lei

gli aveva mandato molte fotografie, ma non si vedevano da troppo tempo. Nel vedersi di fronte una donna di venticinque anni, molto bella, elegante e matura, Dennis rimase senza fiato. La abbracciò e scoppiò in un pianto dirotto. Non fu il solo a piangere, quel giorno. Ron e Dennis erano in celle separate. Motivi di sicurezza: forse qualcuno temeva che si ammazzassero a vicenda. Lo sceriffo Glase spiegò: «Preferisco tenerli separati. Non mi sembra opportuno mettere nella stessa cella due uomini condannati per omicidio. Finché il giudice non li proscioglierà, restano colpevoli». Per fortuna le celle erano vicine e i due poterono chiacchierare. Il compagno di cella di Dennis aveva un piccolo televisore. Dal telegiornale Dennis capì che il giorno dopo sarebbero stati rimessi in libertà e lo disse a Ron. Per combinazione, Terri Holland era di nuovo dentro. Scambiò qualche parola con Ron, ma niente di particolarmente spiacevole. Quando fu buio, Ron ricominciò con le vecchie abitudini: si mise a gridare che era stato condannato ingiustamente, a urlare oscenità alle detenute donne e a pregare Dio a voce alta. 15 La vicenda di Ron Williamson e Dennis Fritz aveva avuto risonanza nazionale. Il 15 aprile, davanti al palazzo di giustizia c'erano cronisti, fotografi, cameramen e furgoni di varie TV. Molti cittadini di Ada, incuriositi, facevano ressa tutto intorno. Il giudice Landrith fu costretto a improvvisare un'estrazione a sorte dei posti in aula, tante erano le persone che volevano assistere all'udienza. C'erano telecamere e macchine fotografiche anche all'uscita del carcere, che sembrarono impazzire appena Williamson e Fritz spuntarono dalla porta. Ron era in giacca e cravatta, con una bella camicia compratagli all'ultimo minuto da Annette. La sorella gli aveva preso anche un paio di scarpe nuove, che gli facevano male ai piedi. Dennis, invece, aveva preferito indossare gli abiti che metteva anche in carcere, invece del completo nuovo che gli aveva comprato sua madre. Fecero il breve tragitto a piedi, ammanettati, sorridendo e scambiando qualche parola con i reporter. Annette e Renee erano arrivate presto e si erano sedute ai soliti posti, in

prima fila, dietro il tavolo della difesa. Si tenevano per mano e pregavano. Ogni tanto, riuscivano persino a ridere, ma era troppo presto per festeggiare. Le avevano accompagnate i loro figli, alcuni parenti e diverse amiche. Wanda ed Elizabeth Fritz erano poco distante, e anche loro si tenevano per mano e parlavano sottovoce, emozionate. L'aula si riempì molto presto. C'erano anche i Carter, costretti ad assistere all'ennesima udienza senza che giustizia fosse stata fatta. La loro figlia era morta da diciassette anni, ormai, e i primi e gli unici uomini accusati di averla uccisa stavano per essere rimessi in libertà. I posti a sedere finirono in fretta e la gente cominciò ad allinearsi lungo le pareti. Il giudice Landrith aveva autorizzato le riprese dell'udienza e fatto sedere fotografi, cameramen e giornalisti nel banco della giuria, dove gli uscieri avevano sistemato alcune sedie pieghevoli. C'erano poliziotti dappertutto e le misure di sicurezza erano rigide, anche perché c'erano state alcune telefonate anonime contro Ron e Dennis e la tensione era alle stelle. Dennis Smith e Gary Rogers brillavano per la loro assenza. Arrivarono gli avvocati difensori - Mark Barrett, Sara Bonnell e Barry Scheck - e Bill Peterson, Nancy Shew e Chris Ross della procura. Ci furono sorrisi e strette di mano. Erano tutti d'accordo sul proscioglimento, sulla necessità di rimediare all'errore e dare un raro esempio di comunione di intenti nel momento della verità. Si stavano comportando come una grande famiglia: bisognava essere contenti che il sistema funzionasse così bene. Ron e Dennis entrarono in aula, si fecero togliere loro le manette per l'ultima volta e si sedettero dietro i loro avvocati, a pochi metri dai familiari. Ron guardava avanti senza vedere nessuno; Dennis invece osservò la folla e vide tante espressioni tetre e cupe. La maggior parte dei presenti era tutt'altro che contenta all'idea che venissero scarcerati. Il giudice Landrith prese posto allo scranno, salutò e diede inizio ai lavori. Chiese a Peterson di chiamare il primo testimone. Mary Long, che nel frattempo era diventata la responsabile del reparto DNA dell'OSBI, prestò giuramento e spiegò come funzionava il test. Riferì che erano stati contattati diversi laboratori per condurre la prova su formazioni pilifere e liquido seminale raccolti sulla scena del crimine e sui campioni biologici forniti dagli indagati. Ron e Dennis avevano i sudori freddi. Si aspettavano un'udienza breve, un semplice discorsetto del giudice, tanti saluti e tutti a casa. Invece la cosa si prospettava lunga e stressante. Ron diventò irrequieto, iniziò a bor-

bottare: «Cos'è 'sta roba?». Sara Bonnell gli scrisse sul foglio del blocnotes che era tutto regolare, doveva stare tranquillo. Anche Dennis era nervosissimo. Perché chiamare dei testimoni? Che stesse per arrivare l'ennesima sorpresa? In quell'aula aveva già vissuto un incubo terribile, riviveva lo sgomento provato quando Peterson aveva chiesto per lui la pena di morte. Eppure, c'era cascato un'altra volta: si era di nuovo guardato in giro e aveva visto ben poche facce amiche. Mary Long arrivò al dunque: erano stati analizzati tredici peli e quattro capelli raccolti durante il repertamento, dieci trovati sul letto e sulle lenzuola, due sulla biancheria della vittima, tre sullo straccio che le era stato infilato in bocca e due sotto il cadavere. Era stata individuata una corrispondenza fra reperto e profilo solo in quattro casi. Nessuna delle diciassette formazioni pilifere apparteneva a Williamson o a Fritz; due erano della vittima. La Long ricordò che Ron e Dennis erano stati esclusi anche dal test precedentemente condotto sul liquido seminale raccolto sulle lenzuola, sulla biancheria della vittima e sul cadavere. Venne quindi congedata. Nel 1988 Melvin Hett aveva dichiarato che delle diciassette formazioni pilifere esaminate, tredici risultavano "compatibili" con i campioni prelevati a Dennis e quattro con quelli prelevati a Ron. Aveva parlato addirittura di "corrispondenza". Nel suo terzo e ultimo rapporto, presentato dopo l'inizio del processo Fritz, Hett aveva inoltre escluso Glen Gore. La sua perizia era l'unica "prova" credibile presentata dalla procura contro Ron e Dennis e su di essa si era basata la condanna. Il test del DNA dimostrava invece che un capello trovato sotto il corpo della Carter e un pelo raccolto dalle lenzuola appartenevano a Glen Gore. Anche il liquido seminale prelevato mediante tampone vagin*le in sede di autopsia era di Gore. Il giudice Landrith lo sapeva, ma lo tenne segreto fino all'udienza e lasciò che fosse Peterson a renderlo noto al pubblico sbalordito. Poi il procuratore disse: «È un brutto momento, per il nostro sistema giudiziario. Debra Sue Carter fu uccisa nel 1982, il processo venne celebrato nel 1988. Il materiale probatorio allora presentato alle giurie che condannarono Fritz e Williamson era, a mio parere, ponderoso». Non specificò in che cosa consistesse, ma passò a discettare su come i test introdotti nel frattempo avessero scardinato tutte le sue certezze. Poi-

ché le prove attualmente a disposizione non sarebbero state sufficienti per ottenere il rinvio a giudizio, chiedeva il proscioglimento sia per Fritz sia per Williamson. Si risedette senza una parola di scusa, un'ammissione di colpa, un moto di pentimento. Ron e Dennis si aspettavano come minimo delle scuse. Per colpa dell'incompetenza, degli sbagli e dell'arroganza di certe persone avevano passato in carcere dodici anni. L'ingiustizia subita sarebbe potuta essere evitata: possibile che non chiedessero loro nemmeno scusa? Possibile. Nessuno manifestò il minimo pentimento per quello che era accaduto. Ron e Dennis non lo dimenticarono. Il giudice Landrith disse qualcosa a proposito dell'ingiustizia che era stata perpetrata e chiese a Ron e Dennis di alzarsi in piedi. Quindi li dichiarò prosciolti da ogni accusa. Erano liberi, potevano tornare alle loro case. Ci furono applausi e grida di giubilo da parte di alcuni spettatori, ma la maggior parte non era in vena di festeggiamenti. Annette e Renee abbracciarono i figli e piansero. Ron scattò su dal tavolo della difesa, oltrepassò il banco della giuria, prese l'uscita di servizio, scese le scale di corsa e uscì a respirare una boccata di aria fresca. Poi si accese una sigaretta, la prima da uomo libero, e salutò felice un fotografo. La foto fu pubblicata su decine di quotidiani. Rientrò subito dopo e posò per i fotografi insieme a Dennis e le relative famiglie. Rispose anche alle domande dei cronisti. Mark Barrett aveva telefonato a Greg Wilhoit chiedendogli di raggiungerli in Oklahoma per il grande giorno. Quando Ron lo vide, lo abbracciò commosso. «Come si sente, signor Williamson?» gli chiese un reporter. «In che senso?» domandò Ron. «Mi fanno male i piedi. Ho le scarpe strette.» Le domande dei cronisti andarono avanti per un'ora, nonostante la conferenza stampa in programma nel pomeriggio. Peggy Stillwell uscì, sostenuta dalle figlie e dalle sorelle. Era sconvolta e sotto shock: la famiglia non era stata avvertita degli sviluppi riguardo a Glen Gore. Erano di nuovo al punto di partenza, in attesa di un altro processo, in attesa che fosse fatta giustizia. Erano anche molto confusi. Ormai si erano quasi tutti convinti che Fritz e Williamson fossero colpevoli: cosa c'entrava Glen Gore? Ron e Dennis finalmente uscirono all'aria aperta, emozionatissimi, tra la folla che si faceva da parte per lasciarli passare. Appena varcata la soglia, si fermarono a godersi il sole e l'aria fresca.

Erano liberi, prosciolti da ogni addebito. Nessuno aveva dato loro spiegazioni o offerto risarcimenti, tuttavia: avrebbero dovuto ricominciare da soli. Era ora di pranzo. Ron aveva sempre amato il Bob's Barbecue, nella parte settentrionale della città. Annette telefonò al ristorante per prenotare alcuni tavoli, visto che il gruppo era sempre più numeroso. Benché ormai quasi completamente sdentato, per nulla intimidito dai fotografi e dai giornalisti, Ron divorò un piatto di costine di maiale e chiese il bis. Se non assaporò il cibo, riuscì comunque ad assaporare il momento. Fu cortese con tutti, ringraziò gli sconosciuti che si fermavano a incoraggiarlo, abbracciò gli amici e rispose a tutti i giornalisti che gli chiedevano di rilasciare una dichiarazione. Ron e Dennis non riuscivano a smettere di sorridere, anche con la bocca piena. Il giorno prima, Jim Dwyer del "Daily News" di New York e Alexandra Pelosi di Dateline, la trasmissione della NBC, erano andati a Purcell a parlare con Glen Gore. Gore sapeva che la tensione a Ada stava salendo e che i sospetti si stavano concentrando su di lui. Ciononostante, il permesso di lavoro esterno non gli era stato revocato. Saputo che c'erano delle persone che volevano vederlo, Gore aveva dato per scontato che fosse la polizia e aveva deciso di scappare. Intorno a mezzogiorno, mentre era fuori del carcere a fare lo spazzino, si era allontanato nei boschi. Dopo aver percorso alcuni chilometri a piedi, era arrivato a una strada e aveva fatto l'autostop diretto a Ada. Quando Ron e Dennis vennero a sapere che Gore era scappato, scoppiarono a ridere: doveva essere stato proprio lui a uccidere Debbie Carter, se si era dato alla macchia! Dopo il pranzo, che si protrasse piuttosto a lungo, i Fritz e i Williamson andarono a Wintersmith Park, dove era fissata la conferenza stampa. Ron, Dennis e i loro avvocati si sedettero a un lungo tavolo, di fronte ai fotografi. Scheck parlò di Innocence Project e del suo impegno per liberare gli innocenti. Mark Barrett spiegò come era avvenuto l'errore giudiziario elencando tutti gli sbagli che erano stati fatti, le indagini troppo lunghe e approssimative, le perizie spacciate per inoppugnabili, l'utilizzo di testimoni a dir poco sospetti. Ma la maggior parte delle domande fu rivolta a Fritz e

Williamson. Dennis disse di voler andare via dall'Oklahoma, di avere intenzione di tornare a Kansas City e passare più tempo possibile con la figlia Elizabeth. Non aveva altri progetti, per il momento. Ron neppure: voleva solo andare via da Ada. Risposero a qualche domanda anche Greg Wilhoit e Tim Durham, anch'egli prosciolto dopo quattro anni di detenzione a Tulsa. Durham era stato condannato per uno stupro che non aveva commesso, ma Innocence Project era riuscito a farlo scagionare con il test del DNA. Alla Corte federale di Muskogee, Jim Payne, Vicky Hildebrand e Gail Seward erano felicissimi, ma non si lasciarono andare ai festeggiamenti perché ormai erano quattro anni che non si occupavano più del caso Williamson e avevano molto altro lavoro da svolgere. La soddisfazione che provarono fu immensa. Prima che arrivasse il test del DNA a risolvere il mistero, avevano scoperto la verità con impegno e abnegazione, e avevano contribuito a salvare la vita di un innocente. Neanche il giudice Seay manifestò la propria contentezza. Era soddisfatto di come erano andate le cose, ma troppo impegnato per lasciarsi distrarre. E poi riteneva di avere fatto soltanto il proprio lavoro, niente di più. Conosceva bene il sistema e le sue debolezze e aveva ravvisato irregolarità che ai suoi colleghi erano sfuggite. La verità spesso è difficile da trovare, ma con il giusto impegno e sapendo dove cercare, è possibile farla venire a galla. Mark Barrett aveva chiesto ad Annette di trovare un posto in cui tenere la conferenza stampa e magari un piccolo ricevimento in onore di Ron e Dennis. Lei aveva pensato al salone della chiesa in cui suonava il piano o l'organo da quarant'anni, che anche Ronnie aveva frequentato da ragazzo. Aveva chiamato il pastore per prenotarla. Lui però si era mostrato titubante, le aveva detto che occorreva il permesso degli amministratori. Annette subodorò che c'era qualcosa che non andava e si recò direttamente da lui. Al suo arrivo, il pastore le spiegò di aver parlato con gli amministratori della congregazione e di aver concluso con loro che la chiesa non era il posto adatto per quello che lei aveva in mente. Annette rimase sbigottita e gli chiese perché. «Potrebbero scatenarsi episodi di violenza» rispose il pastore. Molta gente era contraria alla scarcerazione, c'erano state delle minacce, poteva succedere di tutto. In città non si parlava d'altro, lo scontento era forte. Fra

i Carter, povera gente, c'erano delle teste calde. Chissà mai che non scoppiasse qualche tafferuglio. «Ma i fedeli della congregazione hanno pregato per Ron tutti questi anni» fece notare al pastore. «Continueremo a pregare per lui» replicò il pastore. «Purtroppo, però, tanti pensano ancora che sia colpevole. È una questione spinosa, delicata. È meglio che la chiesa non si immischi.» Annette si irritò e se ne andò. Il pastore le offrì qualche parola di consolazione, ma lei non lo stette neanche a sentire. Chiamò subito Renee. Gary Simmons decise di andare a parlare con il pastore e si fece tre ore di macchina per arrivare a Ada. Discussero a lungo, si scaldarono, ma non arrivarono a nulla. Il pastore era irremovibile. La chiesa non doveva immischiarsi: era troppo pericoloso. «Domenica prossima Ron sarà qui» disse Gary. «Farà finta di non conoscerlo?» «Non gli riserverò attenzioni particolari» rispose il pastore. I festeggiamenti continuarono a casa di Annette, che aveva preparato un buffet. Continuava ad arrivare gente e a un certo punto andarono tutti in terrazza a cantare. Barry Scheck, ebreo di New York, non aveva mai sentito quegli inni sacri, ma cercò sportivamente di unirsi al coro. Mark Barrett era felice e orgoglioso, e non voleva più andare via. Anche Sara Bonnell, Janet Chesley e Kim Marks cantarono con gli altri. C'erano persino Greg Wilhoit e sua sorella Nancy. Dennis, Elizabeth e Wanda Fritz erano seduti vicini e ascoltavano i canti divertiti. «Quella sera festeggiammo tutti assieme a casa di Annette» ricordò in seguito Renee. «Mangiammo, cantammo e ridemmo. Annette suonava il piano, Ron la chitarra e gli altri cantavano, battevano le mani, si divertivano. Alle dieci ci interrompemmo per guardare il notiziario. Erano anni che aspettavamo di sentir annunciare la notizia che Ronald Keith Williamson era stato prosciolto da ogni accusa perché innocente. Fu una sera di festa e di allegria, ma si vedeva che Ron era malato, che tutti quegli anni di tormento e di abusi avevano lasciato il segno.» Dopo il notiziario i festeggiamenti ripresero, ma Mark Barrett e Barry Scheck si congedarono perché li aspettava una giornata molto intensa. Più tardi squillò il telefono e Annette andò a rispondere. Una voce le disse che il Ku Klux Klan era nei paraggi, che stavano cercando Ron. Girava voce che qualcuno dei Carter avesse assoldato un killer per far fuori

Ron e Dennis. Il Ku Klux Klan era ancora attivo nel Sudest dell'Oklahoma, ma da decenni era circondato da un alone di sospetto e diffidenza. Si diceva che fornisse sicari a pagamento. Benché costoro tendessero a uccidere i neri, probabilmente avrebbero accettato anche di eliminare uno come Ron. Annette perciò prese sul serio quella telefonata anonima e si spaventò. La riferì a Renee e Gary, e insieme a loro decise di non dire nulla a Ronnie. «La sera più bella della nostra vita si trasformò ben presto nella più spaventosa» ricordò in seguito Renee. «Chiamammo subito la polizia, ma ci risposero che non potevano mandare nessuno. Non potevano fare niente, visto che non era successo niente. Avevamo peccato di ingenuità: che cosa potevamo aspettarci? Nel panico, ci affrettammo a chiudere tapparelle, finestre e porte. Andare a dormire era impensabile, agitati com'eravamo. Mio genero era preoccupato per il bambino, aveva paura che gli succedesse qualcosa. Ci riunimmo a pregare il Signore che ci desse un po' di pace e proteggesse la nostra casa. Arrivammo alla mattina senza che succedesse niente: il Signore ancora una volta aveva ascoltato le nostre suppliche. Ripensandoci adesso, mi viene quasi da ridere al pensiero che per prima cosa chiamammo la polizia!» Anche Ann Kelley dell'"Ada Evening News" non andò a dormire, quella notte, per scrivere il servizio sul proscioglimento. A un certo punto ricevette una telefonata di Chris Ross, sostituto procuratore distrettuale. Era furibondo, protestava per il trattamento che i media stavano riservando a procura e forze dell'ordine. Nessuno riportava il loro punto di vista. Il mattino dopo, il primo giorno di libertà, Ron, Dennis, Mark Barrett e Barry Scheck andarono all'Holiday Inn di Ada, dove i cameraman della NBC si stavano preparando. Sarebbero stati gli ospiti del Today Show, condotto da Matt Lauer. L'America stava seguendo la vicenda con interesse e Ada era piena di giornalisti alla ricerca di gente in grado di raccontare gli eventi di prima mano. Il fatto che Gore fosse scappato aggiungeva ancora più fascino alla storia. Accompagnati da parenti e avvocati, Ron e Dennis andarono all'Oklahoma Indigeni Defense System di Norman per un altro piccolo festeggiamento. Ron disse qualche parola, ringraziando le persone che avevano

lavorato con tanto impegno per proteggerlo e farlo scarcerare. Il gruppo si mise poi in viaggio alla volta di Oklahoma City, per le riprese di una puntata di Inside Edition e quindi per partecipare a uno show dal titolo Burden of Proof. Scheck e Barrett avevano chiesto un incontro con il governatore per sollecitare la presentazione di un progetto di legge che facilitasse l'adozione della prova del DNA e rendesse obbligatorio un risarcimento per le vittime di errori giudiziari. Riuscirono a organizzare una conferenza stampa nel palazzo del governo. Il tempismo era perfetto: i media di tutti gli Stati Uniti li stavano seguendo. Il governatore però aveva un impegno e mandò un suo assistente, il quale ebbe la brillante idea di mettere Fritz e Williamson a confronto con alcuni esponenti della Corte d'appello dell'Oklahoma. Non era chiaro quale fosse lo scopo, ma forse la speranza era che si accapigliassero in diretta. Fortunatamente il venerdì pomeriggio i giudici lavoravano e l'unica a presentarsi fu una donna che non aveva nulla a che fare con la vicenda, essendo entrata nella Corte dopo che questa si era espressa in merito a Fritz e Williamson. Barry Scheck ripartì per New York. Mark Barrett si fermò a Norman, dove abitava, e Sara Bonnell andò a Purcell. Avevano tutti bisogno di un po' di tranquillità, dopo quei giorni così frenetici. Dennis si recò dalla figlia Elizabeth con sua madre, a Oklahoma City. Mentre Annette guidava verso Ada, Ron si godette il viaggio in macchina: era seduto davanti, senza manette, senza divisa, senza guardie armate a sorvegliare ogni suo movimento. Guardò il panorama, beato. La campagna dell'Oklahoma era molto bella, ma lui non vedeva l'ora di andarsene via. «Era talmente tanto che non lo vedevamo, che dovemmo riabituarci a lui» disse Renee. «Il giorno dopo la liberazione passammo una giornata meravigliosa. Io gli chiesi di essere paziente con noi, perché avevamo tante cose da chiedergli ed eravamo curiosi di sapere come fosse stata la sua vita nel braccio della morte. Ron fu molto gentile, rispose alle nostre domande per ore. Gli domandai come mai avesse tante cicatrici sulle braccia e lui mi rivelò che nei periodi di peggiore depressione aveva tentato di tagliarsi le vene. Gli chiedemmo della sua cella, del cibo, tante cose. Dopo un po', però, ci guardò e disse: "Preferirei non parlarne più adesso. Cambiamo discorso". Lo accontentammo, naturalmente. Suonava la chitarra sul patio di casa di Annette, cantava. Noi da dentro lo sentivamo e ci veniva da

piangere al pensiero di quello che aveva passato. I primi tempi, quando apriva la porta del frigo, restava lì impalato a guardare quello che c'era dentro, come se non credesse ai propri occhi. Era stupefatto che in casa ci fosse così tanta roba da mangiare e sembrava felice di potersi servire di tutto quello che voleva. A volte invece guardava le macchine dalla finestra, meravigliandosi di quanto fossero belle. Un giorno osservò che era stranissimo vedere il viavai della gente che faceva le proprie cose.» Ron era emozionato all'idea di tornare in chiesa. Annette non gli aveva raccontato del suo dissidio con il pastore. Non glielo disse mai. Ron voleva che Mark Barrett e Sara Bonnell andassero con lui, ci teneva molto. La famiglia Williamson si presentò alla funzione al gran completo e occupò la prima fila di banchi. Annette suonava l'organo e, quando attaccò il primo inno, Ron si alzò in piedi con un gran sorriso e si mise a cantare e a battere le mani. Il pastore non fece parola del ritorno di Ron nella congregazione, ma durante una delle preghiere riuscì a dire che Dio amava tutti quanti, persino lui. Annette e Renee erano livide per la rabbia. Quando attaccò la musica dell'inno finale, tutti si alzarono in piedi e alcuni andarono a stringere la mano a Ron. Pochi, per la verità. I restanti bravi cristiani lo guardavano come si guarda un assassino. Fu l'ultima domenica che Annette mise piede in quella chiesa. L'edizione domenicale del quotidiano locale di Ada uscì con un articolo intitolato La procura difende il proprio lavoro: era un caso difficile. In prima pagina, c'era una foto di Bill Peterson nei panni di pubblico ministero. Per ovvi motivi, il procuratore non era molto contento e voleva esprimere pubblicamente il proprio livore. Si sentiva bistrattato: in fondo aveva cercato anche lui di proteggere i diritti di Fritz e Williamson. Il lungo articolo firmato Ann Kelley era pieno delle recriminazioni di un uomo sconfitto che avrebbe fatto molto meglio a tacere. Cominciava così: Il procuratore distrettuale della contea di Pontotoc, Bill Peterson, sostiene che gli avvocati di Dennis Fritz e Ron Williamson si sono ingiustamente presi tutto il merito delle indagini che hanno portato al loro proscioglimento.

Peterson ripercorreva le varie fasi della decisione di effettuare la prova del DNA, cogliendo ogni pretesto per lanciare frecciate a Mark Barrett e Barry Scheck e autoincensarsi. Era venuto in mente a lui per primo di sottoporre Williamson e Fritz alla prova del DNA! Evitò di specificare che il suo scopo era inchiodarli una volta per tutte. Se aveva acconsentito a svolgere ulteriori indagini, era solo perché era convinto della loro colpevolezza. Ora che il test gli aveva dato torto, cercava di passare per quello che aveva cercato di proteggere i loro diritti. Critiche e recriminazioni andavano avanti per paragrafi, fra vaghe allusioni ad azioni future e ulteriori indagini su altri individui sospetti. Peterson ha fatto presente che, qualora venissero trovate nuove prove contro Fritz e Williamson relativamente al caso Carter, la legge permetterebbe di processarli una seconda volta per lo stesso reato. Il procuratore ha inoltre dichiarato che l'inchiesta sull'omicidio Carter è stata riaperta e Glen Gore non è l'unico indagato. L'articolo concludeva con due chicche di Peterson. La prima era: Ho fatto bene nel 1988 a processarli. E ho fatto bene, ora che sono emerse nuove prove, a chiedere il loro proscioglimento. Era la cosa giusta da fare, dal punto di vista legale, etico e morale. Peterson evitava di specificare quanto tempo ci avesse messo, però: erano passati cinque anni da quando Ron aveva rischiato di venir giustiziato e quattro dalla pronuncia del giudice Seay, che Peterson aveva aspramente criticato. Forse per lui "la cosa giusta" era stata lasciare che Ron e Dennis si facessero soltanto dodici anni di galera per un reato che non avevano commesso. Ma la dichiarazione che la redazione del giornale mise in grassetto al centro della prima pagina era di gran lunga peggiore: Io non ho mai detto che Fritz e Williamson sono innocenti. Le nuove prove non dimostrano la loro innocenza; mi impediscono solo di processarli. Ron e Dennis erano liberi da quattro giorni soltanto, ancora molto scossi

e agitati, e le parole di Peterson li mandarono in paranoia. Perché il procuratore avrebbe dovuto processarli di nuovo? Certo, se li aveva già fatti condannare una volta, poteva riuscirci anche la seconda. Nuove prove, vecchie prove, nessuna prova: aveva forse importanza? Ron e Dennis avevano già passato dodici anni in carcere senza aver mai ammazzato nessuno. Evidentemente nella contea di Pontotoc le prove non erano poi così rilevanti. Mark Barrett e Barry Scheck andarono su tutte le furie, dopo aver letto l'articolo, e scrissero entrambi repliche pungenti al giornale. Aspettarono saggiamente prima di spedirle, però, e ben presto si resero conto che erano in pochi a dare ancora retta a Bill Peterson. La domenica pomeriggio, Ron, Dennis e alcuni loro sostenitori andarono a Norman su invito di Mark Barrett. Per combinazione, infatti, in quei giorni era in programma il concerto annuale organizzato da Amnesty International per raccogliere fondi. Il tempo era bello e il pubblico numeroso. A metà concerto, Mark Barrett presentò Ron, Dennis, Greg e Tim Durham, che raccontarono brevemente la loro esperienza. Non essendo avvezzi a parlare in pubblico, erano molto emozionati, ma presero coraggio e lo fecero con il cuore. Il pubblico apprezzò moltissimo il loro intervento. Quattro uomini, quattro persone normalissime, bianchi di buona famiglia, erano finiti stritolati da un sistema che li aveva mandati in carcere per un totale di trentatré anni. Il messaggio era chiaro: se non si interviene efficacemente per migliorare il sistema, questa cosa può capitare a chiunque. Dopo aver parlato, Ron e gli altri rimasero a sentire la musica, godendosi il sole e l'aria aperta. Comparve come dal nulla Bruce Leba, che abbracciò commosso il vecchio amico. Non era andato al processo, non gli aveva mai scritto quando Ron era in prigione e si sentiva in colpa. Si scusò con il vecchio compagno di scuola. Ron lo perdonò. Avrebbe perdonato chiunque. La libertà era troppo bella, i propositi di vendetta erano stati messi da parte. Per dodici anni aveva meditato di fare causa a tutto il sistema, ma adesso non più: aveva voglia di pensare ad altro. I media sembravano non averne mai abbastanza. Ron era popolarissimo, forse perché era un bianco che in una città bianca era stato preso di mira da poliziotti bianchi e da un pubblico ministero bianco, che l'avevano fatto

condannare da una giuria di bianchi. I giornali gli dedicavano moltissimo spazio: simili abusi potevano anche essere comuni fra i poveri e le minoranze, ma non fra gli ex campioni di baseball della provincia. Il fatto che fosse stato un atleta professionista, che nel braccio della morte fosse sprofondato nella follia, che fosse arrivato a un passo dall'esecuzione mentre la polizia si era lasciata sfuggire il vero colpevole rendevano ancor più avvincente la sua storia. La scrivania di Mark Barrett era piena di richieste di interviste, da parte di giornalisti di tutto il mondo. Dopo cinque giorni di latitanza, Glen Gore andò a costituirsi. Contattò un avvocato di Ada, il quale chiamò le autorità e prese accordi: l'evaso era pronto ad arrendersi, ma dovevano assicurargli che non sarebbe stato processato a Ada. Gore non avrebbe dovuto preoccuparsi, visto che il procuratore Peterson non stava facendo niente per rinviarlo a giudizio. La sua priorità era non perdere la faccia. Aveva dichiarato pubblicamente che l'inchiesta era stata riaperta e che la polizia era attivamente impegnata a trovare l'assassino, o gli assassini. Gore era solo uno dei tanti indagati. Ada era Ada, e la polizia sapeva il fatto suo. Ron e Dennis non erano ancora fuori dal gioco. 16 La giornata allo Yankee Stadium segue ritmi diversi, quando la squadra gioca fuori casa. Non essendo in arrivo orde di tifosi e telecamere, non occorre rasare il campo alla perfezione e perciò si comincia un po' più tardi. In tarda mattinata gli inservienti in pantaloncini beige e maglietta bianca lavorano sul campo senza fretta. Grantley traffica con la modernissima falciatrice, Tommy sistema la terra dietro la casa base, Dan rasa l'erba lungo la linea. A intervalli regolari si azionano gli innaffiatoi. Una guida turistica fa un gesto in direzione del tabellone segnapunti. I cinquantasettemila posti a sedere sono vuoti e il ronzio della falciatrice, la risata di uno dei custodi, il sibilo dello spruzzatore, il rumore di un treno lontano e i colpi ritmici di un martello rimbombano nell'anfiteatro deserto. Sono giornate riposanti per gli addetti alla manutenzione del campo, a metà fra la nostalgia dei bei tempi passati e la speranza di un ritorno alla grande.

Venticinque anni dopo il suo tanto atteso arrivo, Ron Williamson si alzò dalla panchina degli Yankees e si diresse verso il campo da gioco. Si fermò un istante ad ammirare l'enormità dello stadio e ad assaporare il sole sulla pelle. Era una splendida giornata di primavera, l'aria era limpida, il sole già alto, l'erba così verde e uniforme che sembrava quasi un tappeto. L'odore che emanava gli ricordava altri campi, altre partite, vecchi sogni. Indossava un berretto degli Yankees che gli avevano regalato all'ingresso e, siccome in quel periodo era una celebrità, a New York per girare una puntata di Good Morning America con Diane Sawyer, si era messo la sua unica giacca, compratagli in tutta fretta da Annette due settimane prima, e la sua unica cravatta. Aveva cambiato scarpe, dal giorno dell'udienza. Non dava più tanta importanza al look. Un tempo aveva lavorato in un negozio di abbigliamento e aveva un gusto sicuro, ma a quel punto il modo di vestire della gente non gli interessava più: dodici anni in divisa da carcerato avevano avuto questo effetto. Aveva i capelli grigi, spessi e sempre spettinati. Aveva quarantacinque anni e ne dimostrava molti di più. Si sistemò il berretto sui capelli scompigliati ed entrò in campo. Era alto più di un metro e ottanta e, benché segnato da vent'anni di abuso e trascuratezza, aveva ancora il fisico da atleta. Andò verso il centro del campo e si avvicinò al monte, dove rimase un momento a guardare le lunghe file di sedili azzurri. Posò il piede sulla pedana del lanciatore e scosse la testa. Lì avevano dato il meglio di sé Don Larsen e Whitey Ford, i suoi idoli; lì Roger Maris aveva stabilito il record di fuoricampo. Oltre al muro, c'erano le targhe dei più grandi Yankees di tutti i tempi, Mickey compreso. Mark Barrett era al piatto di casa base, anche lui con il berretto degli Yankees, e si chiedeva a che cosa stesse pensando Ron, prosciolto dopo dodici anni di prigione senza una parola di scusa perché nessuno aveva avuto la dignità di ammettere il proprio errore. Ron non aveva ricevuto né risarcimenti né aiuti, neppure una lettera da parte del governatore o di qualche altra autorità. Niente di niente. E i media, improvvisamente, se lo contendevano, lo trattavano come una celebrità. Ron non sembrava provare rancore. Sia lui sia Dennis erano troppo presi dalla riassaporata libertà. Rabbia e livore sarebbero arrivati più tardi, quando ormai l'interesse dei media era scemato. Anche Barry Scheck guardava Ron, chiacchierando con gli altri vicino alla panchina. Tifoso sfegatato degli Yankees, aveva fatto un paio di telefonate e organizzato il breve tour. Ron e Mark erano suoi ospiti a New

York per qualche giorno. Ron fu fotografato e filmato sul campo, poi il gruppetto riprese il giro turistico, con la guida che rievocava le gesta di questo e quel giocatore. Ron li conosceva quasi tutti. Nessuna palla era mai stata scagliata fuori da quello stadio gigantesco, diceva la guida, ma Mantle c'era andato vicino, mandandola a ben centosessantatré metri dalla casa base. «A Washington Chuck Stobbs fece ancora meglio: scagliò una palla a centosettantadue metri dalla casa base» precisò Ron. La guida rimase impressionata. Annette lo seguiva come un'ombra, aiutandolo a fare le cose, a prendere le decisioni, a risolvere i problemi. Non era tifosa di baseball ed era lì principalmente per impedire che suo fratello si ubriacasse. Ron era arrabbiato con lei perché la sera prima non l'aveva lasciato bere quanto voleva. Al giro turistico partecipavano anche Dennis Fritz, Greg Wilhoit e Tim Durham. Le quattro vittime di errore giudiziario erano state ospiti di Good Morning America, a spese della ABC. C'era anche Jim Dwyer del "Daily News". Si avvicinarono alla recinzione, oltre cui c'era il Monument Park, con i busti in marmo di Ruth e Gehrig, Mantle, DiMaggio e le targhe di moltissimi altri campioni che avevano militato nelle file degli Yankees. Prima dei lavori di ristrutturazione quell'angolo quasi sacro era nel territorio buono, spiegò la guida. Aprirono un cancello e si ritrovarono in una sorta di giardino che pareva lontano mille miglia dallo stadio. Ron si avvicinò al busto di Mantle e lesse la sua breve biografia. Sarebbe stato ancora in grado di ripeterne le gesta che aveva imparato a memoria da bambino. Anche Ron aveva militato negli Yankees, ma aveva giocato a Fort Lauderdale, lontanissimo dal Monument Park. Annette aveva delle sue vecchie foto in divisa da Yankees, quella vera, che era stata veramente indossata da un vero Yankee in quello stesso stadio. La squadra passava le divise dei migliori ai più giovani, di divisione in divisione, e spesso maglie e calzoncini portavano i segni delle gesta di chi li aveva indossati in precedenza: cuciture sul didietro, rattoppi sulle ginocchia, elastici più larghi o più stretti, macchie di erba e di sudore. Nel 1977 Ron aveva giocato negli Yankees di Fort Lauderdale: quattordici apparizioni, trentatré inning, due vittorie, quattro sconfitte e abbastanza pasticci da essere sostituito senza rimpianti alla fine della stagione. Il gruppetto proseguì la sua visita guidata. Ron si fermò un istante davanti alla targa in onore di Reggie Jackson. La guida parlava delle dimen-

sioni dello stadio, più grande ai tempi di Ruth rispetto a quelli di Maris e Mantle. I cameramen continuavano a riprendere scene che non sarebbero poi sopravvissute al montaggio. Annette trovava divertente che Ron fosse di nuovo oggetto di tutta quell'attenzione, quarant'anni dopo aver cercato con tanto impegno fama e notorietà. Si imponeva di vivere nel presente, di godersi quel momento di gioia. Un mese prima, suo fratello era chiuso in un ospedale psichiatrico e lei temeva che non ne sarebbe uscito mai più. Tornarono verso la panchina. Ron si guardò in giro e disse a Mark Barrett: «Ho appena capito quanto si divertivano qui dentro». Mark annuì, non sapendo che cosa rispondere. «Volevo solo giocare a baseball» aggiunse Ron. «Non mi sono mai divertito facendo altro.» Si interruppe, si guardò in giro un'altra volta e disse: «Ma in fondo poi tutto passa. In realtà, adesso quello che voglio veramente è un bel bicchiere di birra». Ricominciò a bere a New York. Dopo la visita allo stadio, andarono a Disney World, dove una TV tedesca aveva offerto a tutto l'entourage un soggiorno di tre notti. In cambio, volevano che Ron e Dennis raccontassero la loro storia: i tedeschi, con il tipico interesse europeo per il tema della pena di morte, erano ansiosi di conoscere ogni particolare. A Disney World, Ron apprezzò soprattutto il villaggio tedesco, dove servivano una birra bavarese che gli piacque molto. Ne bevve numerosi boccali. Il gruppo partì poi per Los Angeles, dove Ron e gli altri erano stati invitati al Leeza Show. Prima di salire in aereo, Ron scappò a farsi mezzo litro di vodka. Siccome biascicava comunque, essendo senza denti, nessuno si accorse che aveva la lingua impastata. Con il passare dei giorni l'attenzione dei media scemò e Ron, Annette, Mark, Dennis, Elizabeth e Sara tornarono a casa. Ada era l'ultimo posto al mondo in cui Ron voleva stare. Andò a vivere da Annette e cominciò il difficile processo di adattamento. Gli impegni mediatici si diradarono e pian piano finirono del tutto. Sotto lo sguardo vigile della sorella, Ron prendeva regolarmente le sue medi-

cine ed era stabile. Dormiva molto, suonava la chitarra e sognava di diventare un famoso cantante. Annette non ammetteva alcolici in casa e Ron usciva poco. La paura di essere arrestato e rispedito in galera lo tormentava, si voltava continuamente per guardarsi alle spalle e sobbalzava al minimo rumore. Sapeva che la polizia non si era dimenticata di lui e che tanti continuavano a pensare che fosse colpevole. Avrebbe voluto uscire la sera, ma non aveva soldi. Non parlava di cercarsi un lavoro, non aveva più la patente e non aveva nessuna voglia di fare l'esame per riprenderla. Annette cercava di ottenere il pagamento degli arretrati dalla Social Security Administration, che aveva smesso di versare a Ron il sussidio in quanto detenuto. Dopo una serie di discussioni, riuscì a ottenere 60.000 dollari e la ripresa del pagamento mensile dell'assegno di invalidità, che ammontava a 600 dollari. Ron si sentì di punto in bianco ricco sfondato: voleva andare a vivere da solo, lasciare Ada e magari addirittura l'Oklahoma. Il figlio di Annette, Michael, stava a Springfield, nel Missouri. Ron poteva trasferirsi lì. Acquistarono un caravan nuovo, completamente arredato, con due stanze da letto, per 20.000 dollari e Ron andò a stare per conto suo. Annette era contenta che Ron volesse provare a cavarsela da solo, ma era anche preoccupata. Lo aiutò a traslocare e lo lasciò tranquillo e soddisfatto in poltrona davanti al suo nuovo televisore. Tre settimane dopo, quando tornò a trovarlo, Ron era ancora in poltrona, circondato da lattine di birra vuote. Quando non dormiva, beveva, telefonava e suonava la chitarra. Andava spesso a un vicino Wal-Mart a rifornirsi di birra e sigarette. A un certo punto successe qualcosa, però, perché la direzione lo pregò cortesem*nte di non rimettere piede nel negozio. Ron aveva l'ossessione di restituire i soldi a chi gliene aveva prestati nel corso degli anni. Risparmiare gli sembrava assurdo: preferiva di gran lunga spendere e spandere. Se in televisione c'era un appello per i bambini che morivano di fame o una congregazione in procinto di perdere la chiesa, lui si commuoveva e mandava un'offerta. Le sue bollette telefoniche erano da capogiro. Chiamava Annette, Renee, Mark Barrett, Sara Bonnell, Greg Wilhoit, gli avvocati dell'Indigent Defense System, il giudice Landrith, Bruce Leba e persino alcune guardie carcerarie. In genere aveva la voce contenta, sembrava felice di essere libe-

ro, ma in ogni conversazione non mancava mai di protestare per via di Ricky Joe Simmons. Il fatto che il test del DNA incastrasse Glen Gore non lo toccava: voleva che la polizia arrestasse Ricky Joe Simmons, "reo di atti di libidine violenta, stupro e omicidio ai danni di Debra Sue Carter nella sua residenza al 1022 ½ East Eight Street la notte dell'8 dicembre 1982". Questa frase veniva ripetuta almeno due volte a ogni telefonata. Ron chiamava anche Peggy Stillwell. Allacciò con lei cordiali rapporti telefonici. Le disse che non conosceva sua figlia, cosa a cui Peggy credette. Debbie era morta da diciotto anni e lei non era ancora riuscita ad accettarlo. Disse a Ron che aveva da sempre avuto il sospetto che il vero colpevole non fosse mai stato trovato. Ron si era dato come regola di non frequentare né bar né donne di facili costumi, ma una volta rimase bruciato. Stava camminando per strada pensando ai fatti suoi, quando due donne gli offrirono un passaggio. Fecero un giro per locali e a tarda notte si ritrovarono tutti e tre nel caravan di Ron, dove una di loro scovò i soldi nascosti sotto il letto. Quando scoprì di essere stato derubato di 10.000 dollari, Ron decise di non fidarsi mai più delle donne. A Springfield Ron conosceva solo Michael Hudson, che incoraggiò a comprare una chitarra e cui insegnò alcuni accordi. Michael andava a controllare regolarmente come stava lo zio e poi lo riferiva alla madre. Il problema del bere era sempre più grave. Alcol e farmaci erano un co*cktail malefico e le paranoie tornarono. Ron non poteva vedere un'auto della polizia senza avere un attacco d'ansia. Attraversava la strada solo sulle strisce, convinto che i poliziotti lo tenessero costantemente d'occhio. Peterson e la polizia di Ada ce l'avevano con lui e per proteggersi Ron copriva i vetri delle finestre con fogli di giornale, si chiudeva a chiave, bloccava la serratura con il nastro adesivo e dormiva con un coltello da macellaio sempre a portata di mano. Mark Barrett andò a trovarlo un paio di volte. Si fermò a dormire da lui e si preoccupò vedendo che beveva troppo ed era paranoico. Più di tutto, Mark aveva paura che Ron usasse quel coltellaccio. Era solo, e nel panico più totale. Neanche Dennis Fritz osava attraversare la strada se non era sulle strisce. Era andato a stare con sua madre in Lister Avenue, a Kansas City. L'ultima volta che era uscito da quella casa, era stato in compagnia di una squadra di agenti speciali armati fino ai denti.

Erano ormai passati mesi dal proscioglimento, ma Glen Gore non era stato ancora rinviato a giudizio per l'omicidio di Debbie Carter. La polizia indagava e la sensazione era che Dennis e Ron fossero ancora nella rosa dei sospettati. Anche Dennis sussultava quando incrociava una volante e si guardava le spalle appena usciva di casa. Lo faceva trasalire persino lo squillo del telefono. Andò a Springfield a trovare Ron e rimase impressionato da quanto beveva. Cercarono di ridere, scherzare e scambiarsi ricordi, ma Ron era sempre ubriaco. Non aveva la sbronza triste né diventava cattivo, ma parlava in continuazione ed era sgradevole. Dormiva fino a mezzogiorno, si svegliava e si apriva una lattina di birra. Poi se ne apriva un'altra e si metteva a suonare la chitarra. Un pomeriggio uscirono in macchina a godersi la libertà. Ron beveva e suonava la chitarra. Dennis andava piano, perché non conosceva Springfield e non voleva finire nei pasticci. Ron gli disse di fermarsi in un nightclub perché voleva proporsi per suonare quella sera. Dennis la trovava un'idea balzana, soprattutto perché Ron non conosceva né il padrone né nessun altro nel locale. Litigarono furiosamente e tornarono arrabbiati al caravan. Ron sognava di diventare famoso, di esibirsi davanti a migliaia di persone e vendere dischi in tutto il paese. Dennis non gli disse che, con la sua voce roca per il fumo e il suo modesto talento, era difficile che riuscisse ad affermarsi come cantante, ma trovò il coraggio di consigliargli di bere di meno, magari alternando qualche birra analcolica alla Budweiser, ed evitando i liquori. Siccome lo trovava ingrassato, gli raccomandò anche di fare un po' di moto e di smettere di fumare. Ron lo ascoltò, ma continuò esattamente come prima. Dopo tre giorni, Dennis ripartì per Kansas City. Tornò a trovare Ron di nuovo qualche settimana più tardi insieme a Mark Barrett e lo portò in un locale dove Ron poté esibirsi cantando Bob Dylan. Gli avventori sembravano più interessati a mangiare e a chiacchierare che a starlo a sentire, ma Ron era entusiasta. Per occupare il tempo e raggranellare qualche soldo, Dennis si trovò un lavoro part-time e andò a grigliare hamburger per una paga molto bassa. Erano dodici anni che studiava giurisprudenza e voleva continuare. Barry Scheck lo incoraggiò a iscriversi all'università, promettendogli addirittura di dargli una mano con le rette. La University of Missouri-Kansas City era vicina e i corsi avevano orari flessibili. Dennis cominciò a prepararsi per

l'esame di ammissione, ma ben presto si scoraggiò. Soffriva di stress post-traumatico e a volte la pressione era insopportabile. Si sognava il carcere di notte, gli venivano dei flash in cui provava di nuovo l'orrore dell'arresto e della prigione. L'inchiesta era ancora aperta, la polizia di Ada continuava a indagare e la possibilità che un manipolo di agenti andasse a bussare alla sua porta a mezzanotte o gli circondasse la casa gli sembrava tutt'altro che remota. Decise di rivolgersi a uno specialista e lentamente cominciò a mettere insieme i pezzi della propria vita. Barry Scheck parlava di intraprendere un'azione legale contro i responsabili dell'ingiustizia che aveva subito e Dennis rifletté sulla proposta. Il pensiero di avere un'altra battaglia da combattere gli dava forza. Accettò di impegnarvisi. Ron invece stava andando alla deriva. Si comportava in maniera sempre più strana, e i suoi vicini lo notarono. Girava con il coltellaccio in mano, dicendo di avere la polizia di Ada alle calcagna e di volersi proteggere per non finire di nuovo in prigione. La direzione del campeggio scrisse ad Annette chiedendole di spostare il caravan. Siccome Ron non le rispondeva al telefono, Annette chiamò i vigili. Ron era chiuso dentro il caravan con porte e finestre coperte di fogli e nastro adesivo a guardare la TV bevendo birra. Lo chiamarono con il megafono, chiedendogli di uscire con le mani alzate. Lui sbirciò fuori del vetro, vide delle persone in divisa e pensò al peggio: la sua vita era finita, stava per tornare nel braccio della morte. Gli agenti avevano paura di lui quanta Ron ne aveva di loro, ma alla fine riuscirono a parlargli: non erano lì per portarlo in carcere, bensì in ospedale. Il caravan, che aveva meno di un anno ma era in pessime condizioni, venne venduto. Così, quando Ron fu dimesso, Annette dovette cercargli un posto dove stare. Trovò una stanza in una casa di cura fuori Springfield. Lo andò a prendere in ospedale, gli fece i bagagli e ce lo accompagnò. Il soggiorno nella struttura cominciò sotto i migliori auspici: Ron prendeva le medicine all'ora giusta e non beveva perché l'alcol era vietato. Appena si sentì meglio, però, cominciò a stancarsi di stare in mezzo a vecchi e infermi sulla sedia a rotelle. Si lamentava, protestava e ben presto si rese insopportabile, così che Annette dovette trovargli un'altra sistemazione. Lo portò a Marshfield, nel Missouri, ma anche quella casa di cura era piena di

tristi vecchietti. Ron aveva soltanto quarantasette anni: che cosa ci faceva in un ospizio? Divenne così insistente che Annette lo riportò in Oklahoma. Ron non voleva tornare a Ada, dove peraltro nessuno voleva che tornasse. Annette gli trovò una stanza alla Harbor House di Oklahoma City, un vecchio motel convertito in residenza transitoria per pazienti appena dimessi dalle comunità di recupero. Gli alcolici erano vietati e Ron non beveva più da mesi. Mark Barrett lo andò a trovare diverse volte e si rese conto che Ron non sarebbe riuscito a resistere a lungo alla Harbor House: sarebbe stato impossibile per chiunque vivere in mezzo a quei derelitti simili a zombie. Passavano i mesi e Glen Gore continuava a non essere rinviato a giudizio. Le indagini sull'omicidio Carter si stavano dimostrando infruttuose come quelle condotte diciott'anni prima. Polizia, procura e OSBI avevano la prova inconfutabile del DNA a dimostrare che Glen Gore aveva lasciato liquido seminale, peli e capelli sulla scena del crimine, ma evidentemente non gli bastava. Per loro, il caso non era ancora chiuso. Ron e Dennis rimanevano indagati. Fortunatamente non erano più in carcere, ma continuavano a vivere con quella spada di Damocle sulla testa. Si parlavano ogni settimana, a volte tutti i giorni, ed erano in stretto contatto con i loro avvocati. Dopo un anno di quella vita, decisero di assumere una posizione più attiva. Se Bill Peterson, le forze dell'ordine e le autorità di Ada avessero chiesto umilmente scusa e cancellato dal registro degli indagati Ron Williamson e Dennis Fritz, sarebbero usciti indenni da quella vicenda. Invece, si trovarono a rispondere delle loro azioni in tribunale. Nell'aprile del 2000, Dennis Fritz e Ron Williamson diedero inizio a un'azione legale contro la città di Ada, la contea di Pontotoc, lo Stato dell'Oklahoma, Bill Peterson, Dennis Smith, John Christian, Mike Tenney, Glen Gore, Terri Holland, James Harjo, l'OSBI e i suoi dipendenti Gary Rogers, Rusty Featherstone, Melvin Hett, Jerry Peters e Larry Mullions, il Department of Corrections e i suoi dipendenti Gary Maynard, Dan Reynolds, James Saffle e Larry Fields. Poiché denunciavano una violazione di diritti civili e del Quarto, Quinto, Sesto, Ottavo e Quattordicesimo emendamento della Costituzione, si rivol-

sero a una Corte federale. La pratica venne affidata, per estrazione, al giudice Frank Seay, che però chiese l'esonero. I ricorrenti accusavano i convenuti di: 1) falsificazione di materiale probatorio e occultamento di indizi e prove a discolpa degli imputati; 2) arresto e rinvio a giudizio per motivi pretestuosi; 3) dolo; 4) molestie psicologiche; 5) negligenza; 6) promozione di azione penale per motivo illecito. Il Department of Corrections era citato in quanto aveva ignorato lo stato di salute mentale di Ron durante la detenzione nel braccio della morte, nonostante le ripetute segnalazioni. La richiesta di risarcimento era cento milioni di dollari. Il quotidiano di Ada dichiarava che Peterson aveva reagito così alla notizia della querela: "La considero un'azione pretestuosa volta esclusivamente ad attirare l'attenzione. Non ho il benché minimo timore". Fra l'altro, Peterson affermava anche che le indagini sull'omicidio Carter erano "ancora in corso". A rappresentare Dennis e Ron erano Barry Scheck e un avvocato di Kansas City, che si chiamava Cheryl Pilate. Mark Barrett si sarebbe unito solo dopo aver lasciato l'Indigent Defense System e aver aperto uno studio privato. Vincere una causa di quel genere e ottenere un risarcimento è molto difficile. Nella maggior parte dei casi intentare un'azione per reclusione illegale non è neppure possibile. Bisogna dimostrare che vi è stata violazione dei diritti civili e costituzionali. Ove ciò sia possibile, ci si scontra comunque con l'immunità di cui godono praticamente tutte le persone coinvolte nel procedimento. Il giudice non può essere denunciato per reclusione illegale, indipendentemente dagli errori che ha commesso. Il pubblico ministero gode dell'immunità purché abbia agito nell'ambito delle proprie competenze. Può essere denunciato, per esempio, se si lascia coinvolgere nelle indagini in maniera eccessiva. Anche i rappresentanti delle forze dell'ordine sono a posto, a meno che non venga dimostrato che qualunque ragionevole rappresentante delle forze dell'ordine poteva ravvisare l'anticostituzionalità del loro operato. In ogni caso, si tratta di azioni legali molto costose - dell'ordine di migliaia di dollari - e molto azzardate, perché le chance di ottenere un risarcimento sono esigue. La maggior parte delle vittime di errori giudiziari, come per esempio Greg Wilhoit, non viene mai risarcita per i danni subiti.

Nel luglio del 2001 Ron entrò nella Transition House di Norman, una struttura che offriva un ambiente sereno, sostegno psicologico e formazione al lavoro allo scopo di aiutare gli individui in difficoltà a raggiungere l'autonomia sotto adeguata supervisione. L'obiettivo era il reinserimento graduale nella comunità. La prima fase del programma, che in totale durava dodici mesi, prevedeva il soggiorno in un dormitorio con diversi occupanti e molte regole. Ai partecipanti veniva insegnato a usare i mezzi pubblici per spostarsi nella città, a cucinare, pulire e mantenere la propria igiene personale. Ron sapeva fare solo uova strapazzate e pane con il burro di arachidi. Stava molto in camera e usciva solo per andare a fumare. Dopo quattro mesi, non era ancora in grado di prendere l'autobus da solo. Da ragazzo aveva avuto un grande amore, Debbie Keith, figlia di un pastore deciso a farle sposare un pastore. Ron non rientrava nella categoria. Il fratello della ragazza, Mickey Keith, aveva seguito le orme del padre ed era pastore all'Evangelistic Tempie, la chiesa che adesso frequentava Annette. Su richiesta di Ron e per intercessione di Annette, il reverendo Keith andò a fargli visita alla Transition House di Norman. Ron voleva seriamente darsi una regolata e riprendere ad andare in chiesa. Credeva in Dio e in Gesù Cristo e ricordava ancora gli inni e i brani delle Scritture imparati a memoria da bambino. Aveva commesso molti sbagli, ma provava il desiderio sincero di ritornare sulla retta via. Tormentato dai sensi di colpa per la vita che aveva vissuto, credeva nella promessa di perdono del Salvatore. Keith parlò e pregò con lui e gli diede alcuni moduli: se voleva entrare nella sua congregazione, doveva compilare la domanda specificando di essere cristiano e di voler partecipare alle attività della Chiesa, manlevandola da qualsivoglia responsabilità. Ron riempì velocemente il modulo e lo firmò. La sua domanda venne presa in esame dai membri del consiglio e approvata. Per qualche mese, Ron visse abbastanza serenamente. Stava bene, non beveva ed era deciso a non ricaderci più. Entrò nella Alcolisti Anonimi e partecipò assiduamente alle riunioni. Seguiva la terapia e stava bene con gli altri. Parlava molto, era spiritoso, sempre pronto a fare battute e raccontare barzellette. Quando conosceva persone nuove, si divertiva a scioccarle dicendo: "Quando ero nel braccio della morte...". I suoi parenti gli stavano più vicino possibile e spesso si sorprendevano nel sentirgli raccontare nei

minimi particolari episodi avvenuti quando sembrava fuori di sé. La Transition House era abbastanza vicina al centro di Norman, dove aveva lo studio Mark Barrett. Ron andava a trovarlo di frequente. In quelle occasioni, lui e Mark prendevano un caffè assieme, parlavano di musica e della causa in corso. Ron voleva sapere quanto tempo sarebbe durata e quanti soldi erano in ballo. Mark lo invitò nella sua congregazione, che si chiamava Disciples of Christ. Ron andò a un incontro di studio la domenica, con Mark e sua moglie, e rimase affascinato dal modo aperto e disinvolto con cui venivano discussi la Bibbia e il cristianesimo. Sembrava che in quella congregazione si potesse mettere in discussione tutto, al contrario della chiesa pentecostale cui era abituato, dove la Parola di Dio era esatta e infallibile e chi la pensava diversamente veniva guardato con sospetto. Passava la maggior parte del suo tempo a provare canzoni di Bob Dylan ed Eric Clapton. Divenne abbastanza bravo a imitarli e riuscì a trovare anche lo spazio per esibirsi. Cantò in alcuni locali di Norman e Oklahoma City, accontentandosi di qualche mancia e suonando anche su richiesta degli avventori. Non era per niente timido e, benché avesse un'estensione vocale limitata, cantava qualsiasi cosa. La Oklahoma Coalition to Abolish the Death Penalty lo invitò a cantare e tenere un breve discorso a una festa per la raccolta di fondi al Firehouse, un locale molto popolare vicino al campus. Davanti a duecento persone, un pubblico molto più numeroso di quelli cui era abituato, si intimorì e cantò troppo distante dal microfono. L'acustica non era delle migliori, ma il suo show fu apprezzato. Quella sera, Ron incontrò la dottoressa Susan Sharp, docente di criminologia alla Oklahoma University e attiva militante nel movimento per l'abolizione della pena di morte. La Sharp lo invitò a una delle sue lezioni e Ron accettò entusiasta. Fecero amicizia e Ron cominciò a dire in giro che Susan era la sua fidanzata. Susan cercava di mantenere i rapporti a un livello professionale e di amicizia: vedeva che Ron era tormentato e sofferente, e desiderava aiutarlo. Non voleva avere una storia d'amore con lui, ma Ron non fu mai aggressivo. Superata la prima fase del programma, Ron si trasferì dalla Transition House in un appartamento tutto suo. Annette e Renee pregavano che resistesse e che riuscisse a vivere da solo. Non potevano pensare a un futuro di case di cura, strutture specializzate e ospedali psichiatrici. Se Ron avesse superato anche la fase due, forse dopo sarebbe riuscito anche a trovare un lavoro.

Per un mese o due Ron resistette, poi cominciò a perdersi. Senza un ambiente strutturato a controllarlo, smise di prendere le medicine e ricominciò a bere. Scoprì un locale nel campus che si chiamava Deli, pieno di forti bevitori e di studenti. Cominciò a frequentarlo spesso e a ubriacarsi. Il 29 ottobre 2001, Ron rese la propria deposizione giurata a Oklahoma City, davanti a molti avvocati ansiosi di interrogarlo. Dopo alcune domande preliminari, il primo avvocato difensore chiese a Ron: «Sta seguendo qualche cura?». «Sì.» «E questa cura le è stata prescritta da un medico?» «Sì, da uno psichiatra.» «Ha l'elenco dei farmaci che deve prendere?» «So cosa devo prendere.» «Ce lo vuole dire?» «Depakote, 250 milligrammi quattro volte al dì; Zyprexa, una volta al dì, la sera; Wellbutrin una volta al dì.» «Sa a che cosa servono questi farmaci?» «Be', il Depakote è per gli sbalzi di umore, il Wellbutrin contro la depressione e lo Zyprexa per le voci e le allucinazioni.» «Bene. Una delle cose che ci interessa chiarire oggi è l'effetto che questi farmaci hanno o possono avere sulla sua memoria. Influiscono sulla sua capacità di ricordare le cose?» «Non lo so, veramente. Chiedetemi se mi ricordo una cosa e vediamo.» L'interrogatorio durò diverse ore. Alla fine, Ron era esausto. Bill Peterson, convenuto, aveva chiesto alla Corte di giungere a una decisione senza un processo completo. I ricorrenti lo accusavano di essersi allargato oltre la propria area di competenza occupandosi personalmente delle indagini sull'omicidio Carter e di non poter quindi godere dell'immunità. Sostenevano inoltre che avesse falsificato le prove. Glen Gore aveva reso una dichiarazione giurata in cui sosteneva che Peterson era andato a trovarlo nel carcere della contea di Pontotoc e lo aveva esortato sotto minaccia a testimoniare contro Ron Williamson. Secondo Gore, Peterson gli aveva detto chiaramente che nell'appartamento di Debbie Carter sarebbero potute saltare fuori impronte sue.

La falsificazione delle prove riguardava anche la seconda rilevazione delle impronte della vittima. Peterson ammetteva di aver incontrato Jerry Peters, Larry Mullins e gli investigatori di Ada nel gennaio del 1987 per parlare dell'impronta insanguinata sul muro della camera della vittima, dicendo che le indagini erano arrivate "al capolinea". Anche se erano passati quattro anni e mezzo, era possibile ottenere un'impronta più chiara, aveva detto. E aveva chiesto a Mullins e Peters di controllare una seconda volta. Il corpo era stato esumato, erano state rilevate nuove impronte e i periti avevano cambiato improvvisamente idea. (Gli avvocati di Ron e Dennis chiesero il parere a un esperto di dattiloscopia, Bill Bailey, il quale stabilì che Mullins e Peters erano giunti a una conclusione diversa analizzando aree diverse dell'impronta. Secondo lui, l'impronta sul muro non poteva essere di Debbie Carter.) Il giudice federale respinse l'istanza di Peterson con la seguente motivazione: "Esistono fatti che avvalorano la possibilità che Peterson, Peters e Mullins, singolarmente e di concerto, abbiano falsificato in modo sistematico materiale probatorio al fine di ottenere un verdetto di condanna". E poi: Diverse prove indiziarie indicano la possibile violazione di uno o più diritti costituzionali dei ricorrenti da parte dei responsabili delle indagini e del procuratore Peterson. La ripetuta omissione di materiale probatorio a discolpa degli imputati a fronte dell'inclusione di tutto il materiale probatorio a loro carico e di prove dubbie, ove non palesem*nte false, il mancato approfondimento di piste implicanti altri individui e l'utilizzo di conclusioni forensi discutibili indicano una volontà di ottenere un verdetto di condanna per Williamson e Fritz a dispetto di numerosi e consistenti segnali dell'iniquità dello stesso. Questa pronuncia, emessa il 7 febbraio 2002, fu un colpo gravissimo per i convenuti. Renee cercava da anni di convincere Annette ad andare via da Ada. La gente mormorava, la chiesa li aveva delusi, la causa in corso stava peggiorando il clima di ostilità nei loro confronti. Annette non aveva mai voluto lasciare la sua città. Ron era innocente e lei andava a testa alta, senza badare alle voci che giravano e alle occhiatacce della gente.

Ma da quando era stata intentata la causa, la situazione era diventata insostenibile. Dopo quasi due anni di intenso lavoro, Mark Barrett e Barry Scheck sentivano che il vento stava girando a loro favore. La sensazione generale era che il risarcimento stesse per essere accordato senza neppure bisogno di celebrare il processo. E così nell'aprile del 2002 Annette si convinse a lasciare la città in cui viveva da sessant'anni. Si trasferì a Tulsa, dove aveva dei parenti. Poco dopo, Ron la raggiunse. Annette era contenta che fosse andato via da Norman, perché aveva ripreso a bere e quando si ubriacava parlava a cani e a porci del risarcimento che stava per ottenere, circondandosi di disgraziati pronti ad approfittare di lui nel caso l'avesse ottenuto. Ben presto Ron imparò che nella nuova casa di Annette a Tulsa le regole erano le stesse che a Ada, specie quella che impediva il consumo di alcolici. E così smise un'altra volta di bere, cominciò a frequentare la chiesa della sorella e strinse un forte legame con il pastore. Esisteva un gruppo di studio della Bibbia che si chiamava "Light for the Lost" e raccoglieva fondi per le missioni organizzando fra l'altro una cena al mese, a base di bistecche e patate al forno. Anche Ron vi partecipò. Il suo compito era avvolgere le patate nella stagnola, e gli piaceva moltissimo. Nell'autunno del 2002 l'azione legale che Peterson aveva definito "pretestuosa" ebbe come esito un risarcimento milionario. Per salvare la faccia, i convenuti conclusero una trattativa privata accettando di versare una cifra da capogiro pur di non venire pubblicamente sbugiardati. Gli atti vennero secretati e messi sotto chiave. I pettegolezzi si sprecarono, specie dopo che le autorità cittadine furono costrette ad ammettere di aver attinto alle riserve destinate alle emergenze per pagare la propria parte, che ammontava a più di 500.000 dollari. La cifra complessiva cambiava da bar a bar, ma erano tutti d'accordo che i ricorrenti avessero ottenuto circa cinque milioni di dollari. Fu questa la cifra che apparve sull'"Ada Evening News", che però non rivelò le proprie fonti. Siccome Ron e Dennis non erano ancora stati cancellati dal registro degli indagati, molti benpensanti di Ada continuavano a essere convinti che fossero stati loro ad ammazzare Debbie Carter e trovavano scandaloso che ci guadagnassero sopra. Mark Barrett e Barry Scheck consigliarono ai loro clienti di prendere

una certa somma subito e poi un tanto al mese, in maniera da salvaguardare il capitale. Dennis si comprò una casa in un sobborgo di Kansas City. Si occupò di sua madre e di Elizabeth e versò il resto in banca. Ron non fu altrettanto prudente. Convinse Annette a comprare un appartamento vicino a casa sua e alla chiesa, che costava 60.000 dollari, era molto grazioso e aveva due camere da letto. Ci andò a vivere da solo. Per qualche settimana rimase stabile e quando Annette non poteva accompagnarlo in chiesa ci andava da solo a piedi. Ma nel giro di poco tornò a bazzicare bar e nightclub, a offrire da bere a tutti e dare mance di migliaia di dollari alle spogliarelliste. Spendeva, spandeva, parlava troppo e si circondava di scrocconi e approfittatori. Era generoso, ingenuo e non aveva la minima idea di come gestire il suo patrimonio. Prima che Annette riuscisse a bloccarlo, si era già bruciato 50.000 dollari. Vicino a dove abitava, c'era un bar che si chiamava Bounty, dove andava a bere il padre di Greg Wilhoit, Guy. Lui e Ron si conobbero, cominciarono a fare amicizia e a chiacchierare di Greg e degli altri nel braccio della morte. Guy disse al padrone e ai baristi che Ron era amico suo e di Greg e li pregò di avvisarlo, se mai ci fossero stati dei problemi. "Per favore, prima di chiamare la polizia, chiamate me" si fece promettere. Ma Ron non riusciva a stare lontano dai nightclub. Gli piaceva soprattutto il Lady Godiva, dove si infatuò di una spogliarellista. Scoprì che era già impegnata, ma decise di non badarci. Anzi, siccome il suo appartamento aveva due camere da letto e lei non aveva un posto dove stare, la invitò a casa sua con la famiglia. E così la spogliarellista si trasferì da lui, con i due figli e il loro presunto padre. La dispensa era vuota, però. Ron chiamò Annette e le fece un elenco delle cose da comprargli. Lei protestò, ma alla fine andò a fargli la spesa e, quando gliela portò in casa, trovò la spogliarellista con tutta la sua famiglia nella stanza degli ospiti. Ron non c'era e i quattro si chiusero in camera fingendo di non esserci, per non parlarle. Ma Annette diede loro un ultimatum dietro la porta sbarrata e minacciò di denunciarli se non se ne fossero andati via subito. Quelli allora se la diedero a gambe e Ron sentì molto la loro mancanza. Le avventure continuarono finché Annette non intervenne con un'ordinanza, in qualità di tutore di incapace. Ron litigò furiosamente con la sorella, ma alla fine ammise che aveva ragione. Vendettero l'appartamento e

Ron tornò in una casa di cura. I suoi più cari amici non lo abbandonarono. Dennis Fritz sapeva che Ron faceva fatica a trovare un giusto ritmo di vita e gli propose di andare a stare da lui a Kansas City. Avrebbe controllato che prendesse le medicine, lo avrebbe tenuto a dieta, gli avrebbe fatto fare un po' di moto e gli avrebbe impedito di bere e di fumare troppo. Aveva scoperto l'alimentazione naturale, gli integratori vitaminici, le tisane e le erbe e voleva farli provare anche al suo amico. Ne parlarono per settimane, ma alla fine Annette pose il veto. Greg Wilhoit, ormai californiano, fortemente impegnato nella campagna di sensibilizzazione contro la pena di morte, invitò Ron a trasferirsi a Sacramento, dove la vita era più facile e rilassata e si poteva dimenticare meglio il passato. A Ron la prospettiva piaceva, ma più come idea che come scelta reale. Bruce Leba gli offrì una stanza, come aveva già fatto numerose volte in passato. Annette approvò e Ron si trasferì da lui, che all'epoca faceva il camionista. Ron lo accompagnava nei viaggi e si divertiva molto. Annette aveva previsto che non sarebbe durata più di tre mesi, che per Ron era la media. Tutto lo annoiava, dopo un po'. Infatti, passati tre mesi litigò con Bruce per motivi futili e tornò a Tulsa, restò a casa di Annette per qualche settimana e poi andò a stare nella suite di un alberghetto. Ci restò tre mesi. La polizia di Ada dichiarò concluse le indagini sull'omicidio Carter solo nel 2001, due anni dopo il proscioglimento di Fritz e Williamson e quasi diciannove dopo la morte di Debbie. Il processo a Glen Gore fu celebrato due anni dopo ancora. Non fu Peterson a occuparsene, però, per molti motivi. Come avrebbe fatto la giuria a fidarsi di lui, che aveva già chiesto di condannare a morte altre due persone per lo stesso reato? Chiese l'esonero per conflitto di interesse e mandò il sostituto procuratore Chris Ross a coadiuvare il pubblico ministero, che veniva da Oklahoma City e si chiamava Richard Wintory. Forte della prova del DNA, Wintory ottenne facilmente un verdetto di condanna. Sulla base dei numerosi e gravi precedenti di Gore, la giuria chiese la pena capitale. Dennis si rifiutò di seguire il processo, ma Ron non ci riuscì. Ogni giorno telefonava al giudice Landrith e gli diceva: «Tommy, devi prendere Ricky Joe Simmons. Lascia perdere Gore. L'assassino è Ricky Joe Sim-

mons». Passava da una casa di cura all'altra. Appena si stufava di una, cominciava a tempestare di telefonate sua sorella e Annette gliene cercava un'altra e lo aiutava a traslocare. Certe strutture puzzavano di morte e disinfettante, altre erano più calde e confortevoli. Ron si trovò particolarmente bene in una di Howe, dove lo andò a trovare la dottoressa Susan Sharp. Ron era sobrio da settimane, stava bene. Andarono a fare una passeggiata intorno al lago. Era una bella giornata, limpida e serena. «Era come un bambino» dichiarò poi la Sharp. «Felice di essere fuori in una bella giornata di sole.» Quando non beveva e seguiva le terapie, era una compagnia piacevole. La sera Ron la invitò a cena in un ristorante nei paraggi. Era tutto fiero di portare a mangiar fuori una bella signora. 17 I dolori allo stomaco incominciarono all'inizio dell'autunno del 2004. Ron si sentiva gonfio, non riusciva a stare né seduto né coricato. Camminando, il dolore sembrava più sopportabile, ma andava continuamente peggiorando. Ron si stancava con troppa facilità, non riusciva più a dormire. Faceva i corridoi della casa di cura avanti e indietro a tutte le ore del giorno e della notte, cercando un po' di sollievo dal macigno che si sentiva costantemente sullo stomaco. Annette abitava a due ore di distanza e non lo vedeva da un mese; benché per telefono lui si fosse lamentato di non stare bene, quando andò a prenderlo per portarlo dal dentista rimase sconcertata nel vederlo tanto gonfio. «Sembrava incinto di dieci mesi» disse. Lasciò perdere il dentista e lo portò al pronto soccorso di Seminoie. Da lì lo trasferirono nell'ospedale di Tulsa, dove il giorno dopo gli venne diagnosticata una cirrosi epatica, inoperabile, intrattabile, senza possibilità di trapianto. Fu la seconda condanna a morte, per Ron. Peggiore della prima, visto che le previsioni più ottimistiche gli davano sei mesi. Aveva cinquantun anni e più di quattordici li aveva passati in carcere, impossibilitato a bere. Dal suo rilascio, cinque anni prima, aveva certamente abusato di alcolici, ma aveva anche trascorso lunghi periodi di tempo senza toccarne.

Sembrava strano che avesse già la cirrosi. Annette chiese lumi ai medici, i quali le spiegarono che oltre all'alcol Ron aveva abusato anche di sostanze, prevalentemente prima della detenzione, ma soprattutto aveva assunto potenti psicofarmaci per una buona metà della sua vita. Forse c'era anche una qualche predisposizione genetica, non era da escludere. Ma ormai non aveva più importanza. Annette chiamò Renee e le comunicò la triste notizia. I medici gli drenarono alcuni litri di liquidi dall'addome e poi chiesero ad Annette di cercargli un'altra sistemazione. Sette strutture le dissero di no, ma alla fine trovò una stanza alla Broken Arrow Nursing Home, dove Ron venne accolto come uno di famiglia. Annette e Renee capirono ben presto che la prognosi di sei mesi era stata fin troppo ottimistica. Ron peggiorava a vista d'occhio. A parte l'addome orribilmente gonfio, era magro e incartapecorito. Non mangiava e dopo un po' smise anche di bere e di fumare. Quanto meno gli funzionava il fegato, tanto più atroci erano i dolori. Non stava comodo in nessuna posizione e passava ore a camminare avanti e indietro nella sua camera e per i corridoi della casa di cura. I suoi parenti cercavano di passare più tempo possibile con lui. Annette stava abbastanza vicino, ma Renee, Gary e i loro figli abitavano nei pressi di Dallas, a cinque ore di macchina. Ciononostante, andavano da lui più spesso che potevano. Anche Mark Barrett gli fece visita diverse volte. Era molto impegnato, ma Ron era sempre stato una priorità per lui. Parlarono della morte e dell'aldilà, di Dio e della sua promessa di salvezza attraverso Cristo. Ron sembrava sereno di fronte alla morte. L'aveva aspettata come una liberazione per molti anni e non la temeva. Non era astioso. Rimpiangeva molte sue scelte di vita, i tanti errori e le sofferenze causate al prossimo, ma aveva chiesto sinceramente perdono al Signore e sentiva di averlo ottenuto. Non serbava rancore, anche se le sue invettive contro Bill Peterson e Ricky Joe Simmons continuarono quasi fino alla fine. Prima di morire, però, perdonò anche loro. Nel corso di una delle sue visite, Mark Barrett tirò fuori l'argomento musica e Ron gli parlò per ore della splendida carriera che lo attendeva, una volta uscito dalla casa di cura. Non gli disse che era malato e neanche che stava per morire. Annette gli aveva portato la chitarra, ma Ron faceva fatica a suonarla.

Le chiedeva spesso di cantare i suoi inni preferiti, però. L'ultima volta che Ron si esibì fu alla casa di cura, durante una serata dedicata al karaoke in cui trovò la forza di cantare. Infermieri e pazienti ormai conoscevano la sua storia e lo applaudirono. Dopo, con un sottofondo musicale registrato, Ron ballò con tutte e due le sue sorelle. A differenza di tanti malati, Ron non chiese un sacerdote per confessarsi e pregare. Conosceva le Scritture meglio di qualsiasi prete e aveva una fede solida e ben radicata. Forse aveva peccato più di altri, ma si era pentito ed era stato perdonato. Si sentiva pronto. Gli ultimi cinque anni, benché fuori dal carcere, erano stati tormentati a parte qualche breve sprazzo di felicità. Si era trasferito diciassette volte, aveva dimostrato di non essere in grado di stare da solo. Che futuro aveva? Si sentiva un peso per Annette e Renee. Lo era stato per una vita, ed era stanco. Dopo il braccio della morte, aveva confessato diverse volte ad Annette di desiderare di non essere mai nato e di aspettare con ansia il trapasso. Si vergognava di tutto il dolore che aveva causato, soprattutto ai suoi genitori, e voleva riunirsi a loro, dirgli quanto gli dispiaceva, restare con loro per sempre. Una volta, poco dopo il proscioglimento, Annette lo aveva visto davanti alla finestra della cucina, come in trance. Ron le aveva preso la mano e le aveva detto: «Prega con me, Annette. Prega il Signore che mi prenda adesso». Annette non ce l'aveva fatta. Quando tornò dai parenti per la festa del Ringraziamento, Greg Wilhoit passò dieci giorni con Ron. Ron stava spegnendosi rapidamente ed era sotto morfina, ma parlarono lo stesso a lungo del braccio della morte, orribile ma ormai fonte anche di ricordi piacevoli. Nel novembre del 2004 in Oklahoma i condannati venivano giustiziati a ritmo molto intenso e molti dei loro vecchi compagni non c'erano più. Ron sapeva che ne avrebbe trovati ben pochi, in paradiso. La maggior parte sarebbe finita all'inferno. Confidò a Greg di aver avuto il meglio e il peggio dalla vita. Non c'era altro che gli interessasse vedere e si sentiva pronto a dirle addio. «Era completamente in pace» disse Greg. «Sereno, aspettava la morte senza paura.» Quando Greg lo salutò, Ron era a malapena cosciente. Le dosi di morfina erano sempre più alte, la morte ormai imminente.

Il suo rapido declino spiazzò molti dei suoi amici. Dennis Fritz andò a Tulsa ma non riuscì a trovare la casa di cura. Decise di passare a trovare Ron un'altra volta, ma non fece in tempo. Bruce Leba era fuori per lavoro e aveva temporaneamente perso i contatti. Barry Scheck parlò con Ron in extremis per telefono. Dan Clark, uno dei detective che aveva lavorato al suo caso, predispose il vivavoce. Praticamente, quello dell'avvocato fu un monologo, perché Ron era sotto l'effetto della morfina, ormai allo stremo. Barry gli promise di andare presto a trovarlo per raccontagli le ultime novità. Riuscì però a strappare un sorriso a Ron e una risata agli altri presenti quando disse: «Ah, Ron, se per caso non ce la dovessi fare, ti prometto che prima o poi Ricky Joe Simmons lo inchiodo». Ron era ormai alla fine e i medici mandarono a chiamare i familiari. Tre anni prima Taryn Simon, la celebre fotografa, aveva girato per tutti gli Stati Uniti per intervistare le vittime di errori giudiziari e pubblicare un libro. Aveva fotografato anche Ron e Dennis e scritto un breve riassunto della loro vicenda. A entrambi aveva chiesto di scrivere qualche parola. Ron aveva detto: Spero di non andare né in paradiso né all'inferno. Quando verrà la mia ora, mi auguro di addormentarmi e di non svegliarmi più, senza neppure un brutto sogno. L'eterno riposo per cui preghiamo, ecco che cosa mi auguro. Perché non voglio il Giudizio. Non voglio che nessuno mi giudichi mai più. Quando ero nel braccio della morte mi chiedevo spesso perché ero nato, perché mi era toccato tutto questo. Che cosa ero venuto a fare al mondo? Maledicevo quasi mia madre per avermi dato alla luce, tanto stavo male. Potendo scegliere, non rinascerei. Di fronte alla morte, tuttavia, Ron cambiò idea: voleva andare in paradiso. Il 4 dicembre Annette, Renee e le loro famiglie si riunirono al suo capezzale per porgergli l'estremo saluto. Tre giorni dopo, la camera ardente della casa di cura era piena di gente. Celebrò la funzione il reverendo Ted Heaston, il pastore di Ron. Il cappellano del McAlester, Charles Story, raccontò alcuni aneddoti di quando Ron era nel braccio della morte. Mark Barrett pronunciò un discorso commo-

vente sull'amicizia che lo aveva legato a Ron. Cheryl Pilate lesse una lettera di Barry Scheck, che non era potuto intervenire perché impegnato non con uno, ma con due condannati a morte sul punto di essere prosciolti. La cassa era aperta e il vecchio grigio e pallido che vi giaceva sembrava sereno. Indossava la divisa da baseball, con tanto di guantone e mazza. Accanto alla bara era posata anche la fida chitarra. Vennero intonati due gospel, I'll Fly Away e He Set Me Free, che Ron aveva imparato da piccolo e cantato tutta la vita, anche al funerale di sua madre, nonostante le catene a polsi e caviglie, nei giorni più cupi nel braccio della morte e la sera della liberazione a casa di Annette. Era una musica coinvolgente e tutti sorrisero. Fu una funzione triste, naturalmente, ma l'atmosfera era serena. Quella che aveva appena avuto termine era stata una vita travagliata, difficile, e l'uomo che l'aveva vissuta stava forse meglio dov'era adesso. Finalmente, almeno, era libero. Nel pomeriggio un gruppetto di parenti e conoscenti accompagnò la salma al cimitero per la tumulazione. Il corteo per le strade di Ada raccolse numerosi amici di famiglia. Per rispetto alla famiglia Carter, Annette scelse un camposanto diverso da quello in cui era stata sepolta Debbie. Era il 7 dicembre 2004, ventiduesimo anniversario della morte di Debbie Carter, una giornata fredda e ventosa. A portare il feretro furono, fra gli altri, Bruce Leba e Dennis Fritz. Dopo un breve discorso del pastore, una preghiera e alcune lacrime, la salma venne tumulata. Sulla lapide è scritto: RONALD KEITH WILLIAMSON 3 febbraio 1953 4 dicembre 2004 Incarcerato ingiustamente nel 1988 Prosciolto il 15 aprile 1999 NOTA DELL'AUTORE Mentre sfogliavo il "New York Times" due giorni dopo i funerali di Ron Williamson, mi cadde l'occhio su un articolo dedicato alla sua vicenda. Mi colpì il titolo: Muore a 51 anni Ronald Williamson, ingiustamente condannato a morte, e lo lessi. Era di Jim Dwyer e mostrava una foto di Ron

in aula il giorno del proscioglimento, con l'espressione a metà fra l'incredulo e il sollevato. Non avevo mai sentito parlare né di lui né di Dennis Fritz. Rilessi l'articolo una seconda volta. Neppure al massimo della mia creatività sarei riuscito a concepire una storia così complessa e articolata come quella realmente vissuta da Ron. E non sapevo ancora tutto! Contattai le sorelle di Ron, Annette e Renee, e decisi di scrivere un libro sulla vicenda. Non avevo mai preso seriamente in considerazione l'idea di scrivere non fiction - mi diverto troppo a costruire romanzi - e non sapevo a che cosa sarei andato incontro. Per condurre le ricerche e scrivere il libro ho impiegato diciotto mesi. Sono andato a Ada diverse volte - nel palazzo di giustizia, nel carcere e in diversi locali -, ho visitato la vecchia e la nuova sede del braccio della morte del McAlester, sono stato due ore a parlare di baseball con Murl Bowen ad Asher, mi sono recato negli uffici di Innocence Project a New York, ho pranzato con il giudice Frank Seay in un ristorante di Seminoie, ho fatto il giro dello Yankee Stadium, ho incontrato Tommy Ward nel carcere di Lexington e a Norman, dove facevo base, ho discusso per ore con Mark Barrett. Ho incontrato anche Dennis Fritz a Kansas City, Annette e Renee a Tulsa e, quando sono riuscito a convincere Greg Wilhoit a raggiungermi in Oklahoma dalla California, mi sono fatto accompagnare da lui al Big Mac, dove Greg ha rivisto la sua vecchia cella per la prima volta dopo quindici anni. A ogni incontro la storia prendeva una piega diversa. Avrei potuto scrivere un libro di cinquemila pagine. Questa avventura mi ha fatto scoprire il mondo degli errori giudiziari, cui non avevo mai prestato troppa attenzione, neppure quando facevo l'avvocato. Vicende di questo genere non sono prerogativa dell'Oklahoma, tutt'altro. Ne avvengono ogni mese in tutti gli Stati del Nordamerica, per motivi sempre diversi e al tempo stesso sempre uguali: indagini approssimative, analisi che hanno poco di scientifico, identificazioni fallaci, difensori incapaci e pubblici ministeri troppo pigri o troppo arroganti. Nelle grandi città, i tecnici forensi sono oberati di lavoro e per sveltire le procedure a volte diventano approssimativi; nelle città più piccole, i poliziotti spesso mancano di adeguata formazione e supervisione. Omicidi e stupri sono scioccanti, la gente vuole che la polizia trovi il colpevole prima possibile. Si dà per scontato che il sistema funzioni con professionalità e rigore. Quando così non è, accadono episodi come quelli di Ron Williamson e Dennis Fritz.

O di Tommy Ward e Karl Fontenot, cui la pena di morte è stata commutata in carcere a vita. Tommy un giorno potrebbe ottenere la condizionale, Karl no, per un problema procedurale. Il DNA non può scagionarli perché non esiste materiale biologico. Non si scoprirà mai chi ha ucciso Denice Haraway. O perlomeno la polizia non lo scoprirà mai. Se volete saperne di più, consultate www.wardandfontenot.com. Mentre svolgevo le mie ricerche, ho scoperto altri due casi legati a Ada. Nel 1983 un certo Calvin Lee Scott fu processato per stupro nel tribunale della contea di Pontotoc. La vittima era una giovane vedova, aggredita nel sonno in casa propria, che non aveva visto in faccia l'uomo perché questi le aveva messo un cuscino sulla faccia. Un perito dell'OSBI dichiarò che due peli ritrovati sul corpo della vittima risultavano "compatibili" con quelli di Calvin Lee Scott, che pure si proclamava innocente. La giuria lo condannò a venticinque anni di detenzione. Uscì dopo venti. Quando nel 2003 il test del DNA attestò la sua innocenza, aveva già scontato la pena. A condurre le indagini era stato Dennis Smith, a perseguire il caso Bill Peterson. Nel 2001, l'ex vicecapo della polizia Dennis Corvin si dichiarò colpevole di traffico di sostanze stupefacenti e venne condannato a sei anni di reclusione. Corvin, come ricorderete, era il poliziotto che Glen Gore disse essere suo fornitore di metamfetamina. Ada è una bella città. Quando si deciderà a togliere di mezzo le mele marce? Quando si stancherà di pagare per i loro errori, forse. Negli ultimi due anni, le imposte catastali sono aumentate ben due volte, per rimpinguare le riserve prosciugate dai risarcimenti versati a Ron e Dennis. È scandaloso che anche i Carter, essendo proprietari di immobili, abbiano dovuto tirar fuori quei quattrini. È impossibile calcolare i costi di simili errori. L'Oklahoma spende circa 50.000 dollari l'anno per ogni detenuto. Senza contare le spese aggiuntive relative al braccio della morte e alle cure psichiatriche, solo per Ron ne ha spesi 600.000. E lo stesso per Dennis. Aggiungiamo le somme ottenute dai due a titolo di risarcimento e i conti sono presto fatti. L'errore giudiziario, nel loro caso, è costato diversi milioni di dollari. Naturalmente, questa cifra non comprende le migliaia di ore degli avvocati d'ufficio che hanno lavorato con tanta diligenza per rimediarvi, né quelle degli addetti della procura che cercavano invece di confermarlo. A pagare, come sempre, sono stati i contribuenti.

Eppure si giocò al risparmio, riconoscendo a Barney Ward il misero compenso di 3600 dollari per la difesa di Ron e negandogli la perizia di parte, eccessivamente costosa. Anche Greg Saunders ricevette 3600 dollari per difendere Dennis e anche a lui venne negata la perizia per mancanza di fondi. Se i danni economici sono irritanti, quelli dal punto di vista umano sono a dir poco scandalosi. Com'è ovvio, il fatto di essere condannato ingiustamente pesò moltissimo sulla malattia mentale di Ron, che non si riprese più, neppure dopo che venne rilasciato. Succede quasi sempre. Dennis Fritz è stato fortunato: ha avuto il coraggio, l'intelligenza e alla fine anche i soldi per potersi rifare una vita. A Kansas City conduce un'esistenza tranquilla e agiata e l'anno scorso è diventato nonno. Bill Peterson lavora tuttora alla procura di Ada, insieme a Nancy Shew e Chris Ross. Anche Gary Rogers continua a fare l'ispettore. Dennis Smith è andato in pensione nel 1987 ed è morto improvvisamente il 30 giugno 2006. Barney Ward è deceduto nell'estate del 2005, mentre io scrivevo il libro, e non ho avuto la possibilità di intervistarlo. Il giudice Ron Jones ha smesso di fare il giudice nel 1990 e si è trasferito. Glen Gore è nella H Unit del McAlester. Nel luglio del 2005 la Corte d'appello dell'Oklahoma gli ha dato ragione e ha ordinato un nuovo processo. Il motivo è che Gore non ricevette un giusto processo in quanto il giudice Landrith non concesse al suo difensore di ammettere come prova il fatto che altri due uomini erano stati condannati per lo stesso reato. Il 21 giugno 2006 Gore è stato condannato nuovamente. La giuria non è riuscita a pervenire a un accordo sulla pena di morte e, come prescrive la legge, il giudice Landrith l'ha condannato all'ergastolo senza possibilità di condizionale. Sono molte le persone che mi hanno aiutato a scrivere questo libro e che desidero ringraziare. Annette, Renee e i loro familiari mi hanno dato libero accesso a ogni aspetto della vita di Ron. Mark Barrett mi ha dedicato moltissimo tempo, accompagnandomi in giro per l'Oklahoma, raccontandomi storie che all'inizio facevo fatica a credere, aiutandomi a contattare testimoni e a trovare vecchi atti e documenti. La sua assistente, Melissa Harris, mi ha fotocopiato migliaia di documenti, conservandomeli in perfetto ordine. Dennis Fritz ha ripercorso la sua dolorosa storia con notevole entusiasmo e ha risposto a ogni mia domanda. Lo stesso ha fatto Greg Wilhoit.

Brenda Tollett "dell'Ada Evening News" ha frugato negli archivi tirandone miracolosamente fuori tutti gli articoli relativi alla vicenda Carter e Haraway. Ann Kelley Weaver, che adesso lavora per "The Oklahoman", ricordava molti dei servizi pubblicati sul proscioglimento. Sulle prime il giudice Frank Seay è stato riluttante a parlare del suo lavoro. Come i giudici di una volta, ritiene che il proprio ruolo imponga di stare lontani dalle luci della ribalta. Alla fine, però, ha acconsentito a parlarmi. Nel corso di una telefonata, l'ho chiamato "eroe" e lui ha respinto la mia definizione quasi come se fosse stata un'obiezione a un processo. Vicky Hildebrand lavora ancora con lui e ricorda benissimo l'emozione che provò nel leggere la petizione di Habeas Corpus di Ron. Jim Payne è diventato giudice federale e, pur essendo molto collaborativo, ha manifestato scarso interesse a prendersi il merito del rinvio dell'esecuzione di Ron. Tuttavia, è stato anche lui un "eroe": la sua attenta lettura della memoria di Janet Chelsey a casa, fuori dell'orario lavorativo, gli suscitò abbastanza preoccupazione da fargli raccomandare al giudice Seay un rinvio in extremis. Pur essendo entrato in scena solo all'ultimo, il giudice Tom Landrith ebbe l'enorme soddisfazione di presiedere l'udienza in cui Ron e Dennis furono prosciolti, nell'aprile del 1999. Incontrarlo nel palazzo di giustizia di Ada è stato sempre un piacere, per me, oltre che fonte di informazioni preziose. Barry Scheck e gli altri dell'Innocence Project sono stati disponibili e gentilissimi. Hanno fatto prosciogliere già centottanta persone grazie al test del DNA e hanno ispirato altri movimenti per la liberazione degli innocenti in tutto il paese. Se volete saperne di più, visitate il sito www.innocenceproject.org. Tommy Ward ha passato tre anni e nove mesi nel braccio della morte, la vecchia F Cellhouse, prima di venire esiliato per sempre nel carcere di Lexington. Ci siamo scritti molte lettere. Mi ha raccontato anche cose di Ron, consentendomi di riportarle nel mio libro. Per riferire la sua vicenda da incubo, mi sono rifatto a The Dreams of Ada di Robert Mayer. È un libro affascinante, che prova quanto può essere importante scrivere di fatti realmente avvenuti. Mayer mi ha aiutato molto nelle mie ricerche. Desidero ringraziare anche gli avvocati e lo staff dell'Indigent Defense System dell'Oklahoma: Janet Chesley, Bill Luker e Kim Marks. E anche Bruce Leba, Murl Bowen, Christy Shepherd, Leslie Delk, il dottor Keith

Hume, Nancy Vollertsen, la dottoressa Susan Sharp, Michael Salem, Gail Seward, Lee Mann, David Morris e Bert Colley. John Sherman, al terzo anno di giurisprudenza alla University of Virginia, ha trascorso un anno e mezzo a leggere le pile di scartoffie che abbiamo raccolto e non so come abbia fatto a mantenerle in ordine. Mi sono avvalso di volumi e volumi di testimonianze giurate rese dalla maggior parte dei personaggi coinvolti nella vicenda. Alcune interviste non sarebbero neppure state necessarie. Alcune non sono state concesse. Le uniche cose che ho cambiato sono i nomi delle presunte vittime di stupro. John Grisham 1° luglio 2006 FINE

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